3 Giugno 2025

Per le Sezioni Unite non è configurabile l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria quando si attribuisce erroneamente ad un soggetto la qualità di imputato anziché di indagato (e/o lo si accusa di un fatto diverso da quello per cui si indaga)

di Martina Mazzei, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. Un., 18 marzo 2025, n. 13200 – Pres. P. D’Ascola – Rel. E. Vincenti

[1] Responsabilità civile da diffamazione a mezzo stampa – Erronea attribuzione della qualità di imputato anziché di indagato ovvero di un fatto diverso da quello per cui si indaga – Esimente del diritto di cronaca giudiziaria – Configurabilità – Esclusione – Eccezione

(Cost., art. 21; Cod. civ., artt. 1223, 2043, 2059, 1337, 1338; Cod. pen., artt. 51 e 595; Legge 8 febbraio 1948, n. 47, art. 11)

[1] In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori.

CASO

[1] La vicenda prende le mosse dalla richiesta risarcitoria, per lesione dell’onore, della reputazione e dell’immagine, avanzata da un amministratore di una banca d’affari per la pubblicazione di un articolo, sul sito online di un settimanale, in cui veniva indicato come imputato per truffa, mentre all’epoca egli era solo indagato – non essendo stato ancora raggiunto dalla richiesta di rinvio a giudizio – peraltro in relazione al diverso reato di tentata truffa.

In primo grado, il Tribunale di Roma respingeva la domanda risarcitoria reputando l’articolo non diffamatorio poiché gli errori in esso contenuti non avevano scalfito l’aderenza al vero della ricostruzione complessiva dei fatti, sussistendo la sostanziale corrispondenza dello scritto alla realtà, atteso il significativo coinvolgimento del ricorrente nell’attività truffaldina ai danni di un uomo d’affari sudamericano.

In sede di gravame, invece, la Corte di Appello di Roma accoglieva la domanda risarcitoria reputando falso l’addebito nei confronti dell’appellante, ossia l’essere imputato per aver effettivamente intascato a seguito di attività truffaldina cinque milioni di dollari, sull’assunto che tale falsità non poteva ritenersi “sfumata e assorbita dall’essere effettivamente l’appellante indagato per un altro episodio meramente tentato”.

Per la Cassazione della sentenza proponevano ricorso il giornalista redattore, il direttore responsabile e l’editore sulla base di quattro motivi. La causa è stata, tuttavia, assegnata, alle SS.UU. su impulso dell’ordinanza interlocutoria n. 12239 del 6 maggio 2024, con cui la Prima Sezione civile ha evidenziato che il caso al suo esame pone una questione, al contempo di massima particolare importanza e oggetto di contrasto tra la giurisprudenza civile e quella penale, in ordine alla ricorrenza, in ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, in ragione dell’addebito, diretto o indiretto, della qualità di imputato, piuttosto che di quella di indagato, e della commissione di un reato consumato piuttosto che di un reato tentato.

SOLUZIONE

[1] Le SS.UU., dopo un’attenta disamina del diritto di cronaca e degli orientamenti giurisprudenziali formatesi nella giurisprudenza civile e in quella penale sull’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, hanno respinto il ricorso sull’assunto che l’erronea indicazione della posizione processuale dell’interessato o l’attribuzione di un fatto penalmente più grave, salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti, esclude la scriminante del diritto di cronaca e integra una condotta diffamatoria.

QUESTIONI

[1] La pronuncia che si annota è degna di particolare attenzione in quanto, oltre a dirimere un contrasto, insorto tra giurisprudenza civile e penale, in merito alla natura diffamatoria dell’attribuzione, in uno scritto, della qualifica di imputato a chi è solo indagato, fornisce anche un approfondita ricostruzione della responsabilità civile del giornalista nell’attività di cronaca giudiziaria.

Il diritto di cronaca

La libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), in un ordinamento democratico, è un diritto fondamentale poiché rappresenta il canale attraverso il quale l’identità personale si esprime all’esterno attraverso la formulazione di idee o di giudizi. Esso – che, in una dimensione sovranazionale, è contemplato dall’art. 10 CEDU, quale norma posta a tutela della libertà di espressione contro le ingerenze dei pubblici poteri – è destinatario di una tutela bidimensionale, che non si arresta all’esercizio in forma individuale, ma si estende anche alla sua manifestazione in forma collettiva, che a sua volta si interseca con il diritto all’informazione nella sua declinazione attiva – diritto di informare –

e passiva – diritto ad essere informati.

