16 Giugno 2020

Risarcimento danni cagionati da animali selvatici: la Cassazione muta orientamento

di Martina Mazzei, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2020, n. 7969 – Pres. Amendo – Rel. Tatangelo

[1] Responsabilità civile – Danno cagionato da animali – Fauna selvatica – Patrimonio indisponibile dello Stato – Responsabilità oggettiva – Risarcimento del danno – Soggetto pubblico responsabile – Regione – Onere della prova – Caso fortuito – Azione di rivalsa

(Cod. civ. art. 2043; 2052; L. 11 febbraio 1992, n. 157 artt. 1 e 9)

[1] “Ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della L. n. 157 del 1992, nel patrimonio indisponibile dello Stato, va applicato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, in quanto ente al quale spetta in materia la funzione normativa, nonché le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni (e che dunque rappresenta l’ente che “si serve”, in senso pubblicistico, del patrimonio faunistico protetto), al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; la Regione potrà eventualmente rivalersi (anche chiamandoli in causa nel giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli altri enti ai quali sarebbe spettato di porre in essere in concreto le misure che avrebbero dovuto impedire il danno, in quanto a tanto delegati, ovvero trattandosi di competenze di loro diretta titolarità.”

CASO

[1] La vicenda processuale origina dal ricorso presentato da un automobilista nei confronti della Regione Abruzzo per ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della collisione con un cinghiale avvenuta su una strada pubblica.

Il Giudice di Pace e il Tribunale di primo grado avevano accolto la domanda attorea e, pertanto, la Regione era ricorsa in Cassazione.

SOLUZIONE

[1] Con unico motivo di ricorso la Regione Abbruzzo denunciava la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 9 della L. 11 Febbraio 1992, n. 157 e dell’art. 2043 c.c. censurando la sentenza d’appello nella parte in cui aveva individuato la Regione quale legittimato passivo tenuto a rispondere dei danni riportati dall’autovettura dell’attore senza svolgere censure in ordine all’affermazione della sussistenza di una condotta colposa causalmente rilevante in relazione ai suddetti danni.

La Corte di Cassazione dopo aver passato in rassegna i riferimenti normativi e l’iter giurisprudenziale in materia di risarcimento danni da animali, ha rigettato il ricorso enunciando il principio di diritto in epigrafe.

QUESTIONI

[1] La sentenza che si annota affronta il tema della responsabilità per danni cagionati da animali selvatici fornendo una soluzione rivoluzionaria rispetto all’indirizzo giurisprudenziale consolidato.

I danni causati dagli animali selvatici, in passato, erano considerati sostanzialmente non indennizzabili in quanto tutta la fauna selvatica era ritenuta res nullius. Solamente con la L. 27 dicembre 1977, n. 968 la fauna selvatica è stata dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato tutelata nell’interesse della comunità nazionale e le relative funzioni normative e amministrative sono state assegnate alle Regioni anche in virtù dell’art. 117 Cost. Successivamente, la L. 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) ha specificato che la predetta tutela riguarda “le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale” con le eccezioni specificate (talpe, ratti, topi propriamente detti, nutrie, arvicole) e che, sul piano delle competenze, le Regioni a statuto ordinario devono provvedere “ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica” (art. 1); “esercitano le funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione faunistico-venatoria; e svolgono i compiti di orientamento, di controllo e sostitutivi previsti dalla presente legge e dagli statuti regionali … attuano la pianificazione faunistico-venatoria mediante il coordinamento dei piani provinciali” (art. 9).

Quanto alla natura della responsabilità della p.a. e al relativo criterio di imputazione, la giurisprudenza costante della Suprema Corte ha statuito che si tratterebbe di responsabilità aquiliana da valutare secondo i principi generali dell’art. 2043 c.c. Il danno cagionato dalla fauna selvatica, infatti, non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla selvaggina il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione, ma alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico ossia alla Regione (cfr. Cass.  civ. sez. III 14 febbraio 2000 n. 1638; Cass.  civ. sez. III 23 luglio 2002 n. 10737; Cass.  civ. sez. III 24 giugno 2003 n. 10008; Cass.  civ. sez. III 28 marzo 2006 n. 7080 del 28/03/2006; Cass.  civ. sez. III 21 novembre 2008 n. 27673; Cass.  civ. sez. III ord. 27 febbraio 2019 n. 5722).

Anche la Corte Costituzionale (sentenza 4 gennaio 2001, n. 4) ha avallato il predetto orientamento stabilendo che l’art. 2052 c.c. “è applicabile solo in presenza di danni provocati da animali domestici, mentre per quelli cagionati da animali selvatici si applica l’art. 2043 c.c.: infatti, nel caso in cui il danno è arrecato da un animale domestico (o in cattività), è naturale conseguenza che il soggetto nella cui sfera giuridica rientra la disponibilità e la custodia di questo si faccia carico dei pregiudizi subiti da terzi secondo il criterio di imputazione ex art. 2052 c.c., laddove i danni prodotti dalla fauna selvatica, e quindi da animali che soddisfano il godimento dell’intera collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile ex art. 2043 c.c.”.

