9 Gennaio 2024

Cessione del credito e legittimazione ad impugnare

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. III, 7 dicembre 2023, n. 34373, Pres. Scrima, Est. Condello

[1] Cessione di crediti – Legittimazione – Impugnazione – Oneri di allegazione e prova

Il soggetto che proponga impugnazione ovvero vi resista nell’asserita qualità di successore, a titolo universale o particolare, di colui che era stato parte nel precedente grado o fase di giudizio, deve, prima ancora che provare, allegare la propria legitimatio ad causam per essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa, ossia le circostanze che costituiscono il presupposto di legittimazione alla sua successione nel processo, la mancanza delle quali, attenendo alla regolare instaurazione del contraddittorio nella fase della impugnazione, è rilevabile d’ufficio.

CASO

[1] Il Tribunale di Torre Annunziata emetteva a favore di una società, e nei confronti della ASL di Napoli, decreto ingiuntivo per il pagamento di somme dovute a titolo di prestazioni sanitarie.

La ASL di Napoli proponeva opposizione, che veniva accolta dal medesimo Tribunale.

Avverso la sentenza proponevano appello due società, le quali dichiaravano di avere acquistato i crediti portati dalle fatture azionate dalla cedente (istante nel procedimento per ingiunzione).

L’adita Corte d’Appello di Napoli dichiarava inammissibile l’impugnazione proposta, rilevando che, sebbene le società appellanti avessero prodotto in cancelleria, al momento della costituzione, i contratti di cessione dei crediti, tale documentazione non poteva ritenersi sufficiente, considerato che, nel caso di specie, “oggetto della controversia decisa dalla sentenza appellata era il mancato pagamento della residua parte degli importi di diversi crediti, maturati e da pagare in tempi diversi, e che le appellanti non avevano specificato se ad entrambe o a chi tra loro ceduti” dalla società cedente; osservava, inoltre, che colui che proponeva impugnazione avverso una sentenza non pronunciata nei suoi confronti aveva l’onere di allegare la vicenda giuridica sulla quale fondava la sua legittimazione all’impugnazione, che altrimenti doveva essere dichiarata, anche d’ufficio, inammissibile, a nulla rilevando la mancanza di contestazione in proposito della controparte.

Le società appellanti proponevano ricorso per cassazione, articolato su un unico motivo. Con esso, deducevano violazione e/o falsa applicazione dell’art. 111 c.p.c., nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, 1°co., nn. 3) e 4), c.p.c. nella parte in cui la sentenza gravata aveva erroneamente dichiarato l’inammissibilità dell’appello per asserita carenza di legittimazione ad impugnare in capo alle appellanti, ritenendo non sufficiente la produzione degli atti di cessione dei crediti. In particolare, premesso che all’atto di costituzione in giudizio le ricorrenti avevano allegato i contratti di cessione di credito, ossia i titoli che li legittimavano quali successori a titolo particolare della società cedente, lamentavano che la Corte territoriale avrebbe apoditticamente affermato che “tutto ciò non basta[va]”, così rendendo un provvedimento contraddittorio; avendo anche depositato gli avvisi di pubblicazione della cessione sulla Gazzetta Ufficiale, le ulteriori valutazioni svolte dai giudici di secondo grado, e segnatamente quelle secondo cui l’oggetto della controversia concerneva porzioni residue di crediti, attenevano a questioni di merito, che si riferivano alla titolarità in concreto delle situazioni giuridiche soggettive azionate, di talché stabilire in che misura i crediti appartenevano all’una o all’altra società costituiva questione da delibare unitamente al merito e non incidente sulla legittimazione processuale. Evidenziavano, pure, che, al di là dell’errore circa l’assolvimento dell’onere probatorio, la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto dei principi enunciati dalla sentenza n. 2951/2016 delle Sezioni Unite della Cassazione, che aveva puntualizzato la differenza tra legittimazione ad agire, rilevabile in ogni stato e grado, anche d’ufficio, dal giudice, e la titolarità del rapporto che atteneva al merito della decisione e, quindi, alla fondatezza della domanda in concreto proposta.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione rigetta il ricorso proposto.

Viene richiamato, in particolare, l’indirizzo (espresso, tra le altre, da Cass., sez. un., 22 aprile 2013, n. 9692) secondo il quale, essendo legittimati all’impugnazione soltanto i soggetti che hanno partecipato al precedente grado di giudizio e che in esso siano rimasti soccombenti, qualora un soggetto, che non sia stato parte nel grado precedente, intenda proporre impugnazione avverso la decisione adottata all’esito di esso, deve, in primo luogo, esplicitamente dedurre di avere acquistato la legittimazione in ragione di una sopravvenuta situazione giuridica idonea a fondarla e, in secondo luogo, deve fornire la prova della situazione stessa; pertanto, il soggetto che proponga impugnazione ovvero vi resista nell’asserita qualità di successore, a titolo universale o particolare, di colui che era stato parte nel precedente grado o fase di giudizio, deve, prima ancora che provare, allegare la propria legitimatio ad causam per essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa, ossia le circostanze che costituiscono il presupposto di legittimazione alla sua successione nel processo, la mancanza delle quali, attenendo alla regolare instaurazione del contraddittorio nella fase della impugnazione, è rilevabile d’ufficio.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato che i ricorrenti, allora appellanti, avevano introdotto il giudizio di secondo grado nella assunta qualità di cessionari di crediti facenti originariamente capo alla società cedente, ma non avevano adempiuto l’onere di allegazione sugli stessi gravanti, non avendo dedotto e specificato, sebbene la controversia avesse ad oggetto il pagamento di residue somme di diversi crediti, maturati in momenti diversi, quali crediti fossero stati ceduti all’una o all’altra appellante o se fossero stati ceduti ad entrambe. In difetto di tale necessaria prospettazione – che, evidentemente, viene considerata attinente alla sussistenza della legittimazione ad impugnare, e non al merito della controversia -, la Corte avrebbe, del tutto correttamente, ritenuto che fosse rimasta indimostrata la legittimazione ad impugnare la sentenza di primo grado in quanto emessa contro un soggetto diverso, non potendo tale legittimazione desumersi dai documenti prodotti, ossia dalle cessioni di credito depositate all’atto della costituzione in giudizio.