In tale contesto, dunque, si è potuto affermare che la libertà di stampa, quale massima espressione dell’esercizio in forma collettiva della libertà di manifestazione del pensiero, rappresenta una “pietra angolare dell’ordine democratico” (Corte cost., sent. n. 84 del 1969 e sent. n. 150 del 2021).

La libertà di stampa assurge, quindi, a fattispecie “qualificata” di libertà di manifestazione del pensiero, idonea a giustificare una tutela circondata da particolari cautele, che trova espressione nel diritto di cronaca (oltre che di critica), configurandosi quale esimente che attribuisce un valore oggettivamente e universalmente lecito alla condotta di propalazione di notizie (o, per il diritto di critica, di valutazioni soggettive) in tutti i rami in cui l’ordinamento si articola.

Il diritto di cronaca, in particolare, si concretizza nella narrazione oggettiva di fatti realmente accaduti, diffusi attraverso i mezzi di informazione per rispondere a un interesse pubblico alla loro conoscenza. A differenza del diritto di critica, che si caratterizza per una componente valutativa e soggettiva, la cronaca si configura come una rappresentazione neutra e fedele della realtà, finalizzata a garantire ai cittadini un’informazione chiara e trasparente su eventi di rilievo sociale, politico o economico.

Tuttavia, l’esercizio del diritto di cronaca (come anche quello di critica) è portato ad interferire con i diritti, di pari rilevanza costituzionale, posti a presidio della dignità umana del singolo destinatario della narrazione (o del giudizio critico).

I diritti della personalità, come quelli alla reputazione, all’onore e all’immagine, corollari impliciti della dignità umana ed evolutivamente desumibili dalle clausole generali di cui agli artt. 2 e 3 Cost., costituiscono limiti che comprimono ab extrinseco lo spazio in cui può validamente esplicarsi la libertà di manifestazione del pensiero attraverso il diritto di cronaca (e di critica).

Ciò si fa evidente nei casi in cui la narrazione dei fatti (o l’espressione di un giudizio) assume una connotazione diffamatoria, ossia quando il contenuto dell’informazione leda la reputazione di una persona. La diffamazione, come è noto, è sanzionata nell’ambito del diritto penale mediante la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 595 del c.p., mentre in ambito civile è fonte di responsabilità ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c. allorquando generi un danno ingiusto alla vittima, sia esso di natura patrimoniale, quando incide su aspetti economici e professionali, sia non patrimoniale, quando compromette il valore sociale e personale della reputazione.

Di qui, l’esigenza, di individuare il perimetro entro il quale l’esercizio della libertà di stampa possa considerarsi legittimo, senza trasmodare nell’intollerabile lesione di diritti individuali antagonisti.

E’ questa la logica che esprime il c.d. “decalogo del giornalista”, formulato dalla Corte di Cassazione in una risalente sentenza (si fa riferimento alla sentenza n. 5259 del 1984 della Prima Sezione civile) che la giurisprudenza successiva ha, però, recepito come ‘diritto vivente’, assumendo quella veste che, in ambito sovranazionale, ha dato corpo al principio del c.d. “giornalismo responsabile”, sul presupposto che il ruolo fondamentale della stampa, come garanzia di effettività della democraticità di un ordinamento, non valga di per sé a deresponsabilizzare l’attività del giornalista, rendendola meritevole, per ciò solo, di una tutela incondizionata.

Secondo tale principio, tratto dal secondo comma dell’art. 10 CEDU, la tutela della libertà di espressione è, per il giornalista, condizionata, quindi, da un esercizio in buona fede, nonché all’accuratezza e all’affidabilità delle informazioni veicolate al pubblico (tra le altre: Corte EDU, Grand Chamber, 20 ottobre 2015, Petikainen c. Finlandia, § 90; Corte EDU, 24 gennaio 2017, Travaglio c. Italia, §. 36; Corte EDU, 9 febbraio 2021, Sagdic c. Turchia, § 27; Corte EDU, Grand Chamber, 4 luglio 2023, Hurbain c. Belgio, § 181).

