11 Luglio 2017

Parità di trattamento e discriminazione

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 14 marzo 2017, C-157/15

Discriminazione per motivi religiosi – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Principio della non discriminazione in ragione della religione – Discriminazione diretta e indiretta

 MASSIMA

Il principio generale della non discriminazione in ragione della religione, come espresso concretamente dalla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione. Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

 COMMENTO

Il procedimento principale vede una lavoratrice di fede musulmana che agisce in giudizio contro una società belga – che fornisce servizi di ricevimento e accoglienza – per averla illegittimamente licenziata a causa della violazione del divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro. Ciò posto, il Giudice del rinvio si chiede se il suddetto divieto, stabilito da una norma interna di un’impresa privata che vieta in generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, religioso, filosofico sul luogo di lavoro, costituisca una discriminazione diretta vietata dalla direttiva 2000/78. La Corte, anzitutto, evidenzia che la direttiva 2000/78 mira a stabilire, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni e precisa che sussiste discriminazione diretta quando una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra che si trova in una situazione analoga. La Corte prosegue nel rilevare che nella nozione di “religione” di cui alla direttiva rientra tanto il forum internum, ossia il diritto alla libertà di religione, quanto il forum externum, ovvero la libertà di manifestare la propria religione, individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. Ciò premesso, la Corte afferma che, al fine di determinare se da una siffatta norma interna possa emergere una disparità di trattamento, occorre che sia verificato – dal giudice nazionale – se la norma in questione riguardi qualsiasi manifestazione di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, senza distinzione alcuna, e se sia applicata in maniera identica alla generalità dei dipendenti. In tal caso, dichiara la Corte, la norma non istituisce una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione. In riferimento a costante giurisprudenza europea, la Corte, inoltre, allarga la questione pregiudiziale e afferma che tale norma potrebbe costituire discriminazione indiretta se l’obbligo apparentemente neutro in essa contenuto comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione, salvo che il divieto sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Nonostante la verifica della sussistenza dei detti requisiti sia di competenza del giudice nazionale, in generale, la Corte dichiara che la volontà di mostrare nei rapporti con i clienti una politica di neutralità religiosa deve considerarsi legittima, in ossequio al principio di libertà di impresa. Il Giudice comunitario precisa, in via ulteriore, che nel caso in cui il suddetto divieto sia destinato ai soli dipendenti che hanno rapporti con il pubblico, il mezzo utilizzato è da considerarsi strettamente necessario. Pertanto, la Corte conclude affermando che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da norma interna generale, non costituisce discriminazione diretta e che nel caso in cui sia giustificato da una finalità legittima e da mezzi appropriati al suo raggiungimento, seppur comporti uno svantaggio per alcune categorie di persone, non può dirsi costituire discriminazione indiretta.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”