Danno da fumo: per aversi corresponsabilità del fumatore non basta una generica conoscenza della nocività del fumo ma è necessaria la conoscenza dello specifico rischio connaturato alla pratica del fumo
di Martina Mazzei, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. III, ord. 23 maggio 2025, n. 13844 – Pres. Scarano – Rel. Gorgoni
[1] Responsabilità civile – Attività pericolose – Condotta colposa del danneggiato – Nesso causale tra la cosa in custodia e il danno – Danno da fumo – Conoscenza o effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica di fumo
(Cod. civ. art. 2050)
Massima: [1] “Solamente a fronte della conoscenza o della effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica del fumo, può configurarsi un concorso di colpa del consumatore fumatore. L’esercente l’attività pericolosa è tenuto ad adottare, in relazione al contesto di riferimento, misure precauzionali anche al di là di quelle strettamente imposte dalla legge, anche e soprattutto sul piano dell’informazione, al fine di evitare il rischio d’impresa derivante dall’immissione sul mercato di un prodotto ontologicamente dannoso senza specifiche informazioni in ordine al tipo di danni alla salute (conducenti, come nella specie, addirittura alla morte) cui il consumatore risulta esposto, e il relativo consumo inconsapevole da parte del fumatore. Consumo inconsapevole dei rischi specifici cui rimane esposto in ragione dell’immissione in commercio delle sigarette, invero deponente per l’esclusione che la condotta del consumatore possa considerarsi improntata ad effettiva libertà di determinazione al riguardo e come tale possa pertanto assurgere a causa prossima di rilievo nella determinazione dell’evento dannoso.”
CASO
[1] Gli eredi di una donna morta per carcinoma polmonare – sviluppatosi per l’uso protratto, dal 1965 al 1995, di circa venti sigarette al giorno – convenivano in giudizio l’Azienda produttrice di tabacco per ottenerne l’accertamento della responsabilità sul presupposto che non aveva mai informato i consumatori dell’alta nocività delle sigarette, nonostante sin dal 1950 la letteratura scientifica avesse messo in relazione il carcinoma polmonare con il fumo attivo.
Il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda risarcitoria riconoscendo il nesso causale tra la produzione di sigarette senza adeguate avvertenze sanitarie e il danno subito dalla fumatrice deceduta ma al contempo affermando la sussistenza di un concorso di colpa, nella misura del 50%, stante l’utilizzazione protratta nel tempo delle sigarette da parte della medesima, non essendo i danni da fumo del tutto ignoti ed essendovi una diffusa consapevolezza anche se “solo generica” degli effetti nocivi del fumo.
La Corte d’appello, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettava l’originaria domanda di risarcimento sul presupposto che la causa prossima di rilievo, costituita, nella specie, dalla libera scelta della vittima di fumare nonostante la consapevolezza dei danni che avrebbero potuto derivargliene, escludeva la configurabilità del nesso di causalità tra la condotta e il danno derivato dalla pratica di fumo.
SOLUZIONE
[1] Con unico motivo i ricorrenti denunciavano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2050 e 2043 cod. civ., in riferimento all’art. 360,1 co. n. 3, c.p.c., per aver la Corte d’appello erroneamente escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’Azienda produttrice e quella mantenuta dalla vittima per ben trent’anni, considerando quest’ultima quale unica responsabile in ragione della ravvisata sua libertà di autodeterminarsi ed esporsi a pratica pericolosa, quando, invece, la defunta aveva una consapevolezza solo generica e non specifica degli effetti nocivi del fumo, in difetto di idonea informazione specifica al riguardo che l’avrebbe certamente dissuasa. Il produttore, infatti, aveva immesso sul mercato un prodotto “fisiologicamente” dannoso per la salute, senza preoccuparsi dei rischi per la salute dei fumatori.
