30 Novembre 2021

Sulla responsabilità da lite temeraria ex art. 96, comma 3 c.p.c.

di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF

Cass., sez. III, 30 settembre 2021, n. 26545 Pres. Graziosi, Rel. Gorgoni

Procedimento civile – Spese processuali – Responsabilità c.d. da lite temeraria – Soccombenza –  (C.p.c. artt. 88, 91, 92, 96)

La condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, deve giungere all’esito di un accertamento che il giudicante è chiamato a compiere caso per caso, anche tenendo conto della fase in cui si trova il giudizio e del comportamento complessivo della parte soccombente, onde verificare se essa abbia esercitato le sue prerogative processuali in modo abusivo, cioè senza tener conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionatamente in relazione all’utilità effettivamente conseguibile.

CASO

La vicenda in oggetto prende le mosse da uno sfratto per morosità con contestuale citazione per la convalida, cui si oppone la società conduttrice eccependo la carenza di legittimazione processuale dell’attore, falsus procurator dell’usufruttuaria, e chiedendo conseguentemente la dichiarazione dell’inesistenza, nullità, ovvero inefficacia e comunque risolto per inadempimento il contratto di locazione stipulato (asseritamente) per conto dell’usufruttuaria.

Il tribunale, con sentenza confermata in appello, dichiara risolto il contratto di locazione e ordina il rilascio dell’immobile.

In particolare, per la parte che qui interessa, il giudice di secondo grado ritiene conforme a diritto il ragionamento del tribunale e concludeva per la “temerarietà”, ai sensi e per gli effetti di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c., della pretesa delle appellanti, anche sulla base della riscontrata infondatezza della tesi del difetto di rappresentanza dell’attore e dell’infondatezza delle difese sostenute nell’ambito della querela di falso proposta incidentalmente nel corso del giudizio.

La decisione d’appello è oggetto di ricorso per cassazione, con cui la conduttrice – sulla base di quattro complessi, e in parte ripetitivi motivi – lamenta (i) il difetto di prova dell’inadempimento, (ii)  il vizio di motivazione consistito nella contraddittoria affermazione della “mancata formulazione di una prova da parte degli appellanti” quando, in primo grado, erano state rigettate tutte le istanze istruttorie; (iii) la nullità del procedimento, per la ricorrenza di un vizio della procura notarile; (iv) la violazione o falsa applicazione dell’art. 96, comma 3 c.p.c., i cui presupposti sono stati riconosciuti dalla Corte d’appello pur a fronte del “comportamento” della parte “ispirato a senso di giustizia ed onestà intellettuale”.

SOLUZIONE

L’ultimo motivo è accolto dalla Cassazione sulla base di un’articola motivazione, che antepone all’illustrazione della vera e propria ratio decidendi un’interessante excursus sulla storia della responsabilità processuale aggravata in Italia, dall’antesignano normativo dell’art. 96 c.p.c. individuato nell’art. 385, ultimo comma c.p.c. (introdotto nel 2006 e abrogato nel 2009), “il quale, nell’intento di disincentivare i ricorsi per cassazione, prevedeva la condanna al pagamento di una somma, equitativamente determinata, entro un limite massimo, nel caso di proposizione del ricorso (o di resistenza in giudizio) con colpa grave”, al parallelo con la disciplina del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 26, in tema di lite temeraria nel processo amministrativo”, all’utilizzo del “principio internazionale e costituzionale del giusto processo”, in materia, da parte della giurisprudenza costituzionale.

Scendendo al caso di specie, la Corte osserva che ‘art. 96 c.p.c., comma 3, richiede la ricorrenza di specifici presupposti, non delineati dal giudice d’appello che si è anzi limitato a richiamare le ragioni che avevano giustificato il rigetto dell’impugnazione.

Per tale ragione la Cassazione, statuendo nel merito, annulla la statuizione con cui la Corte territoriale ha condannato le ricorrenti ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, valorizzando in particolare il fatto che la parte aveva medio tempore correttamente abbandonato (così sottraendosi all’addebito di slealtà processuale implicitamente formulato dalla Corte d’appello) alcune delle pretese fondate sulla querela di falso, rigettata in corso di causa.

QUESTIONI

La sentenza in epigrafe offre meritoriamente l’occasione per ricordare che una corretta applicazione dell’art. 96, comma 3 c.p.c., anche costituzionalmente orientata, non può prescindere da questo semplice principio anche per tale tipo di responsabilità aggravata, così come già per quella di cui al  più circostanziato testo dell’art. 96, comma 1 c.p.c., il fisiologico riconoscimento dell’infondatezza delle ragioni di una delle parti nulla dice sulla sussistenza dei requisiti per cui possa formularsi lato sensu un rimprovero per essersi indebitamente servito del processo.

