16 Aprile 2019

Donazione di terreno e mutamento della destinazione urbanistica: un regalo che non sempre comporta vantaggi

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza n. 20041 del 06/10/2016

DIVISIONE – DIVISIONE EREDITARIA – OPERAZIONI DIVISIONALI – FORMAZIONE DELLO STATO ATTIVO DELL’EREDITA’ – COLLAZIONE ED IMPUTAZIONE – RESA DEI CONTI – COLLAZIONE D’IMMOBILI – MIGLIORAMENTI, SPESE, DETERIORAMENTI Nozione – Mutamento della destinazione urbanistica successivamente all’alienazione del fondo da parte del donatario – Esclusione – Fondamento.

In tema di scioglimento della comunione ereditaria, la collazione per imputazione di un immobile che, successivamente alla sua alienazione da parte del donatario, ma anteriormente all’apertura della successione, abbia subito un incremento di valore per effetto di una destinazione edificatoria insussistente all’atto dell’alienazione suddetta, va eseguita stimando il valore del bene al momento dell’apertura della successione e, dunque, tenendo conto anche di tale sopravvenuta attitudine urbanistica la quale, non dipendendo da un’attività del donatario o del terzo diretta ad incrementare il valore del bene, né essendo correlativa ad un esborso del donatario o all’arricchimento, corrispondente al valore delle opere realizzate, che il terzo abbia voluto porre in essere in favore di quello, non corrisponde alla finalità che sottende il regime dei miglioramenti della res “donata” e, pertanto, non ne condivide la disciplina.

Disposizioni applicate

Codice Civile, articoli 746, 747, 748, 749, 769

[1] Dopo la morte di Tiziona, due dei di lei figli, Tizio e Caio, citavano in giudizio la sorella Mevia e il padre Tizione deducendo che la successione era regolata dalla legge e, ai fini della divisione, precisavano che nell’asse ereditario, a seguito dell’obbligo di collazione, doveva confluire anche un terreno, donato da Tiziona alla figlia Mevia con atto pubblico del 1983. Chiedevano, dunque, di procedersi alla divisione previa imputazione del fondo oggetto di donazione alla massa ereditaria. Mevia, nel costituirsi, deduceva, tra altro, che il terreno era stato da lei venduto, già nel lontano 1984, al prezzo di Lire 15.000.000 e che il valore dello stesso andava calcolato considerandone la destinazione agricola, per come esistente al momento della donazione. Nel corso degli anni successivi all’alienazione a terzi, infatti, il terreno aveva visto mutare la propria destinazione urbanistica, divenendo edificabile, con incremento considerevole del valore (determinato a seguito di CTU in Euro 108.000,00).

Il Tribunale di primo grado dichiarava aperta la successione legittima di Tiziona e rigettava la domanda di divisione sul presupposto che uno degli immobili caduti in successione era da considerarsi abusivo e che gli attori non avevano prodotto la certificazione di cui all’art. 35 della Legge n. 47/1985.

La sentenza veniva impugnata da Caio e Tizio i quali producevano nuovi documenti e chiedevano procedersi alla divisione ereditaria. L’appellata resisteva eccependo l’inammissibilità della produzione documentale; chiedeva accertarsi l’impossibilità di procedere alla divisione e rilevava che, anche per una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 745 c.c., il valore del fondo oggetto di collazione andava determinato con riferimento al tempo della donazione, senza tener conto della diversa destinazione urbanistica che lo stesso presentava al momento dell’apertura alla successione.

La Corte di appello, in riforma della sentenza impugnata, disponeva lo scioglimento della comunione ereditaria e, tra l’altro, condannava l’appellata a versare a Caio e Tizio una somma di denaro.

Mevia presentava ricorso in Cassazione, verso il quale resistevano con controricorso Tizio e Caio.

[2] Sei sono i motivi di doglianza sollevati dalla ricorrente, ma nel corso della presente analisi l’attenzione merita di esser focalizzata sulle considerazioni svolte dalla Suprema Corte relativamente alla valutazione del bene oggetto di donazione.

