11 Luglio 2017

Estinzione della società e intrasmissibilità delle sanzioni

di Redazione Scarica in PDF

Con la recente sentenza n. 9094 depositata in data 7 aprile 2017, la Quinta Sezione Tributaria della Corte di Cassazione è tornata a occuparsi del tema relativo alla trasmissibilità delle sanzioni tributarie nei confronti dei soci di una società estinta.

In particolare l’oggetto della controversia riguardava la notifica di avvisi di accertamento derivanti da un accertamento induttivo scaturito dall’Agenzia delle Entrate per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte della società contribuente per gli anni 2003 e 2005.

Nel caso in esame la ricorrente, nella propria impugnazione, eccepiva la tardiva presentazione delle dichiarazioni e rappresentava che il ritardo fosse ascrivibile al professionista incaricato della trasmissione telematica.

La CTP recepiva il ricorso proposto dalla contribuente.

Nel giudizio di appello, la CTR respingeva l’impugnazione proposta dall’Ufficio, ritenendo che la documentazione esibita in giudizio dalla società avrebbe evidenziato, oltre ai componenti positivi di reddito valorizzati dall’Agenzia, anche quelli negativi. La CTR precisava che tale documentazione avrebbe potuto essere consultata dai verificatori sin dal momento dell’accesso e che in ogni caso legittimamente la ricorrente aveva esibito i summenzionati documenti in sede giudiziale.

Non solo. I giudici di secondo grado annullavano le sanzioni irrogate alla società, in seguito alla dichiarazione di responsabilità rilasciata dal professionista.

L’Ufficio decideva di procedere ulteriormente in Cassazione eccependo tre motivi di censura alla sentenza emessa dalla CTR adita, cui i tre soci, dei quali il primo in qualità anche di liquidatore della società contribuente, nel frattempo cancellata dal Registro delle imprese, depositavano controricorso.

L’Agenzia delle Entrate lamentava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 52, comma 5, D.P.R. 633/1972 nella parte in cui il giudice di secondo grado aveva ritenuto utilizzabile la copiosa documentazione contabile prodotta dalla contribuente solamente in giudizio, in spregio alla summenzionata norma.

La Corte di Cassazione sul punto ha ritenuto di respingere tale motivo. Nello specifico la censura presupponeva che la contribuente avesse dichiarato di non possedere nel corso della verifica i documenti in questione, circostanza incompatibile con gli accertamenti svolti in sentenza, che hanno evidenziato “la possibilità in sede di verifica da parte della Guardia di Finanza di accedere alle scritture contabili della società …”. In ogni caso, precisava la Corte, che era onere dell’Amministrazione provare che il contribuente si fosse rifiutato di esibire la documentazione richiesta e quindi provare i presupposti richiesti dall’articolo 52, comma 5, D.P.R. 633/1972.

Come secondo motivo l’Agenzia lamentava la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 41 D.P.R. 600/1973, nonché dell’articolo 55 D.P.R. 633/1972.

In particolare l’Ufficio affermava che il giudice di appello aveva erroneamente valutato che la ricostruzione del reddito si sarebbe dovuta operare “sulla base delle risultanze contabili allegate dalla parte”.

La Corte ha ritenuto di respingere anche questo motivo ponendo l’accento sul fatto che, per valutare la legittimità dell’accertamento bisogna fare riferimento ai presupposti di legge esistenti al momento della sua adozione. Nell’ipotesi in questione i verificatori e l’Agenzia avrebbero dovuto considerare gli elementi emergenti dalla documentazione prodotta.

Infine la Corte ha respinto anche il motivo di ricorso in ordine alla contestazione mossa dall’Agenzia relativamente alla decisione da parte della CTR di escludere l’applicabilità delle sanzioni in ragione della mancanza di colpevolezza del contribuente a cagione di comportamento di tardiva presentazione esclusivamente imputabile all’intermediario incaricato.

La Suprema Corte ha, infatti, evidenziato il principio secondo il quale l’estinzione della società determina l’intrasmissibilità della sanzione sia ai soci sia al liquidatore. Ciò in virtù del principio della responsabilità personale ex articolo 2, comma 2, D.Lgs. 472/1997.

Sul punto la Suprema Corte, riprendendo i principi già enunciati in precedenti pronunce (Cass. n. 13730/2015) ha specificato che: “e tale principio assume viepiù rilevanza, ove si consideri che l’articolo 7, comma 1, del D.L. 30 settembre 2003 n.269, convertito con L. 24 novembre 2003 n. 326, ha introdotto il canone della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie”.

Tale regola essendo un principio di ordine generale dovrà necessariamente essere applicata anche d’ufficio.

Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della società, nonché ha rigettato quello nei confronti dei soci e ha condannato l’Ente impositore a rifondere le spese di lite alle parti costituite.

Articolo tratto da “Euroconferencenews“