9 Luglio 2024

Risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale per morte dello zio

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, ord., 07.09.2023, n. 26140 – Pres. Travaglino – Rel. Gianniti

Danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale – Componenti – Prova dello sconvolgimento delle abitudini di vita – Necessità – Esclusione – Rilevanza – Fattispecie

[1] Ai fini della risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale è necessaria la dimostrazione, anche presuntiva, della gravità e serietà del pregiudizio (tanto sul piano morale e soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale), senza che sia necessario che questo assurga a un radicale sconvolgimento delle abitudini di vita del danneggiato, profilo quest’ultimo che – al cospetto di una prova circostanziata da parte dell’attore – può incidere sulla personalizzazione del risarcimento.

CASO

In esito ad un sinistro stradale perdeva la vita un pedone nell’attraversamento di una carreggiata. I nipoti ex fratre dell’uomo, oltre ai congiunti diretti, agivano in giudizio, onde ottenere dalla compagnia assicurativa il risarcimento dei danni subìti per effetto della perdita dello zio.

Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda risarcitoria dei nipoti.

In grado di appello, la compagnia assicurativa asseriva che la domanda attorea fosse sfornita di prove in ordine alla sussistenza effettiva di un vincolo affettivo di particolare intensità con la vittima del sinistro e lamentava un’eccessiva liquidazione del danno parentale in favore dei nipoti. L’appello veniva accolto.

I nipoti ricorrevano in Cassazione.

SOLUZIONE

Nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio o fratello), secondo unanime orientamento della Suprema Corte l’esistenza stessa del rapporto di parentela fa presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano.

Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.

QUESTIONI

La fattispecie in esame dà alla Suprema Corte l’occasione per tratteggiare sinteticamente i contorni del danno risarcibile in caso di morte di un prossimo congiunto, in particolare con riferimento al danno non patrimoniale iure proprio, il cui risarcimento ha la funzione di ristorare il familiare per la sofferenza patita e per le modificate consuetudini di vita, in conseguenza dell’irreversibile venire meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto.

Il danno parentale, quindi, consiste in uno sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore, derivante dal venire meno del rapporto con il congiunto e/o dall’atteggiarsi di quel rapporto in maniera diversa (sul punto si veda Cass. civ., 23469/2018).

Nel solco di un orientamento oramai consolidato, gli Ermellini hanno precisato che, in ipotesi di pregiudizio cagionato dalla perdita o dalla lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno o entrambi i profili di cui si compone l’unitario danno non patrimoniale subìto dal prossimo congiunto: cioè il danno morale, inteso come sofferenza interiore del congiunto, come perturbazione del suo stato d’animo, a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto con il familiare deceduto, il quale danno può anche non influire sulle sue abitudini di vita ed il danno dinamico-relazionale, inteso come significativa modificazione delle abitudini di vita, che in taluni casi può condizionare l’intera esistenza del congiunto superstite.

Naturalmente, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere provato da chi avanza la pretesa risarcitoria ed a tale fine non è sufficiente dichiarare l’esistenza di un vincolo familiare con il congiunto deceduto, bensì occorre dimostrare sia la sussistenza della relazione parentale, sia la sua intensità.

Nello specifico, la prova si raggiunge per il danno morale, in forza di un ragionamento deduttivo fondato su fatti notori, massime di esperienza o presunzioni, che consentono di ritenere, salvo prova contraria, che la perdita del parente abbia dato luogo a sofferenze interiori (Cass. civ., S.U. 26792/2008). Il danno dinamico relazionale, più obiettivo, deve essere oggetto di prova rappresentativa diretta. Può inoltre accadere che il parente abbia patito anche un danno biologico (per lo più psichico) separatamente liquidabile, se questo sia direttamente riconducibile allo stress subìto per l’effetto della perdita.

La Corte di cassazione chiarisce, quindi, che in caso di gravi lesioni di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare, in quanto tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano.

Naturalmente, si tratterà pur sempre d’una praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete, dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite, perché la sussistenza del pregiudizio patito dal congiunto superstite, in quanto solo presunto, può essere escluso dalla prova contraria, a differenza del c.d. danno in re ipsa, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti, senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione (Cass. civ., 25541/2022).

Spetterà poi al giudice apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno, in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi, quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino), la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso.

Per quanto concerne il metodo con cui risarcire il danneggiato, la Suprema Corte, riprendendo i propri precedenti (Cass. civ., 10579/2021), ribadisce che alla base della liquidazione deve esservi un sistema a punti coerente, che esprima quantificazioni precise da utilizzare sempre in situazioni simili o analoghe.

Tornando alla fattispecie in esame, gli Ermellini hanno concluso che i principi suddetti non sono stati applicati dai giudici di merito, i quali hanno “erroneamente ricondotto il danno al solo “stravolgimento della vita“, omettendo il richiamo alle necessarie e doverose presunzioni da cui avrebbe potuto trarre la prova dei danni morali subiti dagli odierni ricorrenti”.

Inoltre, la Corte territoriale sarebbe incorsa in una motivazione contraddittoria: “da un lato essa asserisce la mancanza di allegazione della “sofferenza patita” e dall’altro richiama, in un successivo passaggio, le note, in cui vi è proprio l’allegazione precedentemente richieste. Oltre a ciò, il giudice d’appello sostiene che erano stati articolati capi di prova tesi ad evidenziare l’intensità del rapporto parentale e, dall’altro ancora, ha ritenuto non provato il legame affettivo, sebbene i testi abbiano confermato le circostanze indicate nei capi, che erano stati ammessi sul presupposto della loro rilevanza”.

Nel caso di specie, deve ritenersi (sebbene i Giudici di legittimità non lo affermino espressamente) che, sebbene la relazione familiare tra zio e nipoti non sia strettissima, essa è comunque sufficiente a far ritenere presuntivamente l’esistenza di un danno serio ed apprezzabile per i superstiti: il rapporto di parentela fa infatti presumere la sofferenza del familiare. Ciò che è rilevante è la reciprocità del legame affettivo tra la vittima ed il superstite, a nulla rilevando la mancata convivenza tra i due, la quale non vale ad escludere a priori il risarcimento.

Infatti, la convivenza costituisce un elemento probatorio significativo al fine di dimostrare l’intensità del legame affettivo tra i due congiunti e di quantificare la misura del risarcimento (quantum debeatur). Con riferimento a tale aspetto, la Cassazione ha in varie occasioni affermato che la morte di un congiunto fa presumere di per sé ex art. 2727 c.c. una sofferenza morale in capo ai congiunti della vittima, a nulla rilevando che quest’ultima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti.

Anche la mancanza di un vincolo di sangue non incide negativamente sull’intimità della relazione e sul reciproco legame affettivo.

Nel caso in esame, il giudice di secondo grado aveva rigettato la richiesta risarcitoria dei nipoti per la perdita dello zio, accolta in primo grado, poiché aveva valutato (con esito negativo) la possibilità di accertare i pregiudizi lamentati soltanto sotto il profilo dello stravolgimento delle abitudini di vita, che nella specie non vi era stato.

In applicazione dei principi sopra esposti, la Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata, tra le altre cose, proprio per non aver fatto ricorso «alle necessarie e doverose presunzioni da cui avrebbe potuto trarre la prova dei danni morali subiti dagli odierni ricorrenti: in altri termini, va qui censurata l’apodittica e aprioristica limitazione del danno risarcibile …… connesso solo allo stravolgimento della vita ed al patimento immediatamente percepibile ed il conseguente omesso ricorso alle presunzioni».

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