6 Novembre 2018

I limiti soggettivi della prova testimoniale

di Massimo Montanari, Professore ordinario di Diritto processuale civile e di diritto fallimentare – Università degli Studi di Parma Scarica in PDF

Abstract: il presente lavoro verte sulla giurisprudenza formatasi in questi ultimi anni in merito alla regola di incapacità testimoniale posta dall’art. 246 c.p.c., nell’intento di denunciare come nulla si stia muovendo su un terreno dove pure s’avverte la necessità di un qualche segnale di evoluzione

1. Le ragioni di sospetto che possono essere indotte, nei riguardi del soggetto chiamato a deporre come teste, dai particolari legami che lo stesso presenti nei confronti delle parti o dell’oggetto della controversia, sono state affrontate e risolte, dal legislatore italiano, sul terreno dell’ammissibilità della prova – anziché su quello, che, come attestato dall’analisi storica e dall’esperienza comparatistica, ben avrebbe potuto essere battuto, della relativa valutazione (cfr. Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano, 2000, 139 ss.) -, attraverso la codificazione di apposite rules of exclusion, venutesi oggi a compendiare, a séguito della sopravvenuta declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 247 c.p.c. (Corte cost., 23 luglio 1974, n. 248), nella previsione, di cui al precedente art. 246, a termini della quale «non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio».

Il presente lavoro vuole offrire una rapida panoramica degli indirizzi seguiti, in materia, dalla giurisprudenza nel più recente periodo: excursus, va subito detto anticipandone i risultati, che darà atto di un perdurante immobilismo di fondo, disvelato anche sui versanti che più si espongono a critica, come è a dirsi della tesi per cui, pur trattandosi di disciplina dettata nell’interesse, di rango pubblicistico, alla corretta amministrazione della giustizia, le relative violazioni a) darebbero luogo a nullità rilevabili soltanto in forza di apposita eccezione di parte (Cass., 29 gennaio 2013, n. 2075), b) da sollevarsi, a pena di decadenza, in sede di assunzione della prova (Cass., Sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670; Cass., 23 novembre 2016, n. 23896) ovvero, in caso di assenza del difensore alla relativa udienza, nella prima difesa successiva (Cass., 19 agosto 2014, n. 18036; Trib. Trani, 12 marzo 2018, in www.plurisonline.it), c) e necessitante altresì di formale reiterazione, per non doversi intendere come implicitamente rinunciata, all’atto della precisazione delle conclusioni (Cass., Sez. un., n. 21670/2013, cit.; Cass. n. 23896/2016, cit.).

2. Sistematicamente ribadita, anche nell’arco temporale cui è ora riferimento, è l’osservazione, invero pleonastica al lume del chiaro disposto normativo, per cui, a determinare l’incapacità a rendere testimonianza, non può essere l’interesse di mero fatto a un determinato esito della controversia (Cass., 21 ottobre 2015, n. 21418; Cass., 5 gennaio 2018, n. 167, ove pure il rilievo, parimenti acquisito – cfr. Cass., 14 febbraio 2013, n. 3642 – , alla stregua del quale, se inidoneo a provocare il rigetto dell’istanza di ammissione del teste, detto interesse di fatto deve però incidere sulla valutazione di attendibilità delle relative dichiarazioni), bensì, e soltanto, un interesse, giuridicamente qualificato, fungente da titolo di legittimazione ad assumere la qualità di parte nel giudizio dove la testimonianza dovrebbe essere resa (cfr. ancora Cass. n. 167/2018, cit.; nonché Cass. n. 3642/2013, cit.), ovverosia, come più frequentemente si dice, un interesse tale da comportare, alternativamente, una legittimazione principale a proporre l’azione oppure una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri controinteressati (Cass. n. 21418/2015, cit.; Cass., 25 novembre 2014, n. 25015; App. Palermo, 20 febbraio 2018, in plurisonline.it; App. Campobasso, 23 maggio 2017, ibidem).

A tutt’oggi ricorrente è l’affermazione secondo cui si dovrebbe trattare di interesse personale, concreto e attuale (Cass., 7 giugno 2016, n. 13212; App. Palermo, 20 febbraio 2018, cit.). Ma non può sottacersi la difficile conciliabilità di quei predicati, in particolare, di quello dell’attualità, con un altro mantra dell’elaborazione giurisprudenziale in argomento, come quello per cui la valutazione complessiva dell’esistenza dell’interesse al giudizio dev’essere effettuata ex ante (Cass. n. 3642/2013, cit.) e, dunque, la sopravvenuta estinzione del diritto soggettivo su cui sarebbe radicato l’interesse in questione non vale di per se stessa a rimuovere la situazione di incapacità a  prestare testimonianza che da quell’interesse medesimo trae fondamento: principio comunemente declinato nei termini per cui la vittima di un sinistro stradale è incapace di deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento o che il relativo credito sia prescritto (Cass., 23 maggio 2018, n. 12660; Cass., 19 settembre 2015, n. 19258; Trib. Nola, 19 aprile 2018, in www.plurisonline.it) ovvero, ancora, che tale soggetto già sia stato risarcito (Trib. Roma, 15 marzo 2018, in www.plurisonline.it).

