7 Dicembre 2021

Falsità materiale della scrittura privata riconosciuta e querela di falso

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 29912, Pres. Berrino – Est. Arienzo

[1] Riconoscimento della sottoscrizione di una scrittura privata – Effetti – Presunzione di riferibilità della scrittura al sottoscrittore – Conseguenze – Collegamento tra imputabilità del documento e titolarità della volontà ivi espressa – Contestazione – Querela di falso – Necessità – Fattispecie (artt. 2702 c.c., 214 e 215 c.p.c.)

La scrittura privata, una volta intervenuto il riconoscimento della sottoscrizione, è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità dell’intero contenuto al suo sottoscrittore; qualora, tuttavia, questi neghi di essere autore, totalmente o parzialmente, delle dichiarazioni risultanti dal documento, al fine di superare la presunzione, deve proporre querela di falso. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che in una controversia di lavoro ha ritenuto di superare la presunzione di riconoscimento di una scrittura effettuata da una lavoratrice, a seguito di una transazione, sul presupposto che essa si presentava palesemente adulterata, benché la dipendente non avesse proposto querela di falso, limitandosi ad una generica contestazione di abusiva correzione della cifra inizialmente indicata come percepita). 

CASO

[1] In una controversia individuale di lavoro, il Tribunale di Pescara accoglieva la domanda proposta dalla lavoratrice ricorrente, di condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive ad essa spettanti.

Proponeva appello il datore di lavoro il quale, in particolare, deduceva come la lavoratrice avesse sottoscritto una transazione (non disconosciuta in sede giudiziale) a completa tacitazione delle proprie pretese. Rilevava però la Corte d’Appello di L’Aquila come tale transazione risultasse palesemente adulterata, mediante correzione della somma ivi indicata con una grafia ictu oculi non corrispondente a quella della lavoratrice.

In considerazione delle risultanze della disposta CTU contabile, in riforma parziale della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello condannava il datore di lavoro al pagamento di una minor somma rispetto a quella riconosciuta in prime cure.

Il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione, mediante il quale deduceva violazione degli artt. 2702 c.c., 214 e 215 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3), c.p.c.

In particolare, il ricorrente rinviava al testo della transazione sottoscritta dalla lavoratrice a completa tacitazione di ogni spettanza per la collaborazione intercorsa tra le parti, rilevando come nella prima udienza di discussione dinanzi al giudice del lavoro, la lavoratrice avesse riconosciuto la sottoscrizione e si fosse limitata a una generica contestazione di abusiva correzione della cifra indicata. Poiché la resistente non aveva avanzato querela di falso nei riguardi di tale dichiarazione, doveva ritenersi, secondo il ricorrente, che la scrittura fosse sorretta da presunzione di autenticità quanto al suo contenuto.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione, ravvisatane la fondatezza, accoglie il ricorso.

La Suprema Corte fa procedere il proprio ragionamento dal principio di diritto affermato da Cass., 14 marzo 2013, n. 6534, secondo il quale “la scrittura privata, quando ne sia stata o debba considerarsi riconosciuta la sottoscrizione, è sorretta da una presunzione di autenticità relativamente al contenuto, nel senso che l’autenticità della sottoscrizione fa presumere la provenienza dal sottoscrittore delle dichiarazioni attribuitegli, ma, se quest’ultimo, pur riconoscendo o non disconoscendo la sottoscrizione, neghi di essere autore, totalmente o parzialmente, delle dichiarazioni risultanti dal documento ed esperisca in proposito con esito positivo la querela di falso, viene meno il collegamento della sottoscrizione con le dichiarazioni e, quindi, l’indicata presunzione. Pertanto, nel caso in cui sia denunciata la falsità materiale di una scrittura privata, occorre che il sottoscrittore dia con la querela di falso la prova della contraffazione del documento, e non anche che la stessa è avvenuta senza o contro la sua volontà, mentre incombe sulla parte interessata a dimostrare il contrario, ossia che la contraffazione e stata compiuta o consentita dal sottoscrittore, l’onere di provare il proprio assunto, onde ricostituire il collegamento tra sottoscrizione e dichiarazioni, infranto dal positivo esperimento della querela di falso [corsivi nostri]”.

Sulla base di tale principio di diritto, la Cassazione afferma la correttezza della posizione assunta dal datore di lavoro ricorrente, laddove lamenta che il contenuto della dichiarazione della lavoratrice, non disconosciuta, non potesse essere posto nel nulla se non attraverso la querela di falso: a fronte della produzione della transazione la lavoratrice, avendone dedotto la falsità materiale, avrebbe infatti dovuto impugnarla mediante querela di falso e, solo dopo il positivo esperimento di detta impugnazione (che nella specie non vi è stato), si sarebbe potuta aprire questione in ordine al rilascio della scrittura in bianco e all’esistenza di accordi circa il riempimento.