All’effettiva genericità del dettato normativo, sottolineata anche in sentenza ed esemplificata dal pressoché indeterminato incipit della disposizione (“in ogni caso”), non può infatti accompagnarsi una corrispondente evanescenza nell’individuazione dei presupposti in presenza dei quali il giudice può, o deve, condannare la parte al pagamento, a favore della controparte, di una somma ricostruita anche sulla base di una valutazione equitativa.

Di tale preoccupazione si è in realtà sempre fatta carico la giurisprudenza che, preso atto dell’evidente ratio legis intesa alla creazione di una forma di temerarietà… attenuata, ha più volte sottolineato come il limite inferiore dell’elemento soggettivo sia rappresentato dalla colpa grave (negli stessi limiti, dunque, più espressamente previsti dal primo comma), con insufficienza dei casi in cui sia ravvisabile una colpa lieve del soccombente nella previa ponderazione delle proprie ragioni per agire, o  per resistere, in giudizio; e ciò a differenza di quanto previsto dal comma 2, nel quale, come ricorda la stessa sentenza in commento (e, in precedenza, Cass., 29 luglio 2013, n. 18222; Trib. Massa, 16 novembre 2018, in www.dejure.it), è sufficiente anche la colpa lieve, che risulta “condensata nella formula ‘avere agito senza la normale prudenza'”.

E’ dunque rimasta minoritaria in giurisprudenza la tesi che, svincolando la responsabilità di cui al terzo comma dell’art. 96 dai requisiti descritti dal primo, svincolava effettivamente la condanna dall’accertamento di un elemento psicologico “forte”.

In tal senso si era espressa la Cassazione, soffermandosi in motivazione anche sulla genesi della norma, nella decisione del 21 novembre 2017, n. 27623, secondo cui il tenore letterale dell’art. 96, comma 3 c.p.c. “lascia intendere l’applicabilità della disposizione a tutte le ipotesi di soccombenza, a prescindere da ogni valutazione circa la mala fede o la colpa grave della parte”, e dunque anche in presenza di colpa lieve (o, in ipotesi, anche di nessun profilo soggettivo assimilabile ad una delle gradazioni tradizionali della colpa).

Secondo la Corte, una conferma della volontà del legislatore di non esigere più che il giudice accerti la mala fede o la colpa grave della parte soccombente si sarebbe potuta ricavare dai lavori parlamentari, e in particolare dalla circostanza per cui, durante i vari passaggi che avevano condotto all’approvazione della legge, l’incipit era significativamente transitato da una formulazione ancoràta all’accertamento dell’elemento soggettivo come descritto dal primo comma (“Nei casi previsti dai commi precedenti, il giudice condanna altresì…”) all’attuale, volutamente generico “in ogni caso”.

Da ciò ricavava Cass., 27623/17 che, nell’introduzione del secondo capoverso dell’art. 96 c.p.c., “il legislatore ha voluto configurare non già una fattispecie ancillare rispetto alle figure risarcitorie previste nei primi due commi”, bensì “una figura di responsabilità indipendente e autonoma, che prevede una ‘sanzione di carattere pubblicistico’, priva di natura risarcitoria, destinata a reprimere la parte soccombente che abbia fatto ‘abuso’ dello strumento processuale”.

E’ tuttavia soltanto “formale”, come osservato in sentenza, l’apertura di alcune recenti decisioni alla tesi che prescinde dall’accertamento (almeno) della colpa grave.

Anche in tali ultimi casi infatti è implicitamente affermata la necessità di un’oggettiva e manifesta conoscenza della condotta pretestuosa del soggetto agente, che si traduce – sia pure senza “il riscontro […] dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave” – in una “condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo” (Cass., 15 febbraio 2021, n. 3830), ovvero nella “manifesta inconsistenza giuridica” o ancora nella “palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione” (Cass., Sez. un., 13 settembre 2018, n. 22405). Con sostanziale riaffermazone, pertanto, dell’accertamento di un profilo soggettivo di responsabilità, sia pure emergente dal fatto che “oggettivamente” risulti che si è agito o resistito in giudizio in modo pretestuoso, con abuso dello strumento processuale; ipotesi, chiosa efficacemente la sentenza in commento, nei quali gli atti processuali “parlano da soli”.

