12 Ottobre 2021

La nozione di pari uso della cosa comune ex art. 1102 c.c. implica che la destinazione della cosa resti “compatibile” con i diritti degli altri partecipanti

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione civile, Sezione 6^ – 2, 6 maggio 2021, n. 1187. Presidente Lombardo – Estensore Scarpa

La nozione di pari uso della cosa comune, di cui all’art. 1102 c.c., sebbene non debba intendersi nel senso di uso identico e contemporaneo, implica pur sempre che la destinazione della cosa resti compatibile con i diritti degli altri partecipanti, onde il proprietario di un vano terraneo dell’edificio condominiale non può eseguire, in corrispondenza dell’accesso al proprio locale, modificazioni della pavimentazione e dell’arredo del marciapiede condominiale, per consentirne l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

  1. Limiti alla modificazione della cosa comune: “la compatibilità”.

Nuovamente con questa recente sentenza i giudici di legittimità confermano l’orientamento più restrittivo in ordine ai limiti di modifica della cosa comune da parte di un singolo condomino, allorquando la modifica implica una alterazione della destinazione della cosa e ne venga impedito il pari utilizzo agli altri.

La controversia traeva origine dall’impugnazione di una delibera assembleare, con cui il Condominio ove la Società medesima possedeva un appartamento ad uso ufficio, collocato al piano terra dello stabile, aveva espresso parere contrario alla richiesta dell’attrice di eseguire, a sue spese, i lavori necessari all’apertura di un passo carrabile – “adeguare la quota di marciapiede condominiale a livello stradale ed eliminare dei vasi posti ad ornamento del marciapiede” necessario per il transito dei veicoli, per il quale era già stata ottenuta apposita autorizzazione dal Comune di Roma.

 Il Condominio, nel motivare il suo diniego, aveva affermato che i lavori costituivano innovazioni vietate ex art. 1102 c.c.

La Società de qua impugnava la delibera in commento citando in giudizio il Condominio dinanzi al Tribunale di Roma, lamentando:

  1. la violazione e l’erronea applicazione degli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c. poiché l’apertura del passo carrabile non costituiva un’innovazione ma una mera modificazione finalizzata alla migliore utilizzazione della cosa comune.
  2. l’illegittimità della delibera assembleare per l’assenza di legittimazione del Condominio rispetto all’area utilizzata, la quale non avrebbe subito alcuna compromissione qualitativa o quantitativa in danno degli altri condomini.

Il Tribunale di Roma respingeva la domanda della Società, ritenendo, contrariamente a quanto asserito negli atti di parte attrice, che i lavori da eseguire costituissero un’innovazione rispetto alla destinazione della cosa comune (art. 1102 c.c.) e che il regolamento di condominio, che vietava la destinazione degli alloggi dell’edificio a uso contrario all’igiene e al decoro, fosse pienamente opponibile alla s.r.l.                  La Corte d’appello di Roma, infine, confermava la sentenza di primo grado.

La Società attrice decideva, a questo punto, di proporre ricorso in Cassazione, adducendo come motivi la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1102 c.c. ex art. 360, n. 3), c.p.c.                      Ad avviso della ricorrente, infatti, la Corte d’appello di Roma aveva erroneamente considerato che i lavori autorizzati dal Comune di Roma fossero suscettibili di alterare la destinazione originaria del bene comune.

La Corte di Cassazione, con ordinanza emessa in data 19.03.2021, dichiarava il ricorso inammissibile, in quanto il motivo addotto da parte attrice si limitava a criticare l’apprezzamento del fatto emergente dalle risultanze probatorie operato dal Giudice del merito e non la violazione o falsa applicazione di norme di legge, dal momento che l’asserito cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove da parte del giudice di merito, secondo il Supremo Collegio, non può mai formare oggetto di ricorso per Cassazione, non essendo inquadrabile neppure nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il ricorso doveva essere considerato inammissibile.

