Danno da prodotto difettoso e altre fattispecie concorrenti di responsabilità (in particolare nell’ambito della responsabilità da inoculazione di vaccino)
di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, Sent., 28.03.2025, n. 8224 – Dott. E. Vincenti
Onere della prova (art. 2697 c.c.) – Responsabilità del produttore (artt. 114-127 Cod. Cons.) – Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.) – Responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.)
Massima: “Nel caso di danno da prodotto difettoso, la responsabilità del produttore può essere accertata sulla base della disciplina specifica di cui agli artt. 114-127 del D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo), senza che sia consentita la coesistenza o la commistione con le fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 2043 e 2050 c.c., che dovranno trovare applicazione in coerenza con la disciplina per essi specificamente dettata dal Legislatore.”
CASO
Tizio conveniva in giudizio Alfa per sentirla condannare al risarcimento dei danni causatigli da una grave encefalomielite, insorta successivamente alla somministrazione del vaccino antinfluenzale commercializzato dalla società convenuta.
A sostegno della domanda, l’attore deduceva la difettosità del vaccino, dolendosi del fatto che il farmaco fosse stato posto in commercio senza un previo accertamento e una preliminare verifica circa la sussistenza di misure idonee ad evitare danni, facendo a tal fine valere la responsabilità di Alfa ai sensi degli artt. 2050 e/o 2043 c.c.
Nel costituirsi in giudizio, Alfa negava gli addebiti valorizzando l’anamnesi familiare di Tizio, quale soggetto predisposto a patologie neoplasiche e vascolari, l’età avanzata al momento della somministrazione del vaccino (quasi 75 anni), la circostanza che egli fosse affetto da comorbilità sia di carattere degenerativo, a carico del midollo spinale (ernie discali, protrusioni vertebrali), sia di natura cardio vascolare (ischemia, ipertensione, diabete mellito).
La convenuta, inoltre, escludeva che il vaccino antinfluenzale potesse essere ritenuto pericoloso o difettoso, avendo superato con successo tutte le verifiche previste.
Nelle more del giudizio Tizio moriva e si costituivano pertanto in prosecuzione le figlie Caia e Sempronia, che insistevano per l’accoglimento delle domande formulate dal loro padre.
All’esito del giudizio, il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda attorea, qualificando la fattispecie come responsabilità extracontrattuale del produttore ai sensi del D.P.R. 224/1988, poi trasfuso negli artt. 114 ss. del D.Lgs. n. 206/2005 (codice del consumo), e condannando Alfa a risarcire le eredi Caia e Sempronia del danno subito dal genitore.
Avverso tale sentenza, Alfa proponeva appello che la Corte territoriale rigettava.
La Corte d’Appello osservava infatti che: a) era irrilevante la questione della presenza di concause in relazione alle patologie pregresse del Tizio, poiché tale presenza avrebbe solo accelerato il decorso della malattia che tuttavia non sarebbe insorta in assenza della somministrazione del vaccino; b) era irrilevante, altresì, la questione relativa alla presenza di attestazioni di sicurezza del farmaco, perché la sentenza di primo grado ne dava atto ed escludeva trattarsi di prodotto pericoloso; c) ad Alfa si rimproverava di non avere effettuato studi in ordine agli effetti del farmaco sulla popolazione anziana e con comorbilità diabetica e neurologica, ponendo in essere una condotta sicuramente esigibile perché proprio questa era la platea dei soggetti che avevano maggiore propensione a ricorrere alla vaccinazione; d) pertanto, sulla ditta farmaceutica gravava l’onere di provare l’avvenuta effettuazione di studi specifici su questa popolazione e in assenza di tale prova, ogni altra argomentazione non intaccava il rigore della motivazione della sentenza di primo grado; e) quanto all’attore – ferma la qualificazione della responsabilità addebitabile alla industria farmaceutica in termini di responsabilità ex art. 2043 c.c., operata dal primo giudice e non investita di censure –, esso aveva l’onere di provare l’effettuazione della somministrazione vaccinale, il verificarsi del danno alla salute e il nesso causale tra la prima e il secondo in base alla regola del “più probabile che non”, da