Quel “decalogo”, dunque, ha tracciato il perimetro entro cui si esplica l’efficacia esimente del diritto di cronaca (e di critica), individuandone i limiti interni, al fine di filtrare le condotte suscettibili di essere attratte in quell’orbita: verità, anche putativa, pertinenza e continenza.

Il requisito della verità

Con specifico riferimento al requisito della verità, rilevante ai fini della decisione del caso di specie, esso, in rapporto al diritto di cronaca in generale, viene individuato in un’accezione di compromesso, volta a mediare tra esigenze di flessibilità, a tutela dell’attività del giornalista, ed esigenze più rigoristiche, per la salvaguardia dei diritti della personalità con cui quella attività può interferire.

Non è necessario che la verità si declini in termini assoluti, ossia come necessaria corrispondenza tra la notizia narrata e il fatto accaduto nella realtà storica, essendo sufficiente, per integrare il requisito, che venga in rilievo una verità putativa.

Tuttavia, per ritenere legittima la propalazione di una notizia putativamente conforme al vero, non è sufficiente una mera verosimiglianza tra il narrato e l’accaduto. Si richiede, infatti, al giornalista la prova di una verosimiglianza qualificata, rapportata all’osservanza di uno standard comportamentale improntato alla diligenza e alla professionalità, in maniera tale da non deresponsabilizzarne l’attività.

Per tale ragione, il canone della verità, imposto al fine di considerare la condotta propalatrice legittima, deve declinarsi con riferimento ad una verità frutto di una rappresentazione che appare verosimile all’esito di una prodromica indagine giornalistica, condotta con scrupolo e diligenza, nell’esame, nella verifica e nel controllo della consistenza della relativa fonte informativa, di guisa che l’errore non sia frutto di negligenza, imperizia o di colpa non scusabile.

Di conseguenza, l’errore del giornalista nel controllo delle fonti informative può esimerlo da responsabilità solo se incolpevole.

Nell’assolvimento di questi oneri risiede, dunque, il contemperamento tra l’inesigibilità della verità assoluta della notizia e la garanzia di un’adeguata protezione dei beni individuali del soggetto che dalla stessa venga attinto, in coerenza con il principio del “giornalismo responsabile”.

La cronaca giudiziaria

Il diritto di cronaca, con particolare riferimento proprio al requisito della verità, assume, poi, una fisionomia peculiare quando il suo contenuto sia rappresentato dalla narrazione di vicende giudiziarie da veicolare alla collettività.

La particolare tipologia dell’informazione fa assumere all’attività consistente nella sua propalazione una vocazione culturale e sociale ancor più pregnante, condensando l’attenzione dei lettori su fatti di reato e sull’operato degli organi giudiziari.

In questo ambito, il rilievo pubblicistico dell’attività acquisisce particolare spessore in ragione del rapporto che essa viene ad instaurare rispetto ad un altro valore-principio costituzionale, riconosciuto e garantito dall’art. 101, comma secondo, Cost. Tale norma esprime un principio funzionale a garantire un’amministrazione della giustizia trasparente, in base al quale l’esercizio dell’attività giurisdizionale trova nel “popolo”, in nome del quale la giurisdizione viene esercitata, il proprio referente.

L’attività giornalistica in generale e il circuito dell’informazione in particolare assicurano una virtuosa circolarità democratica che si sviluppa attraverso il racconto dei fatti e la sensibilizzazione della collettività su tematiche che i fatti oggetto di narrazione attingono. Sicché, si stimola la formazione dell’opinione pubblica non solo sulla legge come emanata, ma anche su come essa viene applicata, consentendosi alla collettività una partecipazione attiva, informata e consapevole al complessivo processo democratico.

Tuttavia, anche nell’ambito della cronaca giudiziaria il ruolo fondamentale dell’attività giornalistica non vale di per sé a fondare una legittimazione incondizionata della propalazione di notizie e, anzi, il giudizio di bilanciamento si viene a comporre di un ulteriore valore-principio di rilevanza costituzionale: la presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost.

La partecipazione di tale principio al giudizio di bilanciamento porta con sé necessarie implicazioni che si riverberano sul requisito della verità, che viene conformato in relazione alle peculiarità della fonte primaria da cui la notizia promana, trattandosi di atti e/o provvedimenti giudiziari il cui contenuto mostra, di regola, una incisiva attitudine a ledere i diritti della personalità del soggetto che ne è attinto.

