8 Febbraio 2022

Documenti prodotti in primo grado dall’appellato rimasto contumace: è onere dell’appellante acquisirne copia ex art. 76 disp. att. c.p.c.

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. VI, 17 dicembre 2021, n. 40606, Pres. Amendola – Est. Scrima

[1] Documenti prodotti in primo grado dall’appellato – Mancata produzione in appello da parte di quest’ultimo – Onere dell’appellante di acquisirne copia, ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c. – Necessità – Fondamento (art. 76 disp. att. c.p.c.; art. 2697 c.c.)

Nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non ha ad oggetto un riesame pieno nel merito della decisione impugnata (“novum judicium”), ma assume le caratteristiche di una “revisio prioris instantia”, cosicché l’appellante ha sempre la veste di attore rispetto al giudizio instaurato e con essa l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale assunta nel giudizio di primo grado, e ove si dolga dell’erronea valutazione, da parte del primo giudice, di documenti prodotti dalla controparte e da questi non depositati in appello, ha l’onere di estrarne copia ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c. e di produrli in sede di gravame. 

CASO

[1] All’esito di una controversia in materia di responsabilità conseguente a un sinistro, il Tribunale di Napoli condannava i convenuti al risarcimento dei danni subiti dall’attore danneggiato e, in accoglimento della domanda di manleva dagli stessi proposta nei confronti della compagnia assicuratrice, condannava quest’ultima a tenerli indenni dalle conseguenze negative derivanti della soccombenza, in base alla polizza di assicurazione della responsabilità civile stipulata.

La compagnia assicuratrice proponeva appello avverso tale sentenza; i convenuti in primo grado ne chiedevano in rigetto; l’attore danneggiato rimaneva contumace.

La Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento dell’impugnazione proposta, rigettava la domanda di manleva avanzata dai convenuti per intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno fatta valere nei loro confronti dall’attore in primo grado, condannandoli in via solidale a restituire alla compagnia assicuratrice la somma (di oltre 50.000 euro) dagli stessi percepita in esecuzione della sentenza di primo grado.

In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che il Tribunale avesse omesso di pronunciarsi sull’eccezione di prescrizione sollevata dalla compagnia assicuratrice, ritenendola ritualmente proposta e fondata per difetto di prova di atti interruttivi, non essendosi l’attore costituito in secondo grado e non avendo potuto la Corte visionare gli atti dal medesimo prodotti, sì da verificare se l’atto introduttivo fosse stato notificato dall’attore ai convenuti entro l’ultimo giorno del termine di prescrizione, né potendo desumere tale circostanza da altri atti o provvedimenti inseriti nel fascicolo d’ufficio o in quelli delle altre parti. La Corte d’Appello ha precisato, inoltre, che la declaratoria di intervenuta estinzione del diritto al risarcimento del danno per decorso del termine prescrizionale non potesse paralizzare la pretesa avanzata dall’attore nei confronti dei convenuti, producendo effetto esclusivamente nell’ambito del rapporto di garanzia tra l’assicuratore e gli assicurati, comportando il rigetto della domanda di manleva proposta da questi ultimi nei confronti del primo.

Avverso tale pronuncia, i convenuti proponevano ricorso per cassazione. Con un unico motivo di ricorso, curiosamente rubricato ex art. 360, n. 5), c.p.c., i ricorrenti deducevano violazione e falsa applicazione degli artt. 2952 e 1917 c.c. e dell’art. 111 Cost. quali ragioni per sostenere l’erroneità della decisione della Corte d’Appello di accoglimento del gravame: in assenza delle produzioni documentali dell’attore rimasto contumace in appello, non era infatti possibile verificare l’avvenuta prescrizione o meno del diritto di questi (si trattava, nello specifico, di atti interruttivi di cui la società assicuratrice affermava l’inefficacia, verificabile soltanto attraverso un esame diretto degli stessi, reso impossibile dalla contumacia dell’attore e dall’inerzia dell’appellante) e, comunque, la contumacia di tale soggetto e il conseguente venir meno, per il giudice di seconde cure, della completezza della documentazione di primo grado, non poteva ritorcersi in loro danno. In definitiva, sarebbe stato onere della parte appellante allegare i documenti giustificativi del proprio motivo di gravame e non limitarsi a coltivare la propria eccezione di prescrizione, disattesa dal giudice di primo grado.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione, giudicando il motivo inammissibile quanto al vizio di motivazione dedotto, sostanzialmente procede a una riformulazione dello stesso ai sensi del n. 3) dell’art. 360 c.p.c.: in tale veste, il ricorso viene giudicato fondato.