declinarsi in termini di ragionevole probabilità scientifica non essendo sufficiente che la somministrazione del vaccino apparisse una fonte solo possibile del danno successivamente verificatosi. Sul punto, come affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea 21 giugno 2017, in C-621/15, è compatibile con l’art. 4 della direttiva 85/374/CEE un regime probatorio nazionale fondato su presunzioni quando la ricerca medica non stabilisca né escluda l’esistenza di un nesso tra somministrazione di un vaccino e l’insorgenza di una malattia; l’attore aveva quindi assolto all’onere probatorio a suo carico, dimostrando l’insorgenza di sintomi quali brividi, febbre, astenia e inappetenza, nei giorni immediatamente successivi alla somministrazione del vaccino, l’assenza di tali sintomi prima del vaccino, l’ingravescenza dei sintomi sino alla tetraparesi e la diagnosi di encefalopatia post vaccinica formulata per la prima volta successivamente; f) l’onere gravante sul produttore era di dare la prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che il difetto non esisteva quando ha posto il prodotto in circolazione, o che all’epoca non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecniche scientifiche, avendo anche l’obbligo di dimostrare gli aggiornamenti degli studi scientifici e il perseverare nello studio di possibili conseguenze negative, delle cause e dei modi di evitarle; g) la nozione di prodotto “difettoso” era data dall’art. 117 del codice del consumo; h) un dubbio o anche una non perfetta compiutezza negli studi scientifici idonei a portare a risultati di assoluta certezza, dovrebbe indurre il produttore a non porre in commercio il farmaco; i) il continuo progresso della medicina anche nel campo dei prodotti terapeutici, impone di aggiornare in continuazione lo studio di eventuali interazioni tossicologiche tra il vaccino e i farmaci somministrati, trattandosi peraltro di terapie occasionali ma durature per patologie di natura cronica; l) i consulenti di ufficio, senza smentita sul punto, avevano accertato che non ci sono ad oggi dati di sicurezza ed efficacia relativi a sottopopolazioni come i diabetici o in pazienti affetti da patologie neurologiche; m) pertanto, era da ribadire l’esistenza di difettosità nella carenza di esigibili studi clinici aggiornati sugli effetti del vaccino nella popolazione anziana con comorbilità di diabete, cardiopatia e discopatie, come nel caso in esame; n) andava, dunque, confermata la sentenza di primo grado sulla esistenza della difettosità del vaccino e sul nesso di causalità tra la somministrazione dello stesso e la encefalopatia post vaccinica diagnosticata a Tizio.
Per la cassazione di tale sentenza Alfa proponeva ricorso, affidando le sorti dell’impugnazione a due motivi.
SOLUZIONE
La Suprema Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo motivo. Rinvia pertanto la causa alla Corte d’Appello, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, Alfa si lamenta del fatto che la Corte territoriale avrebbe affermato la responsabilità della casa farmaceutica per l’insorgenza della encefalomielite postvaccinica a carico di Tizio in base ad una pluralità di criteri di giudizio (riconducibili alle fattispecie regolate dagli artt. 2043 e 2050 c.c.) estranei alle disposizioni sulla responsabilità da prodotto difettoso, che soltanto fondavano la decisione assunta dal Tribunale e sulle quali si era incentrato il gravame.
Parte ricorrente si duole cioè del fatto che il giudice di appello, dapprima affermando erroneamente che il Tribunale avesse qualificato la responsabilità di Alfa ai sensi dell’art. 2043 c.c., abbia poi richiamato confusamente gli artt. 117 e 118 cod. cons., travisando, quindi, l’effettivo contenuto della relativa disciplina e decidendo la controversia sulla scorta di una regola diversa, “costruita” con una sorta di patchwork di regole, tratte da differenti contesti e tra loro sovrapposte.
La ricorrente sostiene, quindi, che la Corte territoriale, dopo aver dato per provato il difetto del vaccino, ha applicato la disciplina dell’onere della prova liberatoria individuandone correttamente il referente normativo nell’art. 118 cod. cons., ma, poi, ricavandone il contenuto al di fuori di tale previsione normativa, in qualche misura riconducendolo al dettato dell’art. 2050 c.c.