La ricorrente, difatti, impugnava la sentenza di secondo grado nella parte in cui si era ritenuto che il valore del bene donato dovesse essere determinato in ragione dello stato giuridico che lo stesso aveva all’apertura della successione. Osservava, in particolare, la difesa di Mevia che, “affinché possa correttamente essere ristabilita la proporzione delle quote ereditarie proprie di ciascuno dei condividenti, il coerede donatario sarebbe tenuto a conferire alla massa ereditaria solo il valore rappresentato dall’effettivo arricchimento di cui egli ha goduto a seguito della liberalità. Per effetto dell’accoglimento del criterio adottato dalla Corte di appello, invece, gli eredi non donatari verrebbero a giovarsi, nella determinazione delle loro quote ereditarie, di un aumento del valore del cespite, connesso alla sopravvenuta acquisizione della sua natura edificatoria, di cui la ricorrente non aveva mai beneficiato, sicché la collazione avrebbe finito per produrre, in maniera irragionevole e contrariamente al suo scopo, una ingiusta locupletazione dei controricorrenti a discapito dell’istante.

Sul coerede donatario verrebbero in definitiva a gravare quegli incrementi di valore del bene intervenuti successivamente alla sua alienazione e legati ad evenienze imprevedibili o fortuite: il che confliggerebbe, oltretutto, con la volontà espressa dal de cuius. Del resto, se le migliorie, quali incrementi di valore del fondo, devono essere scomputate dal valore dell’immobile donato anche se apportare da un terzo rispetto al donatario, poteva ragionevolmente concludersi che la sopravvenuta edificabilità del terreno e il conseguente incremento del valore che in esso si esprime, rappresentasse proprio una miglioria.”

Sul punto, la ricorrente sollevava anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 747 c.c. per contrasto con l’art. 3 Cost.. Veniva, in punto, contestata l’interpretazione della citata norma che porrebbe, in ogni caso, a carico del coerede donatario il rischio delle variazioni di valore del bene donato intervenute sino alla morte del donatario. La ricorrente riteneva che una simile interpretazione porterebbe ad “un trattamento omogeneo di situazioni differenziate, riguardanti, da un lato, il caso in cui il donatario non alieni l’immobile, optando per la conservazione dello stesso fino al momento dell’apertura della successione e, dall’altro, l’ipotesi in cui quel soggetto decida, invece, di trasferire quello stesso bene a terzi”.

La Cassazione ha analizzato, respingendole, le considerazioni sopra riportate.

[3] La sentenza de qua fornisce lo spunto per una più generale riflessione in ordine alla valutazione dei beni donati ai fini della collazione (nonché, per espresso richiamo legislativo, dell’imputazione ai fini dell’esperimento dell’azione di riduzione).

L’art. 747 cod. civ. stabilisce testualmente che “la collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo della aperta successione”; e, nel caso in analisi, non essendo il bene donato più presente nel patrimonio del donatario, tale modalità di collazione era l’unica possibile.

Se non fosse previsto alcun correttivo, il donatario potrebbe subire svantaggi considerevoli anche allorché il valore si fosse incrementato in ragione di opere e miglioramenti da lui apportati. Per tale ragione, il legislatore, all’articolo 748 cod. civ., ha previsto che “si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione. Devono anche computarsi a favore del donatario le spese straordinarie da lui sostenute per la conservazione della cosa, non cagionate da sua colpa”. Nel caso, poi, in cui il bene sia stato alienato a terzi, la norma successiva dispone che si debba tenere conto anche dei miglioramenti e deterioramenti fatti dall’acquirente.

La ratio di tali norme viene individuata nella considerazione che “non sarebbe ragionevole imporre al donatario di conferire un valore che non è riferito all’originaria consistenza della res donata, ma che dipende, piuttosto, da iniziative da lui assunte (nel caso di miglioramenti eseguiti a sua cura e spese) o da interventi di terzi che abbiano inteso favorirlo”.

Il dettato normativo non brilla certo per chiarezza e non sono ben delineati i confini interpretativi del concetto di “miglioramenti”. A giudizio della Suprema Corte, “deve riconoscersi natura di miglioria a quell’opera che si incorpori nel fondo ed aumenti le opere esistenti, ovvero ne migliori l’inefficienza; non può invece riconoscersi natura di miglioria a quell’opera che valga solo a conservare le opere esistenti, minacciate di deperimento o di crollo, giacché in tal caso si tratta piuttosto di spese di straordinaria manutenzione. La miglioria finisce quindi necessariamente per ripercuotersi in un miglioramento della cosa, in un suo aumento, e, quindi, in un aumento del suo valore.” [1] Il classico esempio di miglioramento è, pertanto, quello del rudere donato dal padre al proprio figlio che, con proprie risorse, lo ristruttura ricavandone un’abitazione di notevole valore economico.

Ma cosa è a dirsi relativamente ad incrementi di valore che derivano da fattori che non possono essere ricondotti ad alcuna attività materiale compiuta dal donatario o da un terzo?