La peculiarità del contesto non impone, comunque, il ricorso a fonti informative privilegiate, giacché la notizia può essere estrapolata da una fonte ‘indiretta’, come, ad esempio, un altro articolo di giornale, che riproduca a sua volta il contenuto dell’atto/provvedimento giudiziario, in cui la notizia è incorporata. Tuttavia, il referente ultimo per valutare l’aderenza al vero della narrazione rimane la fonte primaria e ciò, dunque, preclude all’autore della pubblicazione giornalistica artificiose rielaborazioni e reinterpretazioni delle informazioni tratte da atti/provvedimenti giudiziari, alterandone o manipolandone il contenuto, imponendo, altresì, un necessario aggiornamento temporale dell’informazione, alla luce degli sviluppi investigativi e istruttori intercorsi tra il momento dell’atto/provvedimento al quale si fa riferimento e quello della divulgazione della notizia.

Il tratteggiato percorso interpretativo è il precipitato delle più generali coordinate di principio in tema di cronaca giudiziaria individuate dalla giurisprudenza di legittimità, sia civile, che penale, che, in sintesi, ha affermato:

  1. ai fini dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., è indispensabile che il giornalista verifichi, con cura e diligenza, l’attendibilità della fonte e anche l’aggiornamento della notizia che viene fornita, perché il riferimento ad un determinato atto processuale potrebbe non essere più attuale (Cass. n. 21969/2020; Cass. n. 11769/2022; Cass. pen. n. 41135/2001; Cass. pen. n. 23695/2010; Cass. pen. 27106/2010; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. pen. 32603/2023);
  2. nel caso di notizie lesive mutuate da provvedimenti giudiziari, il presupposto della verità deve essere restrittivamente inteso (salva la possibilità di inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o aggravarne la valenza diffamatoria), nel senso che la notizia deve essere fedele al contenuto del provvedimento e che deve sussistere la necessaria correlazione tra fatto narrato e quello accaduto, senza alterazioni o travisamenti di sorta, non essendo sufficiente la mera verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi (Cass. n. 22190/2009; Cass. n. 18264/2014; Cass. n. 17197/2015; Cass. n. 11769/2022; Cass. n. 6072/2023; Cass. n. 28331/2023; Cass. pen. n. 12859/2005; Cass. pen. n. 43382/2010; Cass. pen. n. 38323/2023);
  3. quanto alle inesattezze dei fatti oggetto della notizia, queste devono avere carattere ‘secondario’, ossia tali che non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili.

Con riferimento alle inesattezze sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l’offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto ‘vero’ in maniera da renderne offensiva l’attribuzione a taluno, all’esito di una valutazione del loro peso sull’intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo ‘falso’ e, oltre che tale, diffamatorio (Cass. n. 11233/2017; Cass. n. 7757/2020; Cass. n. 12903/2020; Cass. n. 13126/2024).

Emerge, dunque, come orientamento consolidato quello per cui le inesattezze secondarie, che non alterano o manipolano il contenuto diffamatorio della notizia, non si frappongono all’operatività della scriminante, proprio in ragione del fatto che una soglia di tolleranza delle infedeltà narrative debba trovare spazio inevitabilmente anche nell’ambito della cronaca giudiziaria.

Ciò è naturale conseguenza del fatto che l’imputazione della condotta diffamatoria non possa prescindere da un vaglio di offensività da condurre con riferimento al bene protetto dalla fattispecie incriminatrice.

Quando, nonostante l’inesattezza, la notizia risulti autenticamente vera sotto il profilo strutturale e fattuale, non vi è ragione per addebitare la responsabilità civile per diffamazione all’autore della pubblicazione, che abbia errato nella rappresentazione di alcuni elementi.

Tanto vale anche nell’ipotesi in cui i suddetti elementi avrebbero certamente consentito una più completa esposizione della vicenda narrata, ma senza incidere sul contenuto essenziale del dato informativo, essendo a tal fine neutri.

Del resto, si concorda sul fatto che il dovere di accertamento diligente della veridicità di elementi secondari, inidonei a condizionare la carica diffamatoria della notizia, non sia esigibile nei confronti del giornalista, sul presupposto che la presenza di imprecisioni, che non influenzino la percezione complessiva del fatto narrato, non dovrebbe ostacolare l’esercizio del diritto di cronaca.

