22 Gennaio 2019

La vendita sottocosto dell’azienda da parte dell’amministratore in conflitto d’interessi può configurare il reato di infedeltà patrimoniale

di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDF

Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 57077 del 7 novembre 2018 (dep. 18 dicembre 2018)

Parole chiave: infedeltà patrimoniale – vendita sottocosto dell’azienda – conflitto d’interessi – accollo – amministratore di società – querela – procedibilità – soci di minoranza – crisi aziendale

Massima: “Rischia una condanna per infedeltà patrimoniale l’amministratore che vende sottocosto l’azienda a una società nella quale ha interessi o partecipazioni. Di più: è del tutto irrilevante che l’impresa alienata debba far fronte a molti debiti”.

Disposizioni applicate: 1273, 2558 e ss., 2634, c.c. e 124 c.p.

Con l’ordinanza emessa dalla Quinta Sezione penale, la Corte di Cassazione si è espressa sul reato societario, invero non così comune, di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.), introdotta con il D.lgs. 11 aprile 2002 n. 61 e con la quale il Legislatore ha inteso punire le figure apicali (amministratori, direttori generali e liquidatori) le quali, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, compiano atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente un danno patrimoniale alla società.

Reato quindi di evento, a dolo specifico, “richiedendo la sussistenza di un depauperamento del patrimonio sociale, intenzionalmente arrecato da parte dell’autore, il quale versi in conflitto di interessi con la società, legato alla condotta dispositiva da un rapporto di causalità diretta e immediata” (cfr. in tal senso Cassazione 20 febbraio 2007 n. 29268) e procedibile a querela (comma quarto dell’art. 2634 c.c.).

L’interesse tutelato è quello alla integrità del patrimonio sociale, in un’ottica più ampia rispetto alla sola garanzia e soddisfazione del ceto creditorio. E’ bene peraltro ricordare come la rilevanza penale dell’atto di disposizione sia esclusa in presenza dei così detti “vantaggi compensativi” (comma terzo dell’art. 2634 c.c.), vale a dire di uno specifico vantaggio, anche indiretto, che si dimostri idoneo a compensare gli effetti immediatamente negativi della operazione per la stessa società, trasferendo su quest’ultima il risultato positivo riferibile al gruppo di cui essa fa parte (cfr. in tal senso Cassazione 27 settembre 2012 n. 44963).

In particolare, nella fattispecie all’attenzione della Quinta Sezione, l’amministratore di una S.r.l., che versava in una situazione di grave dissesto finanziario, al fine di evitarne il fallimento, alienava l’intero complesso aziendale. Tuttavia, il socio di minoranza della società cedente, lo accusava di aver concluso la vendita dell’azienda ad un prezzo “incongruo e notevolmente inferiore rispetto al valore stimatoed in palese conflitto di interessi (in quanto da un lato amministratore della cedente e dall’altro socio della controllante della società cessionaria).

La Corte d’Appello, confermando la pronuncia di prime cure, ravvisava i profili di infedeltà patrimoniale contestati dal socio all’amministratore e lo condannava ad un anno di reclusione, nonché alla pena accessoria della interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche ed al risarcimento da liquidarsi in separata sede civile.

L’amministratore proponeva pertanto ricorso per Cassazione affidandolo a due motivi.

Con il primo motivo lamentava essenzialmente la inosservanza di norme processuali dato che “per il delitto di infedeltà patrimoniale la legge prescrive(rebbe) la perseguibilità a querela della persona offesa: tale poteva essere ritenuta solo la società e non già anche il socio di minoranza” e con il secondo il “difetto assoluto di valida e coerente motivazione rispetto all’evidente insussistenza del fatto ascritto … in relazione alla mancanza evidente del danno … insussistenza del dolo intenzionale richiesto dalla legge”.

La disamina della Corte affronta quindi, preliminarmente, il tema della procedibilità a querela da parte del socio di minoranza ed in proposito osserva come la tesi del ricorrente sia manifestamente infondata in quanto secondo l’insegnamento consolidato in seno alla stessa Corte “la legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale dell’amministratore spetti non solo alla società nel suo complesso ma anche – e disgiuntamente – al singolo socio (cfr. ex multis Cassazione pen., sez. V, 24 giugno 2015, n. 39506) infatti, osserva la Corte, il singolo socio non è solo soggetto danneggiato ma anche “persona offesa” dal reato, in quanto la condotta infedele dell’amministratore è diretta a compromettere le ragioni degli stessi soci “i quali subiscono il depauperamento del loro patrimonio”.

E ciò a maggior ragione laddove, si ricorda, nel corso degli anni la Corte si è spinta sino a ricomprendere tra i soggetti legittimati a sporgere querela anche il socio receduto: “Costui, infatti, non perde la qualità di persona offesa al momento dello scioglimento nei suoi confronti del rapporto sociale, dato che la condotta infedele determina non solo un danno al patrimonio della società, ma anche un depauperamento del valore della quota, alla cui liquidazione il socio ha diritto all’atto del recesso” (cfr., in tal senso, Cassazione pen., sez. V, 14 giugno 2016, n. 35384).

Con riferimento al secondo motivo la Corte precisa subito come “le osservazioni esposte dal ricorrente appaiano non pertinenti e fuori fuoco” in quanto l’addebito mosso nei confronti dell’amministratore è stato di “aver venduto l’azienda … a un prezzo incongruo, cagionando un danno alla società amministrata e procurando ingiusto profitto alla società acquirente, in ragione della situazione di conflitto di interessi in cui versava”.

Con riferimento al prezzo “incongruo”, nello specifico, due erano le proposte per l’acquisto dell’azienda: la prima (accettata) non prevedeva l’accollo dei debiti sociali; la seconda (rifiutata), prevedeva un analogo prezzo di acquisto con l’ulteriore previsione dell’accollo di tutti i debiti sociali (pari a circa € 800.000,00).

Appare quasi superfluo rilevare, osserva la Corte, come la proposta non accettata fosse chiaramente migliorativa, “perché comportava, anche nel rapporto interno, l’accollo di tutti i debiti aziendali e non la mera solidarietà sui generis meramente esterna, scaturente ex lege dalla cessione, che lascia in capo al cedente la responsabilità per i debiti aziendali (n.d.r.: ai sensi dell’art. 2560 c. 2 c.c.)”.

Dimostrato quindi come le proposte non fossero assimilabili e che, anzi, l’offerta accettata fosse meno vantaggiosa, la Corte si sofferma (a dire il vero in modo piuttosto sbrigativo) sui “profili centrali” della infedeltà patrimoniale dell’amministratore precisando come “il suo conflitto di interessi e l’incongruità del corrispettivo … alimentano rispettivamente il vantaggio conseguito e il pregiudizio provocato”.

Perché sussista un conflitto di interessi è infatti necessario che l’amministratore persegua interessi alieni (personali o di terzi) inconciliabili e contrapposti a quelli societari, in guisa che all’utilità conseguita o conseguibile dall’amministratore per sé medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno per la società. Si ricorda peraltro come tale conflitto debba essere accertato, in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori – rispettivamente – la società e il suo amministratore. Nel caso specie il conflitto di interessi dell’amministratore era palese in ragione della sua duplice veste, da un lato, di amministratore della società cedente e, dall’altro, di socio della controllante della società cessionaria dell’azienda.

Quanto al danno patrimoniale per la società, come evidenziato, esso risulta finanche in re ipsa dal solo fatto che la cessione dell’azienda sia avvenuta sottocosto ossia ad un prezzo “incongruo”.

La Corte ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso, condannando altresì il ricorrente al pagamento di tutte le spese del procedimento.