6 Dicembre 2022

Inadempimento del preliminare di vendita e il risarcimento del danno da lucro cessante

di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. II, 18 novembre 2022, n. 34073, Ord., G.Rel. Dott. C. Trapuzzano

Preliminare di vendita – Inadempimento – Risarcimento del danno da lucro cessante

Massima: “Al promittente venditore che agisca per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, per il caso di inadempimento del promissario acquirente, deve essere liquidato il pregiudizio per la sostanziale incommerciabilità del bene nella vigenza del preliminare, la cui sussistenza è in re ipsa e non necessita di prova; detto danno va liquidato in misura pari alla differenza tra il prezzo pattuito nel preliminare e il valore commerciale dell’immobile al momento in cui l’inadempimento è diventato definitivo, normalmente coincidente con quello di proposizione della domanda di risoluzione ovvero altro anteriore, ove accertato in concreto”.

CASO

Tizio conveniva in giudizio Caio, al fine di ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo assunto dal convenuto di trasferire, in suo favore, la proprietà di un determinato appartamento. Tizio esponeva infatti di avere stipulato un contratto preliminare di vendita con Caio, ma che questi si sarebbe reso successivamente inadempiente.

Si costituiva in giudizio Caio, il quale contestava la domanda avversaria ed eccepiva, a sua volta, l’avvenuta risoluzione del contratto, per effetto della diffida ad adempiere già notificata al promissario acquirente e l’inutile decorso del termine assegnatogli per la stipula del contratto definitivo. Caio deduceva, inoltre, di avere patito gravi danni in conseguenza dell’inadempimento di controparte (riconducibili al deprezzamento cui nel tempo l’appartamento era andato incontro) e spiegava, quindi, domanda riconvenzionale di accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto preliminare, ai sensi dell’art. 1454 c.c. e di condanna dell’attore al risarcimento del danno derivatone.

Il Tribunale adito rigettava la domanda proposta dall’attore e, in accoglimento di quella spiegata dal convenuto, dichiarava l’avvenuta risoluzione, ai sensi dell’art. 1454 c.c., del contratto preliminare di compravendita immobiliare e, per l’effetto, condannava Tizio al pagamento, in favore di Caio, del risarcimento dei danni. Nello specifico, il tribunale rilevava che il nocumento lamentato dal promittente alienante era consistito nel pregiudizio arrecato alla commerciabilità dell’ immobile durante tutta la pendenza del giudizio intrapreso dal promissario acquirente e che, ai fini della quantificazione del danno da lucro cessante, derivante dall’ impossibilità di alienare l’ immobile protratta negli anni, era sufficientemente affidabile il riferimento al criterio del deprezzamento, dato dalla differenza tra il prezzo pattuito e il valore di mercato del bene stimato a valori attuali dal consulente tecnico d’ufficio, differenza dovuta alla nota crisi del mercato immobiliare.

Tizio proponeva appello lamentando, tra l’altro, l’erroneità della sentenza di primo grado, in ordine al momento di determinazione del danno e alla sua prevedibilità. La Corte d’appello rigettava però l’appello.

Avverso la sentenza d’appello Tizio ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, uno dei quali, ai fini dell’indagine che ci interessa, accolto dalla S.C.

SOLUZIONE

La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo di censura e rinvia la causa alla Corte d’appello.

QUESTIONI

Con il primo motivo il ricorrente lamenta che il Tribunale prima e la Corte d’appello, poi, avrebbero errato con riferimento all’individuazione del momento rispetto alla quale era stato determinato il risarcimento del danno da lucro cessante, atteso che il deprezzamento subito dall’ immobile era stato calcolato sulla base della stima del valore di quest’ultimo al tempo dell’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio e non già all’epoca (anteriore) della risoluzione del contratto, per effetto della diffida ad adempiere rimasta disattesa (o, al più, alla data della proposizione della domanda di risoluzione promossa da Caio).

La doglianza è considerata fondata dalla S.C., perché la quantificazione del pregiudizio riparabile era stata operata sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio espletata dinanzi al Tribunale e quest’ultima, rispondendo al quesito posto, aveva calcolato il valore di mercato dell’ immobile all’attualità e non già il deprezzamento del bene risultante dalla differenza tra il prezzo concordato nel preliminare e il valore commerciale dell’ immobile, al tempo della definitività dell’inadempimento che aveva legittimato l’effetto risolutivo.

Al promittente venditore che agisca per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, per il caso di inadempimento del promissario acquirente, deve infatti essere liquidato il pregiudizio per la sostanziale incommerciabilità del bene nella vigenza del preliminare, la cui sussistenza è in re ipsa e non necessita di prova (Cass. n. 13792 del 31/05/2017; Cass. n. 4713 del 10/03/2016; Cass. n. 25411 del 03/12/2009; Cass. n. 13630 del 05/11/2001).

Il rivendicato danno da lucro cessante consiste nella differenza (o meglio nel deprezzamento) tra il prezzo pattuito nel preliminare e il valore commerciale dell’immobile al momento in cui l’inadempimento è diventato definitivo. Questo momento normalmente coincide con quello di proposizione della domanda di risoluzione ovvero con altro anteriore, ove accertato in concreto (ad esempio per effetto di una diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 1454 c.c.), sulla scorta del principio generale espresso dall’art. 1225 c.c., secondo cui la prevedibilità del danno risarcibile deve essere valutata con riferimento al momento in cui il debitore, dovendo dare esecuzione alla prestazione e potendo scegliere fra adempimento e inadempimento, è in grado di apprezzare più compiutamente e, quindi, prevedere il pregiudizio che il creditore può subire per effetto del suo comportamento inadempiente.

Il fondamento del criterio della prevedibilità del danno si ravvisa infatti nel principio per cui l’obbligazione – in quanto strumento per il soddisfacimento di un altrui interesse – comporta l’assunzione di un sacrificio contenuto entro limiti di normalità e quindi l’obbligo di risarcimento deve essere proporzionato alla lesione di quei vantaggi (per il creditore) che sono connessi alla prestazione secondo un parametro di normalità. Si tratta cioè di un criterio limitativo della misura del danno risarcibile – che si aggiunge a quelli della causalità diretta e dell’evitabilità da parte del creditore – circoscritto al danno contrattuale (dato che l’ art. 2056 in tema di responsabilità extracontrattuale non richiama l’art. 1225) e all’ipotesi in cui l’inadempimento non dipenda da dolo del debitore. Danno prevedibile, in buona sostanza, è il danno di cui poteva prevedersi come probabile l’accadimento, secondo un giudizio rapportato all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza in relazione alle concrete circostanze.

Sennonché, nel caso specifico, il pregiudizio era stato quindi calcolato erroneamente avendo avuto riguardo alla differenza tra il prezzo stabilito nel preliminare e il valore commerciale del bene all’epoca dell’espletamento dell’incarico peritale, rendendo così “imprevedibile” il danno agli occhi del debitore che non avrebbe potuto apprezzare, a monte, tempi ed entità del relativo pregiudizio. Da qui la cassazione della sentenza e il rinvio alla Corte d’appello la quale dovrà determinare il danno avendo riguardo al valore di mercato alla data in cui l’ inadempimento era divenuto definitivo, ossia dal momento in cui il contratto si era  risolto per effetto dell’unitile decorso del termine concesso con la diffida ad adempiere.

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