Ai fini della individuazione in concreto della marginalità delle inesattezze le Sezioni Unite affermano che è estremamente rilevante stabilire un parametro di riferimento, che permetta di misurare la portata di esse in relazione ai destinatari dell’informazione ossia l’identificazione di un paradigma di lettore, la cui opinione possa essere conformata dalle notizie che lo raggiungono.

La prevalente giurisprudenza delle Sezioni civili (Cass. n. 20608/2011; Cass. n. 25739/2014; Cass. n. 12012/2017; Cass. n. 29640/2017; Cass. n. 16311/2018; Cass. n. 32780/2019; Cass. n. 19250/2023; Cass. n. 23978/2023; Cass. n. 13156/2024) ha assunto quale modello di lettore suscettibile di essere raggiunto e influenzato dalle notizie che gli vengono propalate il c.d. “lettore frettoloso“, quello sprovvisto di tendenza all’approfondimento.

Secondo la definizione che l’interpretazione giurisprudenziale ha fornito, il lettore frettoloso, ritenuto statisticamente prevalente, è colui che si sofferma sulle parti che graficamente sono in grado di catalizzare maggiormente la sua attenzione, come ad esempio il titolo che rechi un’affermazione chiara, compiuta, univoca, che di per sé sarebbe sufficiente ad esaurire il contenuto della notizia senza richiedere un approfondimento nella lettura del testo.

Le Sezioni Unite evidenziano che tali considerazioni assumono rilievo a fortiori alla luce del rinnovato contesto in cui la divulgazione avviene.

Infatti, preso atto dello sviluppo tecnologico e digitale che ha investito anche il settore della stampa, si è imposta un’interpretazione di tipo estensivo ed evolutivo dei connotati tipologici della nozione di stampa, desumibili dall’art. 1 della legge n. 47/1998: quello oggettivo e strutturale, che configura la stampa come riproduzione meccanica, e quello di tipo funzionale, rappresentato dalla destinazione al pubblico del prodotto editoriale.

In tal senso, dapprima le Sezioni Unite penali (Cass., S.U. pen., n. 31022/2015) e, poi, quelle civili (Cass., S.U., n. 23469/2016) si sono pronunciate sulla equiparazione tra stampa tradizionale cartacea e stampa telematica online ove sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie pubblicate, solo o anche, con mezzo telematico, affermando il principio secondo cui la tutela costituzionale assicurata dall’art. 21, comma terzo, Cost., alla libertà di stampa si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo (così anche Cass. n. 23978/2023).

Il contesto dell’informazione digitale e telematica ha alimentato la tendenza dei lettori alla ricerca di un’informazione sintetica, poiché molto spesso il lettore, utente di un social network, accede alla notizia tramite la propria “homepage”, nella quale vengono raggruppati numerosi contenuti, messi a disposizione del fruitore del servizio offerto dalla piattaforma ed essendo rimessa alla volontà di approfondimento dell’utente la visualizzazione della versione integrale del singolo contenuto digitale, cliccando su un apposito link.

Il quesito di diritto sottoposto alle Sezioni Unite

In siffatto contesto si colloca lo specifico thema decidendum che l’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione civile ha inteso rimettere alle Sezioni Unite ossia se possa invocarsi l’esimete dell’esercizio del diritto di cronaca nel caso di addebito, diretto o indiretto, della qualità di imputato, piuttosto che quella di indagato, e della commissione di un reato consumato, piuttosto che di un reato tentato.

Le Sezioni Unite ricordano che, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità (Cass. pen. 34544/2001; Cass. pen. 13702/2010; Cass. n. 18264/2014; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. n. 12370/2018; Cass. n. 11679/2022) che la rappresentazione dello status giuridico di imputato ascritto ad una persona sottoposta alle indagini sortisce degli effetti pregiudizievoli sulla reputazione del soggetto protagonista della notizia propalata.

Si sottolinea, in particolare, il carattere evidente della differenza giuridica tra avviso di conclusione delle indagini preliminari, inoltrato dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., e il rinvio a giudizio da parte del Giudice per le indagini preliminari. Tale discrasia si riverbera inevitabilmente anche sulla percezione che l’opinione pubblica matura circa lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria, che riguarda un determinato soggetto, la cui progressione tende ad alimentare il convincimento di un effettivo coinvolgimento della persona sottoposta alle indagini nei reati che hanno giustificato la pendenza della vicenda giudiziaria nei suoi confronti.