La III Sezione, sull’assunto che la vendita di prodotti del tabacco costituisce un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., ha affermato che per potersi configurare una corresponsabilità del fumatore non basta una generica conoscenza della nocività del fumo ma è necessaria la conoscenza dello specifico rischio. Applicando tale principio al caso di specie la Corte ha accolto il ricorso atteso che nel 1965, quando la vittima aveva iniziato a fumare, non era socialmente nota la correlazione tra fumo e cancro e, pertanto, la fumatrice non poteva considerarsi informata e conscia del rischio specifico di contrare il cancro.
QUESTIONI
[1] La sentenza in commento è di grande interesse in quanto la Corte di Cassazione ha chiarito quando, nel risarcimento del danno da fumo, può dirsi sussistente il concorso di colpa del fumatore.
In via preliminare, l’attività della produzione finalizzata al commercio del tabacco e, quindi, all’uso da parte del consumatore, diffondendo nel pubblico un rilevante pericolo deve definirsi, per sua natura, pericolosa, tanto più se il pericolo invocato sia quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo (così Cass. 17/12/2009 n. 26516).
Ove un’attività abbia ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e poi al consumo, la caratteristica di pericolosità può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal fatto che esso sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo.
Che la qualificazione di pericolosità possa trasferirsi dall’attività al prodotto – si parla di reificazione della pericolosità – è stato peraltro già affermato con riferimento ad altre attività (ad esempio, ma non solo, quella di distribuzione di bombole di gas) dalla sentenza della Corte di Cassazione 30/8/2004, n. 17369 (ed è stato, indirettamente, ribadito più di recente da Cass. 7/11/2019, n. 28626) che ha riconosciuto che l’art. 2050 cod. civ. “ben può prescindere dall’attività in sé e per sé, il che si verifica quando il pericolo si sia materializzato e trasfuso negli oggetti dell’attività medesima […]. Se è vero che di norma il danno è contestuale all’attività, il danno medesimo, peraltro, può prodursi in una fase successiva, purché ne dipenda in modo sufficientemente mediato […] una volta accertato che il bene costituisce strumento pericoloso, anche se l’oggetto è uscito dalla sfera di controllo del produttore e sia passato nella sfera di disponibilità del danneggiato, in virtù dell’assunto secondo il quale, terminata la fase dinamica, il pericolo viene trasfuso dall’attività agli oggetti che ne sono il prodotto“.
Né può costituire ostacolo a tale conclusione la tesi secondo cui la disciplina di cui all’art. 2050 cod. civ. va riservata alle attività di prevenzione esclusivamente unilaterale (cioè quelle in cui è solo l’agente ad essere in grado di influire sulla probabilità e sulla gravità degli eventi dannosi), atteso che “la norma di cui all’art. 1227, comma 1, cod. civ., opera per ogni figura di responsabilità, quindi anche per le ipotesi di responsabilità di indiscussa natura obiettiva, come quelle previste dagli artt. 2051 e 2052 cod. civ.” (così Cass. 17/12/2009 n. 26516).
Nell’attività di produzione e commercializzazione di derivati del tabacco la condotta del danneggiato può assumere un rilievo causale (meramente concorrente o esclusivo). Infatti, sebbene tale attività sia certamente, dal punto di vista naturalistico, la causa del danno, può non esserlo laddove la condotta oggettivamente colposa della vittima assuma il ruolo di causa sopravvenuta dotata di efficienza causale esclusiva, neutralizzante l’apporto eziologico dell’attività dell’esercente, che, pertanto, degrada al ruolo di mera occasione dell’evento dannoso.
Il concorso di colpa del consumatore fumatore, secondo la Corte di Cassazione, può configurarsi solamente a fronte della conoscenza o effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica del fumo.