In particolare, l’avere la sentenza impugnata fatto riferimento al cosiddetto rischio da sviluppo per un verso risulta frutto di una erronea interpretazione delle norme che delineano la responsabilità del produttore, per altro verso ed in misura determinante costituisce violazione delle norme (che dovevano trovare applicazione nella specie) dettate nel codice del consumo per la sicurezza del prodotto, norme che al rischio da sviluppo non fanno riferimento.
Di qui, pertanto, anche l’affermazione, che Alfa definisce “paradossale” del giudice di appello per cui un dubbio o anche una non perfetta compiutezza degli studi scientifici idonei a portare a risultati di assoluta certezza, dovrebbe indurre il produttore a non porre in commercio il farmaco.
Inoltre, Alfa ritiene che la Corte territoriale avrebbe male inteso le indicazioni rivenienti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza del 21.6.2017, in C-621/15), in base alle quali l’onere della prova potrebbe altresì risultare violato se i giudizi nazionali applicassero il regime probatorio in maniera tale che in presenza di uno o più tipi di indizi fattuali, si presuma immediatamente e automaticamente che esiste un difetto del prodotto e/o un nesso di causalità tra tale difetto e l’insorgenza del danno. Proprio a questo risultato sarebbe, infatti, pervenuta la sentenza impugnata, che ha affermato la “difettosità” del vaccino senza considerare la prova che attestava l’idoneità dello stesso ad offrire la sicurezza che da esso ci si poteva legittimamente attendere e che il produttore avesse assolto il proprio onere probatorio, sul rischio di possibili effetti indesiderati, in misura tale da escludere l’esistenza del “difetto”.
In definitiva, secondo Alfa la Corte territoriale avrebbe adottato una soluzione frutto della combinazione di discipline tra di loro diverse, travisando il significato degli artt. 117 ss. cod. cons. e distorcendone l’applicazione, facendola refluire in quella caratterizzante il regime di responsabilità ex art. 2050 c.c.
Con il secondo motivo di impugnazione Alfa deduce che la Corte territoriale avrebbe aderito acriticamente alle conclusioni medico-legali della c.t.u. ignorando le osservazioni critiche mosse dal proprio c.t.p. sia riguardo alla sussistenza del nesso causale tra l’inoculazione del vaccino e l’insorgenza della encefalomielite, sia riguardo al fatto che, come era emerso dall’istruttoria, i dati relativi all’uso del vaccino successivo alla sua commercializzazione avevano confermato che il prodotto fosse estremamente sicuro, data la bassa frequenza di serie reazioni avverse.
La S.C. ritiene ammissibile il primo motivo di ricorso e parte con il suo ragionamento delineando l’ambito applicativo della disciplina della responsabilità del produttore per prodotto difettoso per individuarne la ratio e, quindi, evidenziarne le specificità rispetto sia alla responsabilità ex art. 2043 c.c., sia, in particolare, alla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, di cui all’art. 2050 c.c.
La Corte fa riferimento alla disciplina delineata dagli artt. 114-127 del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, non essendo applicabile ratione temporis alla controversia la direttiva (UE) 2024/2853 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2024, che ha abrogato la citata direttiva del 1985, ma con effetto a decorrere dal 9 dicembre 2026, continuando la direttiva abrogata ad applicarsi in relazione ai prodotti immessi sul mercato o messi in servizio prima di tale data (art. 21 della dir. 2024/2853/UE).
Per la S.C. la responsabilità del produttore per i danni cagionati da prodotti difettosi, pur sganciata dall’accertamento dell’elemento soggettivo, non assume la configurazione giuridica di una responsabilità oggettiva, bensì ha natura presunta (Cass n. 13458/2013; Cass. n. 15851/2015; Cass. n. 3258/2016; Cass. n. 29828/2018; Cass. n. 11317/2022). Ai sensi dell’art. 120 cod. cons., il danneggiato ha, infatti, solo l’onere di dimostrare il danno patito, il difetto del prodotto e il nesso causale che correla il primo al secondo, mentre grava sul produttore la prova dei “fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni dell’articolo 118”.
In tale contesto, assume centralità, anzitutto, la nozione di difetto recata dall’art. 117 cod. cons., la quale esprime un significato ambivalente che si traduce sia nella sicurezza del prodotto da apprezzarsi rispetto agli standard richiesti dalla normativa di settore, sia in una concezione in termini relazionali, da apprezzarsi in base alle legittime aspettative del consumatore.