Un tale consolidato indirizzo è stato contrastato dalla sentenza delle Sezioni penali (Cass. pen. n. 15093/2020) richiamata dalla stessa ordinanza interlocutoria n. 12239 del 2024, incline a svalutare il contenuto offensivo della discrepanza tra lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria sul piano storico e quello riportato nella narrazione.

A sostegno di tale arresto si adduce l’attiguità sul piano procedimentale tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, essendo il primo prodromico al secondo, giacché, in base al disposto dell’art. 415-bis c.p.p., l’inoltro di tale avviso è subordinato all’intenzione del pubblico ministero di coltivare l’ipotesi accusatoria e precede l’avvio del processo penale a carico della persona sottoposta alle indagini. I due atti avrebbero, dunque, la comune derivazione dalla sfera dell’accusa, pur essendo gli stessi autonomi e preordinati all’assolvimento di funzioni diverse. In definitiva, uno scostamento di tale portata tra la realtà giudiziaria storica e quella narrata rivelerebbe una sostanziale inoffensività, non essendo l’inesattezza in grado di trasmodare in una falsità della notizia di natura diffamatoria.

Un contrasto interpretativo non si riviene, invece, per quanto concerne l’attribuzione di un reato diverso e più grave rispetto a quello per cui si è indagati/imputati. Le Sezioni Unite rammentano, infatti, che, sia nella giurisprudenza penale che in quella civile, è prevalente l’indirizzo che esclude l’operatività della scriminate del diritto di cronaca giudiziaria allorquando, anche solo nel titolo dell’articolo, venga impropriamente ascritto alla persona sottoposta alle indagini un addebito per un fatto-reato diverso rispetto al reato in relazione al quale si sta effettivamente svolgendo l’attività inquirente o venga ascritta, del pari impropriamente, una condotta sostanzialmente diversa e più grave rispetto a quella descritta negli atti giudiziari o nell’oggetto dell’imputazione (Cass. pen. n. 8036/1998; Cass. pen. 42155/2011; Cass. pen. n. 5760/2012; Cass. pen. n. 39503/2012; Cass. pen. n. 13782/2020; Cass. 26789/2024).

La minore gravità del titolo di reato ascritto dalla pubblicazione non rileva che sia nota agli “addetti ai lavori”, bensì alla sfera di utenza alla quale il contenuto è destinato, vale a dire quella del comune lettore (Cass. n. 3340/2009) con la conseguenza che l’oggettiva non veridicità della notizia sarebbe per ciò solo sufficiente a qualificare in termini di diffamazione la condotta divulgativa del dato non veritiero (Cass. pen. n. 3073/2016).

Le ragioni a sostegno del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite ritengono di dover aderire all’orientamento giurisprudenziale maggioritario e affermano che l’erronea rappresentazione della falsa posizione di imputato anziché di indagato, attraverso l’evocazione della richiesta di rinvio a giudizio piuttosto che dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, integra la carica diffamatoria della notizia che risulta distorta nel suo contenuto informativo essenziale.

La Suprema Corte evidenzia, a tal riguardo, che la differenza, in termini giuridici, che sussiste tra i due status è significativa, in quanto si riverbera sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto che ne è titolare nel reato che gli viene addebitato. Infatti, nell’ambito delle indagini preliminari, l’addebito contestato dagli inquirenti nei confronti della persona sottoposta alle indagini è solo provvisorio, diversamente da ciò che accade nell’ambito del processo, che prende le mosse dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, in cui tale addebito si stabilizza, assurgendo a imputazione, e sulla sua fondatezza dovrà pronunciarsi un giudice terzo ed imparziale.

Essenziale è anche il momento in cui avviene il mutamento di status che determina la transizione dalla fase procedimentale delle indagini a quella propriamente processuale. Tale snodo si identifica con l’elevazione di una formale imputazione ad opera del pubblico ministero, come risulta dall’art. 60 c.p.p. Dunque, è la richiesta di rinvio a giudizio, atto con cui il pubblico ministero esercita l’azione penale, a determinare il cambiamento della posizione del prevenuto da indagato a imputato.