Infatti, ricorda la Suprema Corte, costituisce ius receptum che “l’esercente l’attività pericolosa è tenuto ad adottare, in relazione al contesto di riferimento, misure precauzionali anche al di là da quelle strettamente imposte dalla legge (Cass. 21/05/2019, n. 13579), anche e soprattutto sul piano dell’informazione, al fine di evitare il rischio d’impresa derivante dall’immissione sul mercato di un prodotto ontologicamente dannoso senza specifiche informazioni in ordine al tipo di danni alla salute (conducenti come nella specie addirittura alla morte) cui il consumatore risulta esposto, e il relativo consumo inconsapevole da parte del fumatore. Consumo inconsapevole dei rischi specifici cui rimane esposto in ragione dell’immissione in commercio delle sigarette invero deponente per l’esclusione che la condotta del consumatore possa considerarsi improntata ad effettiva libertà di determinazione al riguardo e come tale possa pertanto assurgere a causa prossima di rilievo nella determinazione dell’evento dannoso nei termini dalla corte di merito erroneamente ravvisati nell’impugnata sentenza”.
La questione controversa, infatti, non è se vi fosse o meno una generica consapevolezza sociale e personale dell’odierna vittima in ordine alla nocività del fumo bensì se quest’ultima fosse specificamente stata informata e consapevole che il fumo è cancerogeno.
Anche senza considerare che solo nel 1975 (con la L. n. 584/1975) è stato introdotto in Italia il divieto di fumare in determinati locali e sui mezzi di trasporto pubblico, e che tale divieto è stato esteso solo molto più tardi (dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 dicembre 1995) a determinati locali della pubblica amministrazione o dei gestori di servizi pubblici; e che il divieto di pubblicizzare direttamente o indirettamente qualsiasi prodotto da fumo risale alla L. n. 52/1983, mentre il divieto di pubblicità televisiva – anche indiretta – delle sigarette è stato posto dal D.M. n. 425/1991; la prima concreta misura di dissuasione diretta, frutto della certezza raggiunta dalla comunità scientifica che il fumo sia alla base di numerose forme di cancro e di un numero indefinito di altre gravi patologie, è stata introdotta dalla L. n. 428/1990, successivamente estesa e divenuta più rigorosa con il D.Lgs. n. 184/2003, cui hanno fanno seguito misure di intervento più incisive e concrete nella lotta al tabagismo.
Pertanto, se la nocività del fumo è fatto socialmente noto a partire dagli anni ’70, tutt’altro che socialmente nota era, all’epoca cui risalgono i fatti di causa, la correlazione specifica tra fumo e cancro (e altre gravi patologie).
L’asimmetria informativa in Italia è stata colmata normativamente solo con l’emanazione della L. n. 428 del 1990, persistendo peraltro in capo all’esercente un’attività come nella specie pericolosa, al fine di andare esente da responsabilità, l’obbligo di dimostrare di aver adottato ogni misura atta ad evitare il danno (es., l’adozione di filtri volti a contenere lo sprigionamento delle sostanze cancerogene provocate dalla combustione; la produzione di sigarette con una più contenuta percentuale di catrame e di altre sostanze cancerogene; l’informazione sui rischi del fumo).
Alla luce di quanto affermato la III Sezione ha rilevato che, nel caso di specie, la Corte d’appello non ha correttamente applicato tali principi di diritto. In particolare, tenuto conto che all’Azienda produttrice è stata imputata di non avere informato adeguatamente la danneggiata della nocività del fumo, al fine di verificare la colpa della vittima nella causazione del danno e accertarne l’efficienza causale esclusiva ovvero concorrente, la Corte di merito avrebbe dovuto dapprima valutare se l’evento dannoso si sarebbe verosimilmente verificato ove uno dei due soggetti coinvolti avesse mantenuto la condotta alternativa corretta, per poi ripetere l’operazione a parti invertite (v. Cass. 4/9/2024, n. 23804; Cass. 9/5/2024, n. 12676), avendo l’obbligo di apprezzare ogni fattore causale rilevante al fine di stabilire la relativa incidenza (con)causale nella determinazione dell’evento lesivo (Cass. 29/9/2017, n. 22801). Infatti, attesa la considerazione come pericolosa dell’attività di produzione e di commercializzazione del tabacco, per recidere il nesso eziologico tra l’evento e l’attività pericolosa, la condotta del danneggiato deve essere adeguata alla natura e alla pericolosità della stessa (cfr. Cass. 22/12/2011, n. 28299) e deve essere apprezzata in chiave necessariamente relazionale.
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