Tali accezioni di difettosità non si escludono reciprocamente, ma sono complementari. Ragione per cui un prodotto, del quale sia stata accertata l’innocuità, in ragione della sua conformità agli standard richiesti per la sua immissione in commercio dalla normativa di settore, può, se rapportato alle legittime aspettative ingenerate nei consumatori in relazione all’ suo utilizzo, non risultare sicuro (Corte Giust., 11 aprile 2001, in C-477/00; Corte Giust., 28 ottobre 1992, in C-219/91). Dunque, che un prodotto sia formalmente “innocuo”, è condizione necessaria ma non sufficiente affinché questo possa essere considerato non difettoso, essendo a tal fine necessario apprezzarne anche la sicurezza da un punto di vista sostanziale e relazionale, rispetto all’uso che si può ragionevolmente prevedere dello stesso.
In questa prospettiva, il parametro sul quale calibrare le legittime aspettative del consumatore, ai fini dell’accertamento sulla dannosità del prodotto, è dato dalle informazioni indispensabili, che è onere del produttore veicolare al momento della sua immissione in commercio. Il consumatore, reso edotto dei potenziali effetti collaterali connessi all’impiego del prodotto acquistato, nonché dei rischi ai quali decide consapevolmente di esporsi, non potrà poi dolersi di una condotta illecita del produttore, quando tali rischi, da quest’ultimo debitamente rappresentati, nonché accettati con l’acquisto del prodotto stesso, si concretizzino in danni. Ciò, tuttavia, con la precisazione che, in ogni caso, non vale ad esentare il produttore da responsabilità per mancanza del difetto, l’indicazione di una generica pericolosità del prodotto, essendo necessario invece che sia specificata, ove nota o conoscibile, la derivazione del pericolo rappresentato.
Difatti, proprio in ambito di produzione e commercializzazione dei farmaci, la S.C. ha affermato che la responsabilità del produttore non è esclusa dalla prova di avere fornito, tramite il foglietto illustrativo (cd. bugiardino), un’informazione che si sostanzi in una mera avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto, dovendo piuttosto tale avvertenza consentire al consumatore di effettuare una corretta valutazione dei rischi e dei benefici e di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno, in modo da esporsi al rischio in maniera volontaria e consapevole (così Cass. n. 12225/2021). E tale avvertenza, nel caso della somministrazione di un vaccino, può riguardare anche l’interazione del prodotto con altri farmaci o con comorbilità di patologie diverse. Il necessario postulato su cui tale assunto si basa è che il produttore si adoperi diligentemente per reperire tutti i dati informativi che, al momento dell’immissione in commercio, siano accessibili e che consentano di fornire una prospettazione dei rischi quanto più possibile individualizzata, soprattutto con riferimento a categorie specifiche di consumatori maggiormente esposti ai danni in cui tali rischi potenzialmente si manifestano.
Deve essere chiaro però che, sotto il profilo temporale, l’esistenza del difetto o l’esclusione della responsabilità del produttore vanno accertati al momento dell’immissione in commercio del prodotto (come si evince dal combinato disposto di cui agli artt. 117, primo comma, lett. c) e 118, primo comma, lett. e), cod. cons.). L’accertamento della pericolosità si cristallizza, dunque, al momento dell’immissione in commercio.
Quanto alla prova del difetto e del nesso causale rispetto al danno, invece, essa può essere fornita mediante presunzioni, indispensabili per evitare che sul danneggiato incomba l’onere di una probatio diabolica, atteso che possono non essere disponibili riscontri probatori diversi per dimostrare la dannosità del prodotto. Con particolare riferimento alla casistica che qui interessa, ossia la responsabilità del produttore di un vaccino per i danni cagionati al consumatore dalla sua somministrazione, la pluralità, la gravità, la concordanza e la precisione degli indizi sono state apprezzate con riferimento all’allegazione di circostanze, come la prossimità temporale tra la somministrazione di un vaccino e l’insorgenza di una malattia, nonché la mancanza di precedenti personali e familiari a questa correlati, ovvero l’esistenza di un numero significativo di casi repertoriati di comparsa di tale malattia a seguito di simili somministrazioni.
