31 Marzo 2020

Vi era discriminazione degli affini nella previgente normativa fiscale sulle donazioni?

di Corrado De Rosa, Notaio Scarica in PDF

Corte Cost. Sentenza 13 marzo 2020 n.54/2020, Presidente: CARTABIA – Redattore: ANTONINI

Imposta sulle donazioni – Affini – Discriminazione

(Art. 13, c. 2°, della legge 18/10/2001, n. 383; Art. 3 Cost.)

Non viene meno al principio di eguaglianza la disciplina (previgente: Art. 13, c. 2° L. 383/2001) che dispone nelle donazioni, un trattamento impositivo diverso tra gli affini e i parenti. La selezione dei soggetti passivi ad un’imposta rientra nell’esercizio del potere discrezionale del legislatore tributario, il quale ha costantemente graduato l’imposizione sulle successioni e donazioni in ragione della prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario rispondendo a volte all’esigenza della semplificazione e del rilancio dell’economia e non alla tutela costituzionale della famiglia.

CASO

Le questioni sono sorte nell’ambito di un giudizio che trae origine dal ricorso proposto dal donatario avverso l’avviso di liquidazione dell’imposta complementare di registro, determinata dall’Agenzia delle Entrate, in misura proporzionale all’importo della donazione di euro 7.830.000,00, stipulata il 22 giugno 2006.

L’impugnato avviso di liquidazione era stato adottato perché tra il donante e il donatario intercorreva un rapporto di affinità di terzo grado e non di parentela. La Commissione tributaria provinciale di Campobasso aveva rigettato il ricorso – inteso ad ottenere l’estensione dell’esclusione dal pagamento dell’imposta prevista per le donazioni tra parenti –, ribadendo le motivazioni dell’avviso. Il contribuente aveva quindi appellato la sentenza di primo grado davanti alla CTR del Molise.

Il giudice a quo in primo luogo osserva che l’atto di donazione oggetto dell’avviso di liquidazione risale al 22 giugno 2006 ed è stato registrato il 28 giugno 2006, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento impositivo deve essere vagliata alla luce del censurato art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001, e non della normativa attualmente vigente. La successiva abrogazione di questa norma, disposta dall’art. 2, comma 52, lettera d), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262  ha infatti effetto soltanto «per gli atti pubblici formati […] dalla data di entrata in vigore della legge di conversione» dello stesso d.l. n. 262 del 2006, ovvero dal 29 novembre 2006.

La disposizione censurata, applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevede che: a) «[i] trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al quarto grado, sono soggetti alle imposte sui trasferimenti ordinariamente applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se il valore della quota spettante a ciascun beneficiario è superiore all’importo di 350 milioni di lire» (primo periodo); b) «[i]n questa ipotesi si applicano, sulla parte di valore della quota che supera l’importo di 350 milioni di lire, le aliquote previste per il corrispondente atto di trasferimento a titolo oneroso» (secondo periodo).

Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTR ritiene che l’art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001 arrechi un vulnus, innanzitutto, all’art. 3 Cost., in relazione al principio di eguaglianza.

L’omessa inclusione degli affini nel novero dei soggetti che non sono obbligati al pagamento dell’imposta di cui alla norma censurata determinerebbe, infatti, una ingiustificata discriminazione e una irragionevole disparità di trattamento rispetto ai parenti. L’irragionevolezza sarebbe apprezzabile anche alla luce di «alcuni elementi ordinamentali» che riserverebbero un trattamento identico, o comunque omogeneo, ai parenti e agli affini e deporrebbero, pertanto, nel senso della loro «necessaria parificazione».

Al riguardo, il giudice a quo argomenta, innanzitutto, richiamando l’art. 7, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), come modificato dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale), il quale prevedeva – prima della sua abrogazione − che l’imposta sulle successioni e donazioni fosse determinata nella stessa misura percentuale sia per i parenti in linea collaterale fino al quarto grado, sia per gli affini in linea retta e per quelli in linea collaterale fino al terzo grado: disposizione, questa, che sarebbe significativa della volontà del legislatore di «accomunare» i parenti e gli affini.