In altri termini secondo la Consulta il danno da fauna selvatica rappresenta un’eccezione al principio «ubi commoda, ibi incommoda», giustificata dal fatto che lo Stato non diventerebbe proprietario degli animali selvatici per utilizzarli o usufruirne in un qualunque modo ma unicamente per proteggerli e tutelarli nell’interesse comune ed a spese della collettività.

La maggior parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, invece, sono propense ad accettare l’applicazione dell’art. 2052 c.c. proprio in base al predetto principio «ubi commoda, ibi incommoda» ed all’interpretazione letterale dello stesso articolo 2052 c.c. che non stabilisce alcuna distinzione tra animali e la cui mancata applicazione, anzi, costituirebbe un ingiustificato privilegio per la pubblica amministrazione.

Sul presupposto che il fondamento della responsabilità era da ricercare nella clausola generale di cui all’art. 2043 c.c. e che ciò richiedeva in ogni caso l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (Cass. civ. sez. III 28 marzo 2006 n. 7080; Cass. civ. sez. III 21 novembre 2008 n. 27673) in alcune decisioni, tuttavia, si era affermato che la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici non è sempre imputabile alla Regione ma deve in realtà essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, anche in attuazione della L. n. 157 del 1992, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che trovino la fonte in una delega o concessione di altro ente (cfr. Cass. civ. sez. III 8 gennaio 2010 n. 80; Cass. civ. sez. III 10 ottobre 2014 n. 21395; Cass. civ. sez. III 21 giugno 2016 n. 12727; Cass. civ. sez. III ord. 31 luglio 2017 n. 18952; Cass. civ. sez. VI-III ord. 17 settembre 2019 n. 23151).

La sentenza in epigrafe, dopo aver compiutamente analizzato gli approdi ermeneutici sopra indicati, arriva a conclusioni completamente innovative.

In primo luogo la Corte afferma che la questione di fondo è la scelta del criterio di imputazione della responsabilità operata dalla giurisprudenza prevalente sul presupposto dell’impossibilità di estendere alla fauna selvatica il regime previsto dall’art. 2052 c.c. fondato sulla responsabilità oggettiva del proprietario dell’animale che ha causato il danno, ovvero del diverso soggetto che lo utilizza, e superabile esclusivamente con la prova del caso fortuito. Tale scelta è stata essenzialmente giustificata sulla base dell’assunto per cui la disposizione di cui all’art. 2052 c.c. avrebbe riguardo esclusivamente agli animali domestici e non a quelli selvatici in quanto il criterio di imputazione della responsabilità sarebbe basato sul dovere di custodia dell’animale da parte del proprietario o di chi lo utilizza per trarne un’utilità (patrimoniale o affettiva) che, per natura, non è concepibile per gli animali selvatici che vivono in libertà. La Suprema Corte afferma che tale assunto non trova alcun fondamento nell’art. 2052 c.c.: il criterio di imputazione della responsabilità per i danni cagionati dagli animali espresso nell’art. 2052 c.c., infatti, non risulta espressamente limitato agli animali domestici, ma fa riferimento esclusivamente a quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell’uomo. Inoltre, esso prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell’animale da parte dell’uomo, come si desume dallo stesso tenore letterale della disposizione, là dove prevede espressamente che la responsabilità del proprietario o dell’utilizzatore sussiste sia che l’animale fosse “sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito”. Si tratta, dunque, di un criterio di imputazione della responsabilità fondato sulla stessa proprietà dell’animale e/o comunque sulla sua utilizzazione da parte dell’uomo per trarne utilità (anche non patrimoniali), cioè sul criterio oggettivo di allocazione della responsabilità per cui dei danni causati dall’animale deve rispondere il soggetto che dall’animale trae un beneficio con l’unica salvezza del caso fortuito.

Tanto premesso, secondo la Corte è corretta l’impostazione di chi afferma che, avendo l’ordinamento stabilito, con la legge del 1992, che il diritto di proprietà in relazione ad alcune specie di animali selvatici è effettivamente configurabile in capo allo Stato e, soprattutto, essendo tale regime di proprietà espressamente disposto in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema, con l’attribuzione esclusiva a soggetti pubblici del diritto/dovere di cura e gestione del patrimonio faunistico tutelato onde perseguire i suddetti fini collettivi, il regime di imputazione oggettivo di responsabilità ex art. 2052 c.c. è applicabile anche nel caso di danni cagionati da animali selvatici rientranti nelle specie protette.