Tuttavia, l’alleggerimento del carico probatorio in ordine all’esistenza del difetto, che legittima la prova presuntiva, non può consentire il ricorso ad automatismi in forza dei quali il dato probatorio venga ricavato sic et simplicter da un fatto secondario noto. È invece necessario che gli indizi siano gravi precisi e concordanti, poiché diversamente si verrebbe a legittimare una non consentita inversione dell’onere della prova, idonea a precludere al produttore ogni prova contraria che gli consenta di superare le presunzioni, alterando la giusta ripartizione dei rischi tra il danneggiato e il produttore (Corte Giust., 21 giugno 2017, in C-621/15).
In questa ripartizione dei rischi si colloca la prova liberatoria gravante sul produttore, il cui referente normativo si rinviene nell’art 118 cod. cons., che individua ipotesi tipiche e tassative, la cui ricorrenza esentano quest’ultimo da responsabilità. Tra queste ipotesi vengono in rilievo, per quanto qui interessa, quelle previste dalle lettere b) ed e) dell’art. 118 cod. cons. e cioè, in prima battuta, la lett. b) che esclude la responsabilità del produttore “se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione” (vengono, pertanto, estromessi dall’area dei difetti di cui il produttore è tenuto a rispondere quelli sopravvenuti); in base, poi, alla lett. e) la responsabilità è esclusa “se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso“. È questa l’esimente del c.d. “rischio da sviluppo”, che stabilisce la nozione di difettosità, fonte di responsabilità, come una difettosità originaria anche in base a quello che è la percezione che di essa, in quel momento, ragionevolmente abbia il produttore.
Il produttore beneficia cioè di una mitigazione dell’onere probatorio a suo carico, potendo sottrarsi alla responsabilità, se gli studi disponibili al momento della messa in circolazione del prodotto non consentissero di risalire alla matrice dei potenziali danni connessi all’uso dello stesso, in ragione di una situazione di incertezza scientifica. In questo contesto, l’assenza di leggi scientifiche o esperienziali esplicative dei nessi tra i potenziali danni e l’impiego del prodotto, non si ripercuote sul produttore. Infatti, non gli preclude l’immissione in commercio del prodotto, che sulla base di un’analisi comparativa rischi-benefici, risulti complessivamente più sicuro che pericoloso, non potendo ridondare a suo danno lo sviluppo delle conoscenze scientifiche sul punto, fermo restando che l’esimente dalla responsabilità non può tuttavia tradursi in una deresponsabilizzazione assoluta del produttore.
Per eludere questo rischio si intensifica infatti la diligenza a lui richiesta, fino al momento in cui può considerarsi esigibile, cioè quello dell’immissione in commercio. Il produttore è tenuto a reperire cioè tutti i dati tecnico-scientifici disponibili, al fine di accertare la sicurezza del prodotto, anche laddove il reperimento di tali riscontri comporti degli ingenti esborsi, pur non prescritti dalla legislazione di settore.
Il regime di responsabilità appena delineato presenta evidenti differenze rispetto a quello regolato dall’art. 2050 c.c. Tale norma, infatti, fonda la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose e viene a configurare, secondo la giurisprudenza prevalente, una presunzione di responsabilità (tra le altre: Cass., S.U., n. 582/2008; Cass. n. 13579/2019; Cass. n. 26236/2021; Cass. n. 16170/2022; in precedenza anche Cass. n. 2189/1978, Cass. n. 3678/1984 e Cass. n. 7177/1995), la quale assume le connotazioni di una responsabilità sostanzialmente oggettiva (così propriamente: Cass. n. 8457/2004 e Cass. 28626/2019), in virtù dell’estremo rigore con cui si atteggia la prova richiesta per superare la presunzione di colpa (tra le altre: Cass. n. 7093/2015; Cass. n. 26516/2009). Si tratta, dunque, di una responsabilità che prescinde dalla colpa, il cui regime di riparto dell’onere della prova rivela un particolare favore per il danneggiato.