Al contrario, l’Avvocatura generale ha respinto le argomentazioni suesposte, e ritenuto insussistente la denunciata violazione dell’art. 3 Cost., dovendo escludersi che la categoria degli affini sia omogenea, e tanto meno identica, a quella dei parenti. Il vincolo di affinità lega, infatti, il coniuge ai parenti dell’altro coniuge, sicché sarebbe meno «solido e stabile» di quello di parentela, che lega invece soggetti discendenti dalla stessa persona.

SOLUZIONE

Il giudice delle leggi reputa non manifestamente infondata la questione relativa al possibile contrasto con l’art. 3 Cost., ma afferma che nel merito la questione non è fondata.

Premette che la norma censurata si inserisce all’interno di un intervento normativo che ha costituito una isolata parentesi nell’ambito dello sviluppo dell’ordinamento tributario. Il comma 1 dell’art. 13 della legge n. 383 del 2001 ha infatti disposto che l’imposta sulle successioni e donazioni di cui al d.lgs. n. 346 del 1990, così come modificata dall’art. 69 della legge n. 342 del 2000, «è soppressa» e il comma 2 del medesimo articolo 13 ha limitato l’imposizione ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altre liberalità tra vivi solo ove siano disposti a favore dei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado, degli affini e degli estranei. Si è trattato di un cambiamento radicale rispetto al sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni: uno dei tributi patrimoniali (in senso lato) più antichi del nostro ordinamento tributario, fondato su ragioni redistributive e applicabile a carico di qualsiasi beneficiario. Tale intervento normativo non si è però consolidato all’interno dell’ordinamento. Con l’art. 2, commi da 47 a 54, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), così come sostituito in sede di conversione dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, il legislatore, per un verso, ha abrogato il suddetto art. 13 e, per l’altro, ha sostanzialmente “reintrodotto” la soppressa imposta sulle successioni e donazioni, che è giustificata dall’arricchimento dell’erede o del beneficiario e quindi in ragione della capacità contributiva di questi ultimi, che risulta nuova e autonoma anche rispetto alle imposte a suo tempo versate dal dante causa.

La Corte sottolinea che nel descritto sviluppo normativo l’imposizione è sempre risultata strutturata in modo graduato in rapporto alla prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario, senza che a ciò abbia fatto eccezione nemmeno la riforma del 2001: nell’imposta sulle successioni e donazioni attraverso aliquote differenziate; in quella del 2001 con la selezione dei soggetti passivi.

Tanto premesso, la descritta selezione dei soggetti passivi, in quanto coerente con il presupposto, rientra nell’esercizio del potere discrezionale del legislatore tributario (su tale discrezionalità, ex multis, sentenze n. 288 del 2019 e n. 269 del 2017), che ha costantemente graduato, come si è visto, l’imposizione in ragione della prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario. La selezione dei soggetti passivi trova inoltre, nel caso di specie, una non irragionevole giustificazione anche nell’esigenza di limitare l’impatto finanziario della riforma del 2001, come risulta dai lavori preparatori.

CONCLUSIONI

La Corte afferma che non risulta, quindi, superato il confine della non manifesta irragionevolezza, nel cui àmbito soltanto può legittimamente esercitarsi la discrezionalità del legislatore: il fatto che la norma abbia inteso selezionare i soggetti passivi del prelievo in esame in ragione della prossimità dei vincoli familiari, individuando il grado e i limiti di tale prossimità e tenendo adeguatamente conto dell’impatto finanziario di tale selezione, esclude l’arbitrarietà della disciplina censurata (in generale sul confine della non manifesta irragionevolezza, sentenze n. 153 del 2017 e n. 111 del 2016).

In conclusione, non ritenuta è ravvisabile, in relazione all’art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001, una lesione del principio di eguaglianza: le situazioni e le rationes delle normative poste in comparazione risultano, infatti, eterogenee, sia intrinsecamente, sia in rapporto con la fattispecie del giudizio principale (ex plurimis, sulla necessaria omogeneità dei termini da porre a raffronto, sentenza n. 236 del 2017).

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