16 Aprile 2024

La responsabilità del proprietario per danni arrecati da opere realizzate nel sottosuolo

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2024, n. 3092 – Pres. Travaglino – Rel. Spaziani

Parole chiave: Responsabilità civile – Danni provocati da opere realizzate nel sottosuolo – Esercizio di facoltà afferenti al diritto di proprietà – Applicabilità dell’art. 840 c.c.

[1] Massima: “In tema di responsabilità civile per danni da rovina di edifici, si applica l’art. 840 c.c. (che configura una responsabilità colposa del proprietario per i danni cagionati ai vicini da opere ed escavazioni realizzate nel sottosuolo) e non l’art. 2053 c.c., nel caso in cui nella determinazione dell’evento pregiudizievole assuma rilievo causale l’esercizio, da parte del proprietario, delle facoltà che costituiscono manifestazione del suo diritto nei rapporti di vicinato”.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 840, 2053

CASO

La società proprietaria di un’area appaltava a un’impresa l’esecuzione di lavori di scavo per la realizzazione nel sottosuolo di un’autorimessa interrata.

Nel corso di detti lavori, il muro di contenimento eretto al fine di evitare movimenti del terreno dalle zone limitrofe cedeva, provocando la scopertura delle fondazioni degli edifici confinanti.

I proprietari di uno di tali immobili, che aveva subito gravissimi danni strutturali, agivano in giudizio per ottenere il risarcimento del danno.

Il Tribunale di Venezia respingeva la domanda proposta nei confronti della proprietaria del terreno su cui erano state realizzate le opere di scavo, ritenendo applicabile l’art. 840 c.c. – in luogo dell’invocato art. 2053 c.c. – e ravvisando l’assenza di colpa.

La sentenza di primo grado veniva confermata, quanto all’esclusione di responsabilità in capo alla società proprietaria del terreno, all’esito del giudizio d’appello, dal momento che l’affidamento dei lavori di scavo in appalto a un soggetto terzo escludeva la possibilità di imputarle una condotta colposa, non essendo stata fornita la prova che il committente, in base al contratto d’appalto, avesse mantenuto la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per chiedere il rispetto delle normative di sicurezza e se ne fosse avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o direttive vincolanti tali da ridurre o addirittura eliminare l’autonomia dell’appaltatore.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia veniva proposto ricorso per cassazione.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, dal momento che la rovina aveva interessato un muro di contenimento provvisoriamente realizzato al fine di evitare che, durante l’esecuzione dei lavori di scavo appaltati, si verificassero movimenti di terreno nelle zone limitrofe, sicché era stato giustamente applicato l’art. 840 c.c. – anziché l’art. 2053 c.c. – ed era stata altrettanto correttamente esclusa la responsabilità della società proprietaria del fondo interessato dai lavori di scavo, non essendo stata dimostrata alcuna sua ingerenza nell’esecuzione delle opere appaltate.

QUESTIONI

[1] Con la sentenza che si annota, la Corte di Cassazione delinea i rapporti, i confini e i limiti di applicabilità, rispettivamente, degli artt. 840 e 2053 c.c., in una fattispecie nella quale i proprietari di un fabbricato lesionato in conseguenza dell’esecuzione di lavori di scavo nel fondo confinante avevano agito in giudizio nei confronti del proprietario di tale fondo per ottenere il risarcimento dei danni e si erano visti rigettare la domanda sia in primo che in secondo grado.

L’art. 2053 c.c. pone a carico del proprietario di un edificio o di altra costruzione che rovini la responsabilità dei danni provocati a terzi, secondo un criterio di imputazione oggettivo, che ammette, in funzione liberatoria, la sola dimostrazione che la rovina sia dovuta non a vizi di costruzione o a difetto di manutenzione, bensì a un fatto (anche del terzo o del danneggiato) dotato di efficacia causale autonoma. L’art. 2053 c.c., assumendo quale presupposto applicativo il diritto di proprietà della cosa che ha provocato il danno, si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 2051 c.c. (secondo il quale ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia), che potrà, quindi, venire in considerazione quando il responsabile abbia la disponibilità della cosa in forza di un titolo diverso dalla proprietà.

L’art. 840 c.c., invece, prevede la responsabilità del proprietario del fondo in cui siano state eseguite attività di escavazione o realizzate opere nel sottosuolo per i danni causati a terzi in quanto sia ravvisabile in capo allo stesso una condotta colposa, cui possa ascriversi l’evento dannoso, escludendosi dunque una responsabilità di carattere oggettivo.

L’art. 840 c.c., peraltro, attribuendo al proprietario del fondo la facoltà di fare nel sottosuolo, indifferentemente, escavazioni od opere, le pone sullo stesso piano anche sotto il profilo della responsabilità derivante in conseguenza di eventi lesivi dei diritti dei vicini.

La Corte di cassazione, confrontando i precetti dettati dalle due norme, evidenzia come, nell’ipotesi di danni derivanti dalla realizzazione di una costruzione in occasione di scavi eseguiti nel sottosuolo, quand’anche determinati dalla rovina di detta costruzione, non sia applicabile sempre e comunque l’art. 2053 c.c.

