31 Marzo 2020

La responsabilità degli amministratori nel nuovo art. 2486 c.c. riformato dall’art. 378 del codice della crisi

di Valerio Sangiovanni, Avvocato Scarica in PDF

Sintesi del focus

Nelle procedure concorsuali, il curatore si trova spesso di fronte a una situazione di passivo enorme e attivo risicato (se non nullo). Al fine di recuperare attivo, i curatori dispongono generalmente solo delle seguenti azioni:

  • le azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci;
  • le azioni revocatorie;
  • le azioni per concessione abusiva di credito contro le banche.

Nelle azioni di responsabilità si pone la questione della quantificazione del danno cagionato dall’amministratore. La tematica è stata riformata con l’art. 378 del codice della crisi, che ha modificato l’art. 2486 c.c., introducendo delle semplificazioni per la determinazione del nocumento patito dalla società.

Contenuto

L’art. 2486 c.c. è rubricato “poteri degli amministratori”. La disposizione disciplina i poteri degli amministratori nell’ambito dello scioglimento e della liquidazione delle società di capitali.

L’art. 2486 c.c. stabilisce che “al verificarsi di una causa di scioglimento … gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale” (comma 1) e che “gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma” (comma 2).

Laddove il capitale di una s.p.a. (art. 2447 c.c.) oppure di una s.r.l. (art. 2482-ter c.c.) si riduca al di sotto del minimo legale, la legge prevede la seguente alternativa:

  • la società deve essere ricapitalizzata oppure
  • la società deve essere messa in liquidazione (il venir meno del capitale costituisce una causa di scioglimento).

La casistica sulle azioni di responsabilità nell’ambito dei fallimenti mostra che gli amministratori talvolta non seguono nessuna delle due alternative appena indicate. Difatti l’aumento di capitale implica l’obbligo di conferire nuove risorse che i soci possono non avere oppure, anche se le hanno, non intendono mettere in società. La messa in liquidazione della società significa accettare la cessazione della propria attività imprenditoriale. Per queste ragioni, non raramente gli amministratori seguono una terza via (illegittima e non consentita): nonostante non esista più il capitale, viene continuata – talvolta per anni – l’attività imprenditoriale, finché il montante dei debiti non è più gestibile e si giunge alla declaratoria di fallimento.

L’art. 2486 c.c. disciplina la responsabilità degli amministratori di s.p.a. e di s.r.l. al di fuori del fallimento. Se subentra il fallimento l’unico soggetto autorizzato ad avviare azioni di responsabilità è il curatore fallimentare, nell’interesse della massa dei creditori. In altre parole, nell’ambito delle procedure concorsuali, il fallimento cumula le azioni che – al di fuori del fallimento – spetterebbero separatamente alla società e ai creditori.

Una volta accertata la sussistenza di condotte degli amministratori in violazione di doveri loro imposti dalla legge (o dallo statuto), si tratta di quantificare il danno che la società ha patito. La quantificazione di detto danno risulta in parecchi casi difficile, soprattutto se mancano le scritture contabili oppure se è passato molto tempo fra il momento in cui il patrimonio netto è diventato negativo e quello in cui è stato dichiarato il fallimento (talvolta passano anni).

Sul punto si è sviluppata la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale consente di identificare il danno in modo sintetico. Secondo alcune pronunce della Cassazione, il danno consiste nella differenza fra attivo e passivo fallimentare. Fra i più recenti interventi della Corte di cassazione può essere ricordata la sentenza del 30 settembre 2019, n. 24431, secondo la quale è ammissibile la liquidazione del danno in via equitativa, nella misura corrispondente alla differenza fra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, qualora il ricorso a tale parametro si palesi, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile, purché l’attore abbia allegato inadempimenti dell’amministratore astrattamente idonei a porsi quali cause del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

L’altro caso (aggiuntivo a quello in cui manchino le scritture contabili) in cui la giurisprudenza consente il ricorso alla liquidazione in via equitativa del danno è l’ipotesi in cui trascorra molto tempo fra le condotte degli amministratori che portano all’azzeramento del capitale e l’azione di responsabilità intentata dal fallimento, circostanza che può rendere più difficoltosa la ricostruzione analitica delle voci di danno. In questa direzione si è espresso ad esempio il Tribunale di Milano (5 luglio 2017, in www.giurisprudenzadelleimprese.it), secondo il quale si può ricorrere al criterio differenziale di determinazione del danno in via equitativa, quando è stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati contabili con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dell’amministratore, stante il lungo tempo trascorso fra la data di perdita del capitale sociale e il momento finale in cui va determinato il danno complessivamente cagionato al patrimonio sociale.

Bisogna ricordare che la valutazione equitativa del danno rappresenta una modalità accessoria e subordinata rispetto al pieno accertamento dell’ammontare del danno. L’art. 1226 c.c. prevede difatti che solo “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”. Nella prassi i giudici cercano prima di valutare il danno in modo analitico. Nei casi in cui prendono atto dell’impossibilità di una ricostruzione analitica, ricorrono al metodo equitativo che si è illustrato.

Il nuovo art. 2486 comma 3 c.c., introdotto dall’art. 378 del codice della crisi, prevede ora un caso specifico in cui i giudici possono ricorrere a una valutazione “sommaria” del danno. Recita difatti il nuovo art. 2486 comma 3 c.c. che “se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”. In altre parole, essendo stati gli stessi amministratori a rendere impossibile la ricostruzione della situazione economica-finanziaria della società, la responsabilità per i danni patiti dalla società viene ad essi interamente ascritta.

Appare verosimile che in futuro le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società aumenteranno, considerando che il nuovo art. 2486 c.c. semplifica la quantificazione del danno ascrivibile agli ex-gestori della società.