Quando, come nel caso di specie, al bene donato, al momento di apertura della successione debba essere attribuita una valutazione elevata in ragione di una modifica del piano regolatore che ha reso edificabile un terreno originariamente agricolo, chi deve assumersi l’alea di tale aumento?

La Corte d’appello, con ragionamento non contestato dalla Cassazione, aveva osservato che il coerede donatario aliena a proprio rischio ove ceda il bene oggetto della collazione prima dell’apertura della successione ed aveva precisato che “il conferimento in natura o per imputazione integra un’ipotesi di obbligazione alternativa fondata sul presupposto della sostanziale equivalenza delle prestazioni: equivalenza che verrebbe ad essere alterata ove a fronte dell’impossibilità della prima per preventiva scelta dell’obbligato, alla seconda consegua un’utilità minore per gli altri legittimari, quando invece la finalità della collazione è quella di assicurare, tendenzialmente, una parità di trattamento nei reciproci rapporti dei coeredi.

La giurisprudenza appare unanimemente orientata nel senso di escludere che possano ricondursi al concetto di miglioria tutti quegli eventi che non dipendano da un’attività, del donatario o del terzo, diretta a incrementare il valore del bene.

Tale interpretazione, da un punto di vista squisitamente logico ha ragione d’essere accolta ogniqualvolta il mutamento “esterno” si realizzi prima della alienazione a terzi da parte del donatario. Se vendo un terreno che ho ricevuto in donazione dopo che già la modifica del piano regolatore l’ha reso edificabile, avrò avuto la possibilità di “lucrare” in sede di determinazione del prezzo di vendita; ed è comprensibile che debba in qualche modo renderne conto in sede di collazione. Non altrettanto facile è per chi si trova a dover imputare l’equivalente di un terreno edificabile divenuto tale magari a distanza di anni da quando lo si è venduto ad un prezzo irrisorio. Effettivamente, questioni di “giustizia” sembrerebbero avallare un ragionamento quale quello condotto dalla ricorrente, che riconosca in capo al coerede donatario l’obbligo di conferire alla massa ereditaria solo il valore rappresentato dall’effettivo arricchimento di cui egli ha goduto a seguito della liberalità.

La Cassazione giustifica la propria posizione affermando che “la soluzione indicata da parte ricorrente conduce alla inaccettabile conseguenza per cui, a fronte di un medesimo fatto (il mutamento della destinazione urbanistica del fondo), la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario, e il valore del bene al netto dell’incremento determinato dalla sopraggiunta vocazione edificatoria del fondo, nel caso in cui questo sia stato invece alienato. Rimane quindi confermato che, anche nell’ipotesi di alienazione del bene – il quale abbia subito un incremento di valore per effetto di una destinazione edificatoria insussistente al momento del trasferimento il bene debba essere stimato, ai fini della collazione, facendo riferimento al momento in cui si apre la successione”.

E, per meglio comprendere, si ipotizzi il caso diametralmente opposto: un bene, che al tempo della donazione aveva un valore anche ingente, alla morte del donante non ha più il medesimo appeal economico a seguito di eventi naturali. Non si dubita, in tal caso e con buona pace dei coeredi non donatari, che debba essere imputato il valore che il fondo ha al momento di apertura della successione.

O, ancora, si pensi alle normali oscillazioni del mercato immobiliare: nessuno pretende mai di poter portare in detrazione eventuali aumenti del prezzo al metro quadro (anche quando tali incrementi siano notevoli, come può avvenire in zone dove vengano realizzate opere che nemmeno vanno ad interessare direttamente il bene donato. Si pensi, ad esempio, all’apertura, in prossimità dell’immobile oggetto di collazione, di una fermata della metropolitana o di un impianto di risalita ad un comprensorio sciistico).

E di quanto tale orientamento sia radicato in giurisprudenza, ne è riprova un ulteriore pronunciato in cui addirittura si afferma che “l’inizio di un procedimento di trasformazione urbanistica è di per sé sufficiente ad incidere sul valore di mercato di un immobile compreso nell’area oggetto dello strumento urbanistico, risultando invece irrilevanti le vicende successive quali la mancata approvazione o la modificazione dello strumento stesso da parte del Comune”.[2]

Come, pertanto, già evidenziato dal Giudice di merito il donatario effettivamente, al momento in cui aliena il bene ricevuto, lo fa a proprio rischio, dovendo avere consapevolezza che futuri obblighi di collazione potrebbero, per lui, addirittura comportare una perdita economica.

[1] Così, Cass. Civ., Sezione 2, sentenza n. 2621 del 05/10/1974

[2] Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 24711 del 24/11/2009

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