Concludendo sul punto, può dirsi oggi maggioritaria la tesi, confermata dalla sentenza in esame, che si fonda sull'”interpretazione verticale” dell’istituto, la quale “estende al comma 3 la rilevanza dei presupposti di cui al comma 1 e che fa leva sulla necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della condanna”.

Se dunque sul piano dell’elemento psicologico la giurisprudenza di legittimità ha optato per un’interpretazione restrittiva, che ha giocato un ruolo nel fatto che l’istituto gode tutt’ora di un’applicazione statisticamente non frequente da parte delle corti di merito, meno rigore è stato richiesto in materia di prova della sussistenza degli altri requisiti della responsabilità e, nell’ambito della fattispecie disciplinata dal primo comma dell’art. 96 c.p.c., del danno.

La Cassazione ha infatti reso più agevole l’onus probandi di tale elemento, ammettendo a sostegno della prova il ricorso a nozioni di comune esperienza, anche alla stregua del principio della ragionevole durata del processo, in base alla quale, secondo l’id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, per essere stati costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario, non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari di lite, causano anche danni di natura non patrimoniale che, per non essere di agevole quantificazione, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass., 19 ottobre 2015, n. 21079).

E’ utile infine osservare che uno dei punti della disciplina esaminati dalla sentenza in commento, ossa l’attuale previsione del risarcimento a favore della parte vittoriosa, potrebbe essere soggetto ad una prossima revisione nell’ambito della riforma del codice di procedura civile oggetto del disegno di legge delega redatto dalla seconda commissione permanente del Senato e in discussione nei prossimi giorni alla Camera.

Il testo da ultimo approvato il 21 settembre 2021 prevede infatti che, nella nuova responsabilità da lite temeraria, la parte offesa dall’illecito debba essere individuata in prima battuta dallo Stato, e che dunque all’erario sarà destinata la somma individuata dal giudice a titolo di risarcimento per l’abuso dello strumento processuale da parte del soccombente.

In tal senso si esprime infatti l’art. 1, comma 21 del disegno di legge delega, che prevede la possibilità che il soccombente, il quale sia incorso in responsabilità aggravata, sia obbligato al pagamento di una sanzione in favore della Cassa delle ammende.

In dottrina, limitando i cenni bibliografici ai contributi degli ultimi anni, v. Breda, Responsabilità processuale aggravata tra risarcimento del danno e sanzione; in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 488 ss.; Busnelli – D’Alessandro, L’enigmatico ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.: responsabilità aggravata o condanna punitiva, in Danno resp., 2012, 585 ss.; Covucci, Deterrenza processuale e pena privata: il “nuovo” art. 96, terzo comma, c.p.c., in Danno resp., 2012, 525 ss.; Dalla Massara, Terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.: quando, quanto, perché?, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 55 ss.; Di Bernardo, L’abuso del processo come interesse specifico a proporre un’azione risarcitoria autonoma da condotta processuale scorretta, in www.judicium.it; Finocchiaro, Ancora sul nuovo art. 96, comma 3˚, c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011, 1189; Fradeani, Note sulla “lite temeraria attenuata” ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Giur. it., 2011, 144 ss.; Franzoni, La lite temeraria e il danno punitivo, in Resp. civ. prev., 2015, 1063 ss.; Lupano, Il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. a tre anni dall’introduzione: orientamenti giurisprudenziali ed incertezze sistematiche, in Corr. giur., 2013, 997; A. Montanari, Del “risarcimento punitivo” ovvero dell’ossimoro, in Europa dir. priv., 2019, 424 ss.; Morano Cinque, Promozione del giudizio per “motivi pretestuosi”: malafede processuale, abuso del processo e lite temeraria, in Resp. civ. prev., 2015, 1168 ss.; Olivieri, L’abuso del processo e l’art. 96, comma 3, c.p.c. nella prospettiva dell’efficienza processuale, in Contratto impr., 2020, 1323 ss.; Sammicheli, Lite temeraria e quantificazione del danno, in Cendon (a cura di), La prova e il quantum, Torino, 2014, 2195 ss.; Trapuzzano, La figura ibrida della condanna anche d’ufficio per lite temeraria tra risarcimento punitivo e pena privata, in Resp. civ. prev., 2021, 412 ss.; Vaccari, L’art. 96, comma 3˚, cod. proc. civ.: profili applicativi e prospettive giurisprudenziali, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 75 ss.