Al fine di esimersi dalla responsabilità di cui all’art. 20250 c.c., per il danneggiante non è sufficiente dimostrare di aver rispettato la normativa vigente nell’esercizio dell’attività o di non aver commesso alcuna negligenza; occorre invece provare positivamente di aver fatto tutto il possibile per prevenire il danno (tra le altre: Cass. n. 1931/2017; Cass. n. 19422/2016). L’obiettivo perseguito dal legislatore, infatti, non è stato quello di introdurre una semplice inversione dell’onere della prova, ma piuttosto quello di stabilire una autentica regola di diritto sostanziale, che prevede una forma di responsabilità più severa rispetto a quella basata sulla colpa. La portata di tale responsabilità è poi ulteriormente estesa alle ipotesi in cui, a prescindere dall’adozione delle misure di sicurezza richieste, il danno fosse comunque evitabile attraverso l’impiego delle soluzioni tecniche astrattamente disponibili, anche se non riconoscibili al momento dell’immissione in commercio del prodotto dell’attività.
Il giudizio di responsabilità si fonda, dunque, sull’effettivo stato dell’arte delle conoscenze tecniche nel settore specifico dell’attività esercitata, imponendo un obbligo di massima cautela e aggiornamento costante sulle misure idonee a prevenire il danno che sfocia nell’obbligo di astenersi dal porre il bene a disposizione dei consumatori in situazioni di incertezza scientifica. In questo ambito il c.d. rischio da sviluppo grava sul danneggiante, tenuto costantemente ad aggiornarsi sullo stato delle conoscenze scientifiche, sicché il suo onere di attivazione diligente non si arresta al momento dell’immissione in commercio, ma si proietta oltre (Cass. n. 6587/2019).
È evidente, dunque, che il contenuto della prova liberatoria richiesto dall’art. 2050 c.c. è più circoscritto rispetto a quello previsto dalla legislazione consumeristica collocandosi ai margini del fortuito.
Dunque, il concetto di difettosità, delineato dal codice del consumo, e quello di pericolosità ai sensi dell’art. 2050 c.c., non coincidono necessariamente. Un prodotto può essere considerato pericoloso a causa della sua natura intrinsecamente dannosa, ma al contempo risultare sicuro secondo i parametri stabiliti dall’art. 117 cod. cons.
Ciò detto, la S.C. osserva anche che la legislazione consumeristica rende possibile per il danneggiato il ricorso a regimi di responsabilità diversi da quello disciplinato dagli artt. 114 e ss. cod. cons. L’art. 127, comma 1, cod. cons., infatti, stabilisce “le disposizioni del presente titolo non escludono, né limitano i diritti attribuiti al danneggiato da altre leggi” e del resto, la stessa Corte di Giustizia ha precisato che la direttiva non mira ad un’armonizzazione totale, consentendo la coesistenza di ulteriori fattispecie di danno da prodotto disciplinate da normative differenti (Corte Giust., Grande Sezione, 10 gennaio 2006, in C-402/03; Corte Giust., 4 giugno 2009, in C-285/10; Corte Giust., 21 dicembre 2011, in C-495/10; Corte Giust., 20 novembre 2014, in C-310/13).
Ciò premesso, la S.C. osserva che le doglianze di Alfa sono corrette là dove pongono in risalto che la Corte territoriale ha operato la sussunzione del fatto accertato (esistenza di difettosità del vaccino, da ravvisarsi, sulla scorta delle risultanze della CTU, nella carenza di esigibili studi clinici aggiornati sugli effetti del vaccino nella popolazione anziana con comorbilità di diabete, cardiopatia e discopatie) in una serie di norme eterogenee, declinanti regimi di responsabilità differenti, così da incorrere in un vizio di error in iudicando.
Il giudice di appello, anzitutto, ha affermato che il Tribunale ebbe a qualificare la responsabilità addebitabile alla industria farmaceutica in termini di responsabilità ex art. 2043 c.c. e che tale qualificazione non sarebbe stata censurata. L’affermazione è invece contestata da Alfa, che assume essere stata la decisione fondata sulla disciplina consumeristica di cui agli artt. 114 e ss. cod. cons.