In particolare, nella motivazione del provvedimento si richiama l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure proposte: ciò, in quanto l’appello non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare “da uno all’altro esame della causa”, ma una revisio fondata sulla denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata, con la conseguenza, appunto, che è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, produrre (o ripristinare in appello se già prodotti in primo grado), i documenti sui quali egli basa il proprio gravame o comunque attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. c.p.c., di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, perché questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello; ne discende, inevitabilmente, che lo stesso venga a subire le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte, quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice di appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare (in tal senso, vengono richiamate le pronunce di Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498; Cass., sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3033; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1462; Cass. 9 giugno 2016, n. 11797).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Napoli, accogliendo l’impugnazione proposta, avrebbe ignorato tali principi, con conseguente necessità per la Cassazione di accogliere il ricorso, rinviando la causa allo stesso giudice di secondo grado, in diversa composizione.

QUESTIONI

[1] La pronuncia in commento affronta il tema della posizione dell’appellante nel giudizio di appello e degli oneri probatori incombenti in capo allo stesso, in relazione alla natura giuridica da riconoscere a tale mezzo di impugnazione.

Come ampiamente noto, l’appello costituisce oggi – e ancor più a seguito delle riforme attuate con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134 – una c.d. revisio prioris instantiae, ossia un mezzo di impugnazione introdotto con la proposizione di specifici motivi di appello e finalizzato al riesame di quelle singole e specifiche questioni, decise nel giudizio di primo grado, che con tali motivi si censurano (c.d. effetto devolutivo circoscritto ai motivi dell’appello). Questa, come si diceva, è la conformazione attuale del mezzo d’impugnazione in esame, scelta dal legislatore in antitesi al modello del novum iudicium, la cui funzione sarebbe quella dell’effettuazione di un nuovo e autonomo giudizio sulla lite già dedotta in primo grado, con automatica devoluzione al giudice di seconde cure di tutte le questioni conosciute e decise in prima istanza.

Con riguardo alla questione che ci occupa – ossia, quella relativa alla posizione assunta dall’appellante nel giudizio di secondo grado e ai conseguenti oneri di allegazione e di prova incombenti sullo stesso -, la qualificazione dell’appello quale novum iudicium ovvero come revisio prioris instantiae assume conseguenze dirette: nel primo caso, infatti, l’appellante manterrebbe la stessa posizione processuale (di attore o di convenuto) già rivestita in secondo grado, mutuando da questo i connessi oneri di allegazione e di prova, mentre nell’ipotesi di qualificazione dell’appello come revisio prioris instantiae la parte appellante è sempre destinata a ricoprire la veste di attore in relazione allo specifico motivo di appello proposto.

La seconda soluzione tracciata, per i motivi sopra esposti, è quella cui fare riferimento trattando dell’appello nell’attuale processo civile italiano.

Nel quadro così sinteticamente tracciato, trovano coerente e condivisibile collocazione i principi, poco sopra richiamati, espressi dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, a prescindere dalla posizione rivestita in primo grado, nel giudizio di appello è onere dell’appellante – che, per l’appunto, ricopre il ruolo di attore in riferimento al motivo di impugnazione proposto – di produrre o indicare i documenti sui quali il motivo di gravame proposto si fonda.

