Danno da cose in custodia e criterio del “più probabile che non”
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, 26.04.2023, n. 10978 – Pres. Spirito – Rel. Cricenti
Danni da cose in custodia – Concorso di cause – Criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”
(art. 2051 c.c., art. 2697 c.c. e art. 1227 c.c.)
[1] Il nesso di causa è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro); il che si esprime con la formula del “più probabile che non”. Nel caso di concorso di cause, ossia nel caso in cui si tratta di verificare se la cosa ha contribuito causalmente all’evento insieme ad altre concause, quel principio di diritto è specificato nel senso che qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”. Pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicibilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma degli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente. In tema di responsabilità da cose in custodia, il custode deve fornire la prova del ruolo causale della condotta del danneggiato, che deve essere tale da incidere sul nesso di causalità escludendolo.
CASO
Mentre era alla guida della propria motocicletta, Tizio tentava di effettuare un sorpasso dal quale rientrava, dopo essersi avveduto del fatto che, dalla corsia opposta, sopraggiungeva un autoarticolato. Tuttavia, a causa della frenata, il motociclista cadeva dal mezzo, andando ad impattare contro il parafango dell’autocarro e, nell’urto, perdeva la vita.
Gli eredi del motociclista citavano in giudizio sia la compagnia assicurativa, sia l’Anas; quest’ultima in considerazione del fatto che, nel punto in cui era caduto Tizio, vi era un’anomalia del manto stradale, a sua volta dovuta alle pessime condizioni del giunto, la quale – secondo gli attori – costituiva una concausa dell’incidente. Mentre la compagnia assicurativa era stata citata, in quanto sarebbe emerso che dietro l’autoarticolato viaggiava un veicolo non identificato, il quale avrebbe avuto una certa responsabilità nel causare l’incidente; motivo per il quale era stata citata in giudizio la compagnia assicurativa designata per il Fondo.
Gli attori, in questo modo, avevano cumulato una domanda ex art. 2051 c.c. in danno dell’Anas, quale Ente proprietario della strada, ed una domanda ex art. 2054 c.c. in danno della compagnia assicurativa, che rappresentava il Fondo Vittime della strada.
L’Anas si costituiva in giudizio, sostenendo che il sinistro era stato esclusivamente causato dalla condotta imprudente della vittima; mentre il Fondo riteneva che non vi fosse alcun terzo veicolo non identificato e, pertanto, si dichiarava assolutamente estraneo al fatto.
In primo grado, la domanda attorea veniva accolta, essendo stato accertato che il sinistro si era verificato sia per imprudenza della vittima per il 60%, sia per difetto del manto stradale, che aveva inciso per il rimanente 40%. Mentre l’esistenza ed il contributo causale del veicolo ignoto non venivano ritenuti provati.
In secondo grado, invece, veniva accolto l’appello incidentale di Anas e rigettato quello principale, affermandosi la responsabilità esclusiva del motociclista.
Gli eredi proponevano ricorso in cassazione articolato in due motivi.
SOLUZIONE
La probabilità riguarda il grado dell’inferenza, ossia: dai determinati indizi è probabile (più probabile che no) che la causa sia quella indicata dal danneggiato, ma non riguarda la rilevanza degli stessi indizi, che invece devono essere non già probabili, ma gravi, precisi e concordanti. Con la conseguenza che il giudice di merito deve porre a base della decisione fatti che siano gravi, precisi e concordanti, e non meramente ipotetici o supposti come probabili, e da quei fatti deve indurre ipotesi ricostruttive del nesso causale, escludendo quelle meno probabili, e scegliendo, tra quelle rimaste, l’ipotesi che spiega il fatto con maggiore probabilità, sulla base degli indizi raccolti.
QUESTIONI
Con il primo motivo di ricorso, gli eredi della vittima hanno denunciato violazione degli articoli 2051 c.c., 2697 c.c. e dell’art. 1227 c.c.
Il punto centrale, esaminato dai giudici di merito, attiene al ruolo della “cosa in custodia” nella verificazione del sinistro, vale a dire se, nel caso concreto, il difetto di manutenzione della strada sia stato oppure no concausa del danno.
Secondo la ricorrente, sulla base della relazione peritale, l’incidente era prevalentemente dovuto alle condizioni del manto stradale.
La premessa da cui muove la Suprema Corte è l’art. 2051 c.c., che, nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità, che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe sul danneggiato l’onere di allegare il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima. Mentre resta a carico del custode la prova liberatoria.
Il Giudice di secondo grado non ha ritenuto provato che le condizioni del manto stradale abbiano concorso a causare il danno, affermando che, sulla base degli elementi emersi, non era certo, né altamente probabile che la cosa avesse contribuito all’evento dannoso.
Secondo i ricorrenti, la Corte di merito avrebbe violato il criterio del c.d. “più probabile che non”, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “il nesso di causa deve ritenersi accertato quando la tesi a suo favore è più probabile di quella contraria”. La violazione – secondo la ricorrente – consisterebbe nell’aver preteso la Corte d’appello non una probabilità superiore alla tesi contraria, ma addirittura la certezza o l’elevata probabilità.
Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti affermavano che la Corte di merito – muovendo dalla “certezza” che le condizioni del manto stradale non avessero causato il sinistro – avrebbe violato anche gli artt. 2727 e ss. c.c., in quanto non aveva posto, a base della sua presunzione, indizi gravi, precisi e concordanti, ma piuttosto aveva assunto a base della sua conclusione elementi di mero sospetto o assolutamente dubbi, quali la velocità tenuta dalla vittima.