La sentenza in commento ha statuito, ribadendo un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l’art. 1102 c.c. implica “la condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione”.

Il Supremo Collegio, dopo aver correttamente messo in evidenza l’impossibilità, in sede di legittimità, di censurare una valutazione meramente fattuale del giudice di merito, ha lasciato insoddisfatto il giurista nel momento in cui ha apertamente dichiarato, anche se solo in obiter dictum, l’attuale intangibilità del suo orientamento restrittivo in materia di uso della cosa comune e di modificazioni/innovazioni in ambito condominiale, rifacendosi al criterio della “compatibilità”.

  1. L’analisi del caso e le violazioni dell’articolo 1102 e 122 c.c. e la nozione di pari uso della cosa comune.

La pronuncia in commento ha offerto un’importante occasione di dibattito sul tema delle modificazioni che intervengono sulla cosa comune ex art. 1102 c.c. ovvero su quello delle opere modificative o innovative afferenti al bene di proprietà esclusiva del condomino ex art. 1122 c.c. e, conseguentemente, sulla sussistenza di limiti ai poteri dell’assemblea dei condomini.

Pur limitandosi al rigetto del ricorso sotto il profilo dell’inammissibilità, si scriveva,  che in obiter dictum gli ermellini hanno condiviso nel merito, l’interpretazione offerta dalla Corte d’appello, nella parte in cui ha argomentato che la trasformazione del marciapiede e l’esecuzione delle opere previste da parte della ricorrente, ai fini di una apertura di passo carraio, avrebbe di fatto alterato la destinazione del bene come originariamente impressa ed impedito ai condomini di utilizzare l’area per il “sicuro transito pedonale”; con il che il nuovo utilizzo del bene comune risulterebbe incompatibile con il pari utilizzo degli altri.

D’altra parte i giudici di legittimità hanno richiamato precedente – datata – giurisprudenza della corte[1], secondo la quale: “il proprietario di vani sotterranei di un edificio in condominio non può, perciò eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’arredo del marciapiede condominiale in corrispondenza dell’accesso al proprio locale per consentirne l’attraversamento con autovetture, ove da tale destinazione della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

I concetti ripresi dalla cassazione e ribaditi nell’obiter, investono la quantità ed incidenza del nuovo uso”, al fine dell’esatta individuazione del limite critico che comporti alterazione e ricada nel perimetro della violazione dell’articolo 1102 c.c.

Il punto è che proprio perché l’interpretazione del fatto ricade nell’esclusivo apprezzamento del giudice di merito, si  determina il limite invalicabile dell’incensurabilità in cassazione.

  1. Spunti critici e rovesciamento della lettura del “principio di solidarietà cui sono ispirati i rapporti condominiali.

Chi scrive ha intenzione di mettere in discussione – arditamente –  l’insostenibilità dell’indirizzo giurisprudenziale dominante, talora emergente dalle pronunce dei Tribunali e delle Corti territoriali, che esclude tout court o riduce grandemente la possibilità di apportare modifiche al bene comune o ai beni individuali inseriti in un contesto condominiale, quando l’assemblea vi si opponga.

Ad opinione di chi scrive, risulterebbe maggiormente confacente alle esigenze di ciascun proprietario nonché vantaggioso per l’utilizzo solidale del bene comune considerare di volta in volta le ragioni dei singoli condomini ed evitare che atteggiamenti ostruzionistici e immotivati dell’assemblea condominiale, magari direttamente dipendenti da ragioni di “microconflittualità interpersonale”, abbiano la meglio ed impediscano a ciascuno dei partecipanti al condominio di godere appieno del bene comune o, addirittura, del bene esclusivo, ostacolandone, contro l’interesse sia individuale che collettivo, il miglioramento nell’uso, nell’estetica, nella funzionalità ovvero nella sostenibilità ambientale (tema, quest’ultimo, di attuale interesse) e comprimendo di fatto l’assolutezza del diritto di proprietà (rectius: comproprietà).