In conclusione, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza con rinvio della causa dinanzi al giudice designato in dispositivo, tenuto a uniformarsi ai principi di diritto richiamati.

QUESTIONI

[1] La pronuncia in commento interviene sul tema dell’efficacia della scrittura privata con sottoscrizione riconosciuta, decidendo una fattispecie connotata da indubbie peculiarità: nel caso di specie, infatti, la Corte d’Appello ha sostanzialmente proceduto ad accertare incidentalmente e d’ufficio la falsità dell’indicazione contenuta nella transazione, al di fuori delle rigorose procedure predisposte dal codice di rito. Un’operazione, questa, da considerare preclusa anche al giudice del lavoro, pur dotato di penetranti poteri istruttori d’ufficio.

In materia di scrittura privata, l’art. 2702 c.c., come noto, prevede che la stessa faccia «piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta».

L’oggetto dell’efficacia pienprobante che può assistere la scrittura privata è rappresentato dal c.d. estrinseco del documento, ossia la paternità delle dichiarazioni contenute nella scrittura medesima, che il giudice, al perfezionarsi di una delle fattispecie di riconoscimento descritte dalla norma, è vincolato a ritenere come indubitabilmente provenienti dal soggetto che risulta esserne il sottoscrittore.

Nel caso che ci occupa, dalla lettura del provvedimento emerge l’integrazione della fattispecie di riconoscimento tacito descritta dall’art. 215, n. 2), c.p.c., ai sensi del quale «la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta […] se la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione».

Dunque, la transazione prodotta in giudizio dal datore di lavoro, non tempestivamente disconosciuta dalla lavoratrice, ha acquistato efficacia pienprobante in relazione al suo contenuto c.d. estrinseco, ossia circa la provenienza delle dichiarazioni ivi contenute dalla lavoratrice che vi ha apposto la propria sottoscrizione.

La contestazione mossa dalla lavoratrice nei confronti della transazione ha riguardato la c.d. falsità materiale della scrittura, sub specie di sua alterazione, consistente nell’apposizione su un documento, redatto da chi ne appare autore, posteriormente alla sua redazione, di modifiche da parte di altro soggetto, a ciò non legittimato.

È pacifico che la contestazione della falsità materiale di una scrittura privata riconosciuta debba essere veicolata nelle forme della querela di falso, unico strumento processuale che consente di rompere il collegamento tra dichiarazione e sottoscrizione che, come detto, si instaura con il perfezionarsi dell’efficacia pienprobante sull’elemento estrinseco del documento (in tal senso, oltre alla già cit. Cass., n. 6534/2013, Cass., 30 ottobre 2012 n. 18664; per i dovuti riferimenti dottrinali, sia consentito rinviare a V. Baroncini, sub art. 2702, in E. Gabrielli, Commentario del codice civile, Della tutela dei diritti, 440 ss.).

La fattispecie descritta, peraltro, deve essere debitamente distinta da quella dell’abuso di biancosegno, intendendosi con quest’ultima espressione il documento la cui redazione è compiuta in un momento successivo, e da un soggetto diverso, rispetto a colui che abbia apposto in calce la propria sottoscrizione. Con riguardo a tale fattispecie possiamo distinguere il riempimento sine pactis, dove la redazione della scrittura è avvenuta in mancanza di qualsivoglia previa autorizzazione da parte del sottoscrittore, dal riempimento contra pacta, in cui il sottoscrittore ha previamente autorizzato l’autore della scrittura al riempimento, ma quest’ultimo ha violato le istruzioni ricevute.

Ora, se la querela di falso costituisce un rimedio diretto a eliminare la fede privilegiata della quale la scrittura privata con sottoscrizione autenticata e riconosciuta gode – e cioè la provenienza della dichiarazione da chi l’ha sottoscritta -, il riempimento contra pacta della scrittura sottoscritta in bianco concreta non un’ipotesi nella quale possa negarsi la provenienza della dichiarazione dal sottoscrittore, ma un’ipotesi di non corrispondenza fra ciò che risulta dichiarato e ciò che era stato pattuito di dichiarare, in quanto tale contestabile facendo valere la violazione del patto di riempimento.

In conclusione, la decisione assunta dalla Cassazione appare meritevole di adesione, così come il principio di diritto affermato, peraltro consolidato nella nostra giurisprudenza di legittimità.

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