L’esenzione degli enti pubblici dal regime di responsabilità oggettiva di cui all’art. 2052 c.c., oltretutto, finirebbe per creare un ingiustificato privilegio alla pubblica amministrazione. La Corte, infatti, afferma che “l’effettiva peculiarità della situazione, che implica la gestione dell’intero patrimonio faunistico protetto, così come la connessa preoccupazione di una eccessiva ed incontrollabile attribuzione di responsabilità risarcitoria in capo alla pubblica amministrazione, non possono giustificare l’alterazione del regime normativo civilistico di imputazione della responsabilità per i danni causati dagli animali in proprietà o in uso, e quindi l’affermazione di un siffatto privilegio, che va certamente superato”.

Un percorso analogo, del resto, è già avvenuto, come ricorda la Suprema Corte, con riguardo ad altre simili fattispecie quali la proponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti degli enti pubblici ai sensi dell’art. 2041 c.c. o la stessa responsabilità oggettiva per i danni causati da cose in custodia, con riguardo ai beni demaniali, ai sensi dell’art. 2051 c.c. In tutti questi casi, ad un iniziale orientamento che negava l’applicabilità alla pubblica amministrazione della disciplina generale civilistica, nei medesimi termini normativi previsti per i soggetti privati, ha fatto seguito il superamento del privilegio e l’applicazione alla pubblica amministrazione del regime legislativo “comune” fermi restando gli adattamenti necessari per la sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, in relazione alle effettive peculiarità dell’attività eventualmente svolta dalla pubblica amministrazione o della sua situazione concreta di fatto, ma senza alcuna distinzione sotto il profilo della disciplina normativa in astratto applicabile.

Ad una analoga conclusione, pertanto, si deve pervenire in relazione al regime di imputazione della responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici rientranti nelle specie protette, di proprietà pubblica, la cui tutela e la cui gestione sono affidate dalla legge alla competenza normativa e amministrativa degli enti territoriali, a fini di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema.

Ne deriva che la disposizione di cui all’art. 2052 c.c., nella parte in cui attribuisce la responsabilità per i danni causati dagli animali dal soggetto che se ne serve salvo che questi provi il caso fortuito, è applicabile anche al soggetto pubblico. Tale soggetto, in base alle disposizioni dell’ordinamento in precedenza richiamate, va individuato nelle Regioni dal momento che ad esse spettano non solo le funzioni normative ma anche le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni.

Una volta stabilita l’applicabilità del criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. per i danni causati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette che rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato, e una volta chiarito che, in linea di principio, il soggetto pubblico tenuto a risponderne nei confronti dei privati danneggiati (salva la prova del caso fortuito) è la Regione, in quanto ente competente a gestire la fauna selvatica in funzione della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la Corte di Cassazione effettua alcune precisazioni con riguardo ai presupposti per l’imputazione della responsabilità; all’individuazione dell’effettivo oggetto della prova liberatoria gravante sulla Regione e all’ipotesi di negligente esercizio delle funzioni amministrative delegate o proprie da parte di enti minori.

Per quanto riguarda il regime di imputazione della responsabilità, in applicazione del criterio oggettivo di cui all’art. 2052 c.c., sarà naturalmente il danneggiato a dover allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall’animale selvatico. Ciò comporta che sull’attore che allega di avere subito un danno, cagionato da un animale selvatico appartenente ad una specie protetta rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato, graverà l’onere dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992 e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.

Per quanto riguarda la prova liberatoria, il cui onere grava sulla Regione, essa deve consistere, ai sensi dell’art. 2052 c.c., nella dimostrazione che il fatto sia avvenuto per caso fortuito. La Regione, per liberarsi dalla responsabilità del danno cagionato dalla condotta dell’animale selvatico dovrà dimostrare che la condotta dell’animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno, e come tale sia stata dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell’evento lesivo, cioè che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile e/o che comunque non era evitabile, anche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa protezione e tutela dell’incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto, purché compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema cui la stessa tutela della fauna è diretta.

Laddove, in altri termini, la Regione dimostri che la condotta dell’animale non era ragionevolmente prevedibile (avendo ad esempio assunto carattere di eccezionalità rispetto al comportamento abituale della relativa specie) o comunque, anche se prevedibile, non sarebbe stata evitabile neanche ponendo in essere le più adeguate misure di gestione e controllo della fauna selvatica e di cautela per i terzi, andrà esente da responsabilità.

In conclusione, la Corte di Cassazione prende in esame l’ipotesi in cui, una volta dimostrato che il danno è stato causato dalla condotta dell’animale selvatico protetto di proprietà pubblica risulti che le misure che avrebbero potuto impedire il danno dovevano essere poste in essere non direttamente dalla stessa Regione, ma da un altro ente cui spettava il relativo compito in quanto delegato, ovvero perché si trattava di competenze di sua diretta titolarità. Tale eventualità non modifica il criterio di individuazione del legittimato passivo che resta in ogni caso la Regione, ma implica che quest’ultima potrà rivalersi nei confronti di detto ente e, laddove lo ritenga opportuno, chiamarlo in causa nello stesso giudizio avanzato nei suoi confronti dal danneggiato, onde esercitare la rivalsa.