3. Nell’ancorare l’incapacità testimoniale alla legittimazione a spiegare intervento in causa, il predetto art. 246 c.p.c. non opera distinzioni di sorta in relazione alle differenti figure di intervento che la legge conosce. E la giurisprudenza si è sempre uniformata a questo dato letterale, proclamando la riferibilità del divieto ivi disciplinato a tutte le categorie, nessuna esclusa, di intervento volontario (contro le soluzioni discretive proposte al riguardo da una parte, seppur minoritaria, della dottrina: cfr., in particolare, Redenti-Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, 305; Andrioli, voce Prova testimoniale (diritto processuale civile), in Dig. it., XIV, Torino, 1967, 336) e l’insussistenza di ragioni che impongano di sceverare, ai fini in discorso, tra intervento volontario e intervento coatto. La più recente fase dell’elaborazione giurisprudenziale non offre riscontri espliciti a questa posizione (v., da ultima, Cass., 23 ottobre 2002, n. 14963): ma è da escludere che ciò significhi una qualche forma di resipiscenza sul punto.

Pur avvertendo le ricadute negative, sul giudizio di fatto, di una consimile dilatazione del raggio applicativo della norma in rassegna, la giurisprudenza non ha mai ritenuto di dover direttamente mettere in discussione la bontà delle sue scelte interpretative al riguardo; e sull’onda dell’esigenza di salvaguardare il ricorso alla prova testimoniale allorché questa rappresenti strumento indispensabile ai fini della conoscenza dei fatti di causa, ha preferito operare sulla premessa minore del c.d. sillogismo giudiziale, disconoscendo (o fingendo di ignorare) la sussistenza degli estremi della legitimatio ad interveniendum in situazioni dove la presenza di tali estremi appare difficilmente controvertibile. Poiché operazioni di questo tipo sono state praticate anche in tempi recenti, come subito s’avrà modo di vedere, indiscutibile si dimostra allora la persistente attualità dell’esigenza di fondo che le ha generate e di quella lettura estensiva dell’art. 246 c.p.c. che a sua volta si colloca alla radice di quell’esigenza medesima.

A conforto di questi rilievi, si vedano così Cass., 24 aprile 2018, n. 10112, che, con riferimento alla causa promossa da un investitore in via di impugnazione di una determinata operazione finanziaria, ha affermato la capacità a testimoniare di un dipendente dell’intermediario finanziario convenuto nell’occasione in giudizio, vale a dire di un soggetto che detta parte convenuta ben avrebbe potuto chiamare in causa, secondo lo schema della c.d. garanzia impropria, per essere tenuta indenne dalle conseguenze pregiudizievoli di un’eventuale soccombenza; e, a livello di giurisprudenza di merito, Trib. Larino, 22 luglio 2017, in www.plurisonline.it, e Trib. Bari, 24 ottobre 2013, ibidem, che hanno riconosciuto la legittimità dell’audizione come teste del dipendente – a dispetto dell’ammissibilità di una sua chiamata in causa anche iussu iudicis -, nei procedimenti di opposizione promossi dal datore di lavoro contro le ordinanze-ingiunzione emesse a suo carico dall’Ispettorato del lavoro per violazione delle norme sulle assunzioni.

4. A completamento di questa rassegna, merita ancora rammentare Cass., 8 maggio 2015, n. 9304, che ha ribadito il consolidato principio che vuole escluso il coniuge in regime di comunione dei beni dal novero dei possibili testimoni nelle cause che vedono coinvolto l’altro coniuge e destinate a incidere sul patrimonio comune; e Cass., 31 gennaio 2018, n. 2332, ai sensi della quale, nel processo di accertamento della responsabilità da cose in custodia per danni da infiltrazioni d’acqua originate da parti comuni di un edificio condominiale, l’amministratore del condominio non è incapace di testimoniare, posto che i soggetti potenzialmente responsabili in solido sono i singoli condomini e non il condominio o il suo amministratore: la stessa ragione per cui, a tenore della precedente Cass., 27 agosto 2015, n. 17199, è viceversa da escludere la capacità testimoniale del singolo condomino nel giudizio avviato contro il condominio per il risarcimento dei danni provocati da una caduta sul pianerottolo comune.