Del resto, va osservato che la qualificazione addotta dalla Corte territoriale, seppure non fosse stata censurata come tale, non avrebbe, comunque, potuto determinare un giudicato interno, giacché l’individuazione della norma che regola il criterio di imputazione della responsabilità applicabile alla fattispecie concreta non implica una qualificazione della domanda, traducendosi nella semplice selezione della disciplina giuridica a cui i fatti accertati sono soggetti, con la conseguenza che, nell’esercizio di detto potere, il giudice non incontra il limite del giudicato sostanziale eventualmente formatosi sugli elementi costitutivi della fattispecie e può invocare una diversa regola di responsabilità rispetto a quella applicata nel grado precedente, anche se non vi è stata tempestiva impugnazione della corrispondente statuizione (Cass. n. 29232/2024).
L’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione di appello muove, in ogni caso, dalla fattispecie di responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. e rispetto ad essa è operata la ripartizione dell’onere probatorio tra danneggiante e danneggiato, che, però, il giudice di secondo grado interseca con quanto previsto dalla disciplina consumeristica (espressamente richiamata) in punto (non solo di difettosità del prodotto, ma anche e soprattutto) di prova liberatoria a carico del produttore, rammentando, per l’appunto, che questi deve dimostrare “che il difetto non esisteva quando apposto il prodotto in circolazione, o che all’epoca non è una riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico scientifico“.
La Corte territoriale, quindi, ha ritenuto che gravasse sul danneggiato l’onere di provare l’effettuazione della somministrazione vaccinale, il verificarsi del danno alla salute e il nesso causale tra la prima e il secondo in base alla regola del “più probabile che non”, mentre che onere del produttore-danneggiante fosse quello di dare dimostrazione di avere effettuato studi in ordine agli effetti del farmaco sulla popolazione anziana e con comorbilità diabetica e neurologica.
Nell’ottica della assunta responsabilità aquiliana, per la S.C. il giudice d’appello ha però espunto, erroneamente, dal corredo dei fatti costitutivi la cui prova deve gravare sul danneggiato, l’elemento soggettivo della colpa del danneggiante, introducendo nella fattispecie un requisito non previsto dall’art. 2043 c.c., ossia la prova liberatoria del danneggiante, in base ad uno standard di condotta che richiama la colpa, la cui dimostrazione è stata appunto posta a carico dello stesso danneggiante.
Ma non è tutto. La S.C. rileva inoltre che la Corte territoriale avrebbe anche assunto un contenuto della prova liberatoria di cui all’art. 118, differente rispetto a quanto disciplinato da detta ultima disposizione. Il giudice d’appello, cioè, avrebbe ritenuto che, pur in assenza, al momento di messa in circolazione del vaccino, di dati scientifici esplicativi dei nessi tra l’insorgenza di patologie diabetiche/neurologiche e la somministrazione del vaccino, il produttore si sarebbe dovuto astenere dal porlo in commercio, attesa l’indispensabilità di riscontri certi (e sempre da aggiornare) in ordine alle interazioni tra questo e le anzidette patologie, rispetto alle quali si manifesta una comorbilità nella fascia della popolazione, di cui prevalentemente si compone la sfera di utenza che accede all’inoculazione del farmaco.
In questo modo, però, la Corte territoriale ha finito per snaturare la responsabilità per danno da prodotto difettoso, facendola sostanzialmente confluire in quella per lo svolgimento di attività pericolose ex art. 2050 c.c., addossando indebitamente il c.d. rischio da sviluppo ad un soggetto al quale esso è estraneo. E ciò nonostante che lo stesso giudice di appello abbia inteso confermare la sentenza di primo grado là dove questa aveva escluso trattarsi di prodotto pericoloso, così da cadere però in una palese contraddizione giuridica.
La S.C. conclude pertanto affermando il principio riportato in massima e in base al quale la disciplina sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi, di cui agli artt. 114-127 del D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del consumo) non esclude, né limita, secondo quanto previsto dall’art. 127 cod. cons., la possibilità per il danneggiato di usufruire della tutela somministrata da un regime di responsabilità differente da quello stabilito dalle anzidette disposizioni del codice del consumo (come, ad es., dalle fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 2043 e 2050 c.c.), il quale, una volta individuato sulla scorta dei fatti allegati e provati, dovrà, però, trovare applicazione in coerenza con la disciplina per esso specificamente dettata dal legislatore, senza potersi operare commistioni tra regimi di responsabilità diversamente regolati.
E con ciò, la S.C. accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo motivo.
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