Da ultimo, la Cassazione rileva che le ricorrenti non hanno mosso rilievi sulla “non contestazione” della controparte e che, in ogni caso, l’onere di contestazione in ordine ai fatti costitutivi del diritto si coordina con l’allegazione dei medesimi, sicché, a fronte di una generica deduzione da parte del ricorrente, la difesa della parte resistente non può che essere altrettanto generica, e pertanto idonea a far permanere gli oneri probatori gravanti sulla controparte (in tal senso, Cass., 19 ottobre 2016, n. 21075).

Alla stregua delle considerazioni svolte, la Suprema Corte esclude che la sentenza impugnata sia incorsa nelle violazioni evocate dai ricorrenti.

QUESTIONI

[1] La questione affrontata dalla Suprema Corte attiene alla sussistenza della legittimazione ad impugnare (nel caso di specie, la sentenza di accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dalla ASL debitrice) dei soggetti cessionari del diritto di credito a suo tempo azionato dalla cedente tramite ricorso per ingiunzione e, nel dettaglio, agli oneri incombenti su tali soggetti per dimostrare la sussistenza di tale condizione.

È senz’altro utile ricordare la differenza, vanamente invocata dai ricorrenti, tra i concetti di legittimazione ad agire e titolarità del diritto soggettivo azionato in giudizio.

Secondo i principi recentemente espressi dalla già citata Cass., sez. un., 16 febbraio 2016, n, 2951, la legittimazione ad agire, attenendo al diritto di azione, spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne il titolare e la sua carenza può essere rilevata d’ufficio dal giudice; la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio, viceversa, attiene al merito della causa, ed è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda, che l’attore ha l’onere di allegare e di provare in positivo, ma che può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità, oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità. Costituisce principio consolidato che la legittimazione ad agire debba essere accertata in relazione non alla sua sussistenza effettiva, ma sulla base della prospettazione effettuata dalla parte con l’atto introduttivo del giudizio, diversamente dalla effettiva titolarità del rapporto controverso, sia dal lato attivo come da quello passivo, che attiene al merito della causa e investe, quindi, la sua fondatezza. Costituendo una condizione dell’azione, la legittimazione ad agire si concretizza nel diritto potestativo di ottenere dal giudice una decisione di merito e si risolve nel potere di promuovere il giudizio e di ottenere una sentenza sul rapporto giuridico sostanziale dedotto ad oggetto della controversia, indipendentemente dalla sussistenza o meno dell’effettiva titolarità attiva del rapporto, e si determina in base alla sola affermazione dell’attore, con la conseguenza che, per verificarne la sussistenza, deve aversi riguardo solo a quanto affermato e prospettato dalla parte.

Veniamo, più nello specifico, agli oneri incombenti sulla parte cessionaria che voglia impugnare la sentenza pronunciata nei confronti del dante causa, come consentito dall’art. 111, 4°co., c.p.c.

A tal riguardo – come ricordato dal provvedimento in commento -, costituisce orientamento consolidato quello che richiede alla parte impugnante di allegare e dimostrare la propria qualità di cessionario all’interno del giudizio di impugnazione. Possiamo, a tal proposito, ricordare le pronunce di Cass., 1° febbraio 1992, n. 1038, secondo cui il successore, che non ha preso parte alla fase processuale nella quale è stata emessa la sentenza che egli impugna, se propone appello deve allegare nell’atto di appello e dimostrare nel corso del processo di appello tale sua qualità; e Cass., 18 aprile 2007, n. 9301, che in relazione al ricorso per cassazione richiede la dimostrazione documentale della qualità di successore, pena l’inammissibilità del ricorso (si veda, però, Cass., 23 novembre 2011, n. 19493, che impone l’onere di prova, oltre che di allegazione del titolo della propria legittimazione a impugnare solo in caso di contestazione della controparte; inoltre, Cass., 11 aprile 2017, n. 9250 ha chiarito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso è legittimato a impugnare la sentenza resa nei confronti del dante causa allegando il titolo che gli consenta di sostituire quest’ultimo, essendo a tal fine sufficiente la specifica indicazione di tale atto nell’intestazione dell’impugnazione qualora il titolo sia di natura pubblica e, quindi, di contenuto accertabile, e sia rimasto del tutto incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte).

Si ricorda, infine, che il successore è tenuto a munirsi di autonoma procura alle liti, non potendo avvalersi di quella rilasciata dalla parte cedente (così, Cass., 11 luglio 1992, n. 8427).

Centro Studi Forense - Euroconference consiglia

Blockchain smart contact e proprietà intellettuale nel web 3: come proteggere gli asset immateriali