In tal senso, si comprende la rilevanza di sistema della richiesta di rinvio a giudizio nella vicenda giudiziaria, con le fondamentali implicazioni che essa porta con sé, emergendo con chiarezza la profonda differenza tra questo atto e l’avviso di conclusione delle indagini preliminari ad esso prodromico.

Nonostante la comune derivazione soggettiva dei due atti, entrambi provenienti dalla sfera accusatoria, l’impropria omologazione degli stessi dà luogo ad una infedele riproduzione della vicenda giudiziaria dal punto di vista strutturale e fattuale.

L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, pur sottendendo l’intenzione del pubblico ministero di far evolvere la propria prospettazione accusatoria in una formale imputazione, non necessariamente viene seguita da una richiesta di rinvio a giudizio, in cui tale proposito effettivamente si materializza.

Se è vero che l’esercizio dell’azione penale è preceduto sempre dall’avviso ex art. 415-bis c.p.p., non è parimenti vero che a tale avviso faccia sempre necessariamente seguito l’esercizio dell’azione penale. La norma, infatti, nello stabilire l’obbligo per il pubblico ministero di comunicare la conclusione delle indagini preliminari, palesando alla persona sottoposta alle indagini un proposito, ancora solo potenziale, di elevare un addebito formale di responsabilità che determini l’instaurazione nei suoi confronti di un processo penale, non contempla una mera formalità ritualistica, scevra da qualsivoglia pregnanza assiologica. L’obbligo in esame presenta, invece, una ratio sua propria, che risiede nella garanzia del diritto di difesa della persona attinta dalla vicenda giudiziaria, alla quale è riconosciuta la facoltà di presentare memorie, produrre documenti, depositare la documentazione relativa alle investigazioni difensive, chiedere al pubblico ministero l’espletamento di ulteriori atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di essere sottoposto ad interrogatorio. Attraverso l’esercizio di queste fondamentali prerogative, il proposito accusatorio potrebbe infrangersi piuttosto che essere perseguito attraverso l’esercizio dell’azione penale.

Sicché, fino al momento della richiesta di rinvio a giudizio, l’addebito provvisoriamente contestato all’indagato non ha assunto ancora una consistenza tale da accreditare l’ipotesi accusatoria.

La diversa natura giuridica degli atti, in definitiva, evoca la diversa posizione giuridica del protagonista della vicenda giudiziaria, che non può essere trascurata al fine di valutare la carica diffamatoria del contenuto informativo inesatto.

Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all’ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatoria della notizia propalata.

Ne deriva, secondo le Sezioni Unite, che i due atti non sono confondibili e non possono essere impropriamente sovrapposti.

Simili inesattezze rendono inevitabilmente la narrazione non aderente al vero, inficiando l’autenticità del dato informativo e distorcendo l’opinione pubblica circa il grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto, al quale la notizia si riferisce, nel reato contestatogli. In tal guisa, viene gettato su di lui un immotivato discredito, compromettendone la reputazione e l’immagine sociale.

La propalazione della notizia trascende la funzione informativa, che dovrebbe giustificarla, pregiudicando anche il diritto della collettività ad un’informazione vera e corretta, in grado di soddisfare il diritto all’informazione nella sua declinazione passiva, inteso come diritto di essere informati.

Ciò detto, le Sezioni Unite precisano che la natura diffamatoria dell’anzidetta inesattezza (imputato in luogo di indagato, anche nei termini indiretti innanzi esaminati), così come di quella relativa all’addebito di un fatto diverso rispetto a quello oggetto delle indagini e idoneo a cagionare una lesione della reputazione (reato consumato in luogo di quello tentato), certamente predicabile in astratto, può sfumare nella fattispecie concreta, qualora, all’esito di un giudizio di merito si riscontri che, dal contesto complessivo della narrazione, emerga in maniera affatto chiara ed inequivocabile la verità sostanziale della notizia, non contraddetta, quindi, né opacizzata da elementi di composizione dell’articolo assumenti un rilievo lesivo di per sé dirimente.

Tale soluzione è il naturale corollario del principio, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, in base al quale la valutazione del significato diffamatorio di un’affermazione va condotta valorizzando il contesto in cui si colloca (tra le tante Cass. n. 12903/2020; Cass. n. 7757/2020).

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