Diversamente opinando, infatti, si determinerebbe un’abrogazione (sia pure parziale) della disposizione recata dall’art. 840 c.c., perché, sostituendo al criterio di imputazione soggettivo ivi previsto quello oggettivo stabilito dall’art. 2053 c.c., ne verrebbe limitata la portata ai soli casi di escavazione, restando esclusi i casi nei quali allo scavo si accompagni l’esecuzione di opere nel sottosuolo.

Da questo punto di vista, non è nemmeno sostenibile che, anche in tali ipotesi, l’art. 840 c.c. conserverebbe comunque un proprio ambito di operatività, precisamente ogni volta che il danno non sia la conseguenza di una rovina in senso tecnico dell’opera realizzata nel sottosuolo: secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, la nozione di rovina rilevante ai sensi dell’art. 2053 c.c. ha una latitudine ampia, che ricomprende ogni disgregazione – sia pure limitata – degli elementi strutturali della costruzione, ovvero degli elementi accessori in essa stabilmente incorporati.

In altre parole, l’indiscriminata applicazione dell’art. 2053 c.c. quale criterio d’imputazione della responsabilità del proprietario che abbia commissionato lavori nel sottosuolo, oltre a ridurre significativamente l’ambito e il contenuto precettivo dell’art. 840 c.c., frustrerebbe l’esigenza di uniformità di trattamento delle due fattispecie contemplate dalla medesima disposizione, riconducibile all’equiparazione delle facoltà di godimento del sottosuolo riconosciute al proprietario (ed esplicantisi tanto nella mera escavazione, quando nella realizzazione di opere), anche per quanto concerne il limite a esse sotteso (rappresentato dall’impossibilità di arrecare danno ai vicini).

È quindi evidente che, nell’ipotesi in cui tale limite sia violato, la responsabilità del proprietario dev’essere fondata sul medesimo criterio d’imputazione.

L’interpretazione estensiva della portata dell’art. 2053 c.c., oltre a porsi in contrasto con l’esigenza di uniformità di trattamento delle due fattispecie contemplate dall’art. 840 c.c., lederebbe anche quella di disciplinare in modo omogeneo la responsabilità derivante dall’esecuzione di lavori od opere realizzate, rispettivamente, sopra e sotto il suolo, che, in entrambi i casi, rappresenta espressione delle facoltà proprietarie nelle quali si esplica il diritto dominicale.

Tenuto conto di queste esigenze di uniformità, non è ammissibile che l’applicazione del criterio di imputazione oggettivo recato dall’art. 2053 c.c. annulli lo spazio operativo di quello previsto dall’art. 840 c.c.

Pertanto, secondo la Corte di cassazione, va esclusa l’applicabilità dell’art. 2053 c.c., in favore dell’art. 840 c.c., ogni volta che assuma rilievo causale, nella determinazione dell’evento dannoso, l’attuale esercizio, da parte del proprietario del fondo, delle facoltà che costituiscono manifestazione del diritto di proprietà nei rapporti di vicinato.

Di conseguenza, se, in occasione della realizzazione di escavazioni o di opere nel sottosuolo, si producono danni ai vicini, il proprietario, in virtù di quanto previsto dall’art. 840 c.c., deve ritenersi obbligato al risarcimento secondo gli ordinari criteri d’imputazione della responsabilità, vale a dire quando sia riscontrabile una sua condotta colposa.

Al contrario, troverà applicazione l’art. 2053 c.c. e potrà farsi applicazione del criterio di imputazione oggettivo se non sussista alcun legame tra l’attuale esercizio delle facoltà del proprietario del fondo e l’evento lesivo, poiché la rovina concerne un edificio o una costruzione (o una sua parte) preesistenti o successivi all’attività di escavazione o alla realizzazione di opere nel sottosuolo: in questo caso, dunque, il proprietario sarà chiamato a rispondere dei danni provocati a terzi indipendentemente dalla ravvisabilità o meno di una sua condotta colposa.

In conclusione, il discrimen tra le due disposizioni e il rispettivo ambito di applicabilità consiste in ciò, che mentre il criterio di imputazione ordinario di cui all’art. 840 c.c. viene in considerazione quando l’evento dannoso si colloca durante l’attività di escavazione o di realizzazione dell’opera nel sottosuolo, la rovina di quest’ultima dopo il suo completamento o di sue singole parti strutturalmente e funzionalmente autonome già terminate determina l’operatività della regola dettata dall’art. 2053 c.c.

Nel caso esaminato, essendo stato accertato che la rovina aveva interessato un muro di contenimento provvisoriamente realizzato per evitare movimenti di terreno nelle zone limitrofe all’area di scavo (e, dunque, un’opera priva di autonomia funzionale e strutturale), mentre erano in corso i lavori appaltati, i giudici di merito avevano correttamente applicato la norma di cui all’art. 840 c.c., in luogo di quella dettata dall’art. 2053 c.c., escludendo la responsabilità della società proprietaria del fondo in quanto non era stata provata alcuna condotta di ingerenza colposa nei confronti dell’impresa appaltatrice.

A tale riguardo, la Corte di cassazione ha rammentato la regola in base alla quale, quando i danni cagionati a terzi derivino da opere eseguite in adempimento di un contratto d’appalto, degli stessi risponde normalmente l’appaltatore, essendo predicabile una responsabilità del committente solo quando si sia ingerito con direttive vincolanti, che abbiano ridotto l’appaltatore al rango di nudus minister, o quando, per effetto dell’ingerenza, la sua autonomia, pur non completamente annullata, sia stata comunque ridotta.

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