Sul punto, è senz’altro opportuno richiamare quanto affermato da Cass., sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3033, la quale ha precisato che, “tenuto conto dell’odierna configurazione del giudizio di appello, i criteri di riparto probatorio desumibili dalle norme generali di cui all’art. 2697 c.c. vanno sì applicati, ma non nella tradizionale ottica sostanziale, bensì sotto il profilo processuale, in virtù del quale è l’appellante, in quanto attore nell’invocata revisio, a dover dimostrare il fondamento della propria domanda, deducente l’ingiustizia o invalidità della decisione assunta dal primo giudice onde superare la presunzione di legittimità che l’assiste”; con riguardo specifico alle prove documentali, poi, le stesse Sezioni Unite hanno chiarito che, “nei casi in cui il giudice di appello, per l’inerzia della parte interessata e tenuta alla relativa allegazione, non sia stato in grado di riesaminarle, le stesse, ancorché non materialmente più presenti in atti (per la contumacia dell’appellato o per l’insindacabile scelta del medesimo di non più produrle), continuano tuttavia a spiegare la loro efficacia, nel senso loro attribuito nella sentenza emessa dal primo giudice, la cui presunzione di legittimità non risulta superata per fatto ascrivibile all’appellante. Questi, rimasto inerte, pur disponendo di un adeguato mezzo processuale (la richiesta di cui all’art. 76 disp. att. c.p.c.) per prevenire la sopra esposta situazione di carenza documentale, deve considerarsi soccombente, in virtù del principio, desumibile dall’art. 2697 c.c., secondo cui actore non probante, reus absolvitur (nello stesso senso, più di recente, Cass., 9 giugno 2016, n. 11797).

Dunque, esaminando le peculiarità proprie del caso deciso dalla pronuncia in epigrafe – in cui, come detto, l’attore in primo grado aveva omesso di costituirsi nel giudizio d’appello, mancando di reiterare le produzioni documentali utili a verificare l’avvenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno oggetto della lite (circostanza, questa, destinata ad andare a vantaggio dell’appellante) -, in caso di contumacia della controparte, l’appellante che voglia giovarsi delle risultanze probatorie derivanti dai documenti dalla stessa prodotti in primo grado non può rimanere inerte ma deve attivare il potere che l’art. 76 disp. att. c.p.c. gli riconosce, di esaminare gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio e nei fascicoli di parte e farsene rilasciare copia dalla cancelleria, al fine di poterli riproporre in secondo grado: ciò, pena l’applicazione delle conseguenze sfavorevoli che l’art. 2697 c.c. ricollega al mancato ottemperamento dell’onere della prova incombente sulla parte.

A conclusione del presente scritto, non può tuttavia tacersi su come l’orientamento seguito dal provvedimento in commento – che, come detto, è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità -, sia stato oggetto di numerose critiche in dottrina, la quale ha osservato che nel processo non esiste un principio di “immanenza” della prova documentale, sicché deve escludersi che i documenti prodotti in primo grado da una delle parti che sia risultata vittoriosa possano ritenersi per sempre acquisiti al processo: pertanto, contrariamente all’orientamento appena esposto, si conclude che la parte vittoriosa in primo grado che scelga di rimanere contumace in appello e non ridepositi i documenti in precedenza prodotti, a lei favorevoli, vada incontro alla declaratoria di soccombenza per non aver fornito la prova della sua pretesa (in tal senso, A. Tedoldi, L’appello civile, Torino, 2016, 140 ss.; G. Balena, R. Oriani, A. Proto Pisani, N. Rascio, Oggetto del giudizio di appello e riparto degli oneri probatori: una recente (e non accettabile) pronuncia delle sezioni unite, in Foro it., 2006, I, 1433, in annotazione a Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2005, n. 28498, precedente conforme alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2013 sopra richiamata).

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