Così concludendo, il Giudice di secondo grado aveva violato la regola per la quale una conclusione può essere assunta su base presuntiva, solo facendo ricorso ad indizi gravi, precisi e concordanti.
I due motivi di ricorso sono stati valutati unitamente e sono stati ritenuti fondati.
Diversamente che in ambito penale, ove la condanna è legittima solo laddove l’imputato risulti colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”, invece, in ambito civilistico il nesso di causalità è regolato dal principio del “più probabile che non”, in base al quale una tesi è provata se ha maggiori probabilità della tesi contraria. Il diritto civile si accontenta, quindi, di un grado di certezza inferiore (rispetto al diritto penale).
La regola del “più probabile che non” implica che per ogni enunciato debba considerarsi la possibilità che esso possa essere vero o falso, vale a dire che in relazione ad un medesimo fatto vi sia un’ipotesi positiva ed una negativa, talché, tra le due alternative, il Giudice debba scegliere quella che, in base alle prove disponibili, abbia un grado di conferma logica superiore all’altra. Infatti, sarebbe irrazionale preferire l’ipotesi che è meno probabile dell’ipotesi inversa.
In altre parole, l’affermazione della verità dell’enunciato implica che vi siano prove preponderanti a sostegno di essa: ciò accade quando vi sono una o più prove dirette – di cui è sicura la credibilità o l’autenticità – che confermano quell’ipotesi, oppure vi sono una o più prove indirette dalle quali si possono derivare validamente inferenze convergenti a sostengo di essa.
Ciò posto, gli Ermellini passano a chiarire i criteri di accertamento del nesso di causalità in caso di concorso di cause, affermando che in tale ipotesi si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”.
Richiamando un proprio precedente orientamento (Cass. civ., 25885/2022), la Suprema Corte ha affermato che in caso di concorso di cause, ”il giudice di merito è tenuto, dapprima, ad eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili, poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili ed infine a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente”.
Gli Ermellini proseguono, poi, affermando che “la probabilità riguarda il grado dell’inferenza, ossia: dai determinati indizi è probabile (più probabile che no) che la causa sia quella indicata dal danneggiato, ma non riguarda la rilevanza degli stessi indizi, che invece devono essere non già probabili, ma gravi, precisi e concordanti”.
Ne consegue che il giudice di merito deve porre a base della decisione fatti che siano gravi, precisi e concordanti e non meramente ipotetici o supposti come probabili, e da quei fatti deve indurre ipotesi ricostruttive del nesso di causa, escludendo quelle meno probabili, e scegliendo, tra quelle rimaste, l’ipotesi che spiega il fatto con maggiore probabilità, sulla base degli indizi raccolti.
Pertanto, non occorrono “né la certezza, né un’elevata probabilità, come assunto dalla Corte di merito, bensì una valutazione delle ipotesi alternative e la scelta di quella più probabile, anche se di poco, rispetto alle altre, che non necessariamente si ponga come di elevata probabilità”.
Ciò è dovuto al fatto che “le probabilità numeriche di un fatto (che la cosa abbia concorso al danno) non necessariamente ammontano al 100%, ossia: data la tesi x e quella contraria y, non necessariamente la loro somma porta al 100% (nel senso che la prima è data al 60% e l’altra al 40%)”.
Secondo la sentenza in commento, “c’è sempre spazio per altre spiegazioni, molto meno probabili, che sono date ad una percentuale minore”, talché, scartate queste ultime, può accadere che le rimanenti, quali quella sostenuta dall’attore e quella sostenuta dal convenuto, abbiano l’una il 30% e l’altra il 20%. In base alla regola del “più probabile che non”, delle due tesi è fondata la prima, anche se non caratterizzata da un’elevata probabilità, come ha preteso la corte di merito, quanto piuttosto da una probabilità maggiore dell’altra ipotesi”.
Non si può tacere, tuttavia, che la teoria del “più probabile che non “presta il fianco ad almeno un paio di osservazioni critiche, che qui sinteticamente si descrivono.
Innanzitutto, il fatto che in ambito civile non sia richiesta la certezza del 100%, come in quello penale, non significa che ci si possa accontentare del 51%, non potendosi escludere che l’ordinamento richieda una percentuale maggiore, sia pure inferiore al 100%.
Inoltre, ritenere un soggetto responsabile per una causalità, ad esempio, del 30%, porta a concludere che lo stesso non è responsabile per il 70%, con la conseguenza che si condanna un soggetto che “più probabilmente” (al 70%) non è responsabile.
Per quanto attiene alla prova liberatoria da parte del custode, la sentenza in commento ribadisce il suo orientamento, ricorrendo ad un noto principio di diritto, disatteso dalla Corte di merito, secondo cui “il custode deve fornire la prova del ruolo causale della condotta del danneggiato, che deve essere tale da incidere sul nesso di causalità escludendolo” (Cass. civ., 9315/2019; Cass. civ., 2480/2018).
Mentre, dalla motivazione della gravata sentenza, emerge che vi era stata una valutazione meramente ipotetica della condotta della vittima, quale risultante dalla CTU, e che non era stata considerata l’efficienza causale richiesta per poterla considerare come fatto liberatorio.
Per tutte le sopra esposte ragioni, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.
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