Se è da considerarsi incontrovertibilmente vero, dunque, l’assunto del Supremo Collegio, contenuto nella sentenza in commento, secondo cui i rapporti condominiali devono essere “informati al principio di solidarietà”, non si vede perché debbano essere presi in considerazione prevalentemente o esclusivamente gli interessi del condominio considerato nel suo insieme e non anche quelli dei singoli condomini, i quali, di fronte ai tentativi di “sabotaggio” di un’assemblea unicamente mossa dall’intento di ostacolare la realizzazione di una determinata opera, rischiano di essere posti in una condizione di minoranza diuturna.

Pur nel rispetto delle norme poste a garanzia della proprietà comune dei beni (artt. 1100 e ss. c.c.), la giurisprudenza delle nostre corti dovrebbe statuire con più coraggio che, l’assemblea condominiale sebbene possa molto (per le attribuzioni che le sono conferite dall’art. 1135 c.c.), non può tutto !!!

Non può, in particolare, compilare i verbali di assemblea conseguenti al rigetto di una proposta, utilizzando, senza motivarle, le clausole di stile del “pregiudizio alla stabilità”, della “sicurezza” e del “decoro architettonico”, avendo – a parere di chi scrive – l’ulteriore onere di spiegare le ragioni per cui un’opera utile per uno o più condomini sia fonte di pregiudizi per la proprietà comune considerata nel suo complesso.

È vero che l’art. 1137, comma 2, c.c., nello stabilire i motivi di impugnazione di una delibera assembleare, si arresta sulla soglia della legalità, senza entrare negli spazi della discrezionalità e dell’opportunità. È vero anche, tuttavia, che la maggioranza assembleare non può per questo considerarsi in diritto di perseguire finalità avulse dagli interessi della proprietà comune.

Ad opinione di chi scrive, dunque, dovrà essere valorizzata quella giurisprudenza di legittimità che, in passato, ha avuto modo di considerare non solo le norme di legge e di regolamento condominiale, ma anche l’eccesso di potere, come barriera invalicabile dal potere dispositivo dell’assemblea dei condomini.[2] Partendo da ciò, si potrà rafforzare compiutamente l’assunto, già espresso dalla migliore giurisprudenza (anche di merito) secondo cui “la delibera deve perseguire il vantaggio comune dei condomini, non di una maggioranza a scapito di una minoranza, fosse pure costituita da uno soltanto di loro. […] Come correttamente osserva parte attrice, la c.d. legge della maggioranza non può estendersi, nello sforzo di perseguire un proprio interesse, fino a comportare un chiaro danno per la minoranza”.[3]

In conclusione, si ritiene opportuno ribadire, a scanso di equivoci, la rilevanza che il diritto di proprietà riveste nel nostro ordinamento giuridico nonché la pienezza del diritto del proprietario (individuale o comune) di disporre dei propri beni. E tuttavia, anche un diritto apparentemente  sconfinato come quello di proprietà incontra un argine necessario nel principio del neminem laedere, talché esso non potrà essere esercitato al solo fine di nuocere alla posizione altrui o di impedire ad altri di godere altrettanto proficuamente dei propri beni.

L’assemblea condominiale, dunque, sebbene rappresenti l’organo sovrano della volontà dei proprietari, non potrà arbitrariamente impedire al singolo condomino di apportare delle modificazioni al bene comune che non ne alterino la destinazione e non impediscano agli altri partecipanti di farne uso; parimenti, l’assemblea non potrà impedire al condomino di eseguire opere nell’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, senza dimostrare effettivamente che il rigetto della proposta dipenda da ragioni di stabilità della struttura, di sicurezza ovvero dal pericolo di arrecare danno al decoro architettonico dell’edificio.

Il rischio che deriverebbe dall’assecondare gli orientamenti più restrittivi della giurisprudenza in materia – proprio con il limite di cui la sentenza in commento è prova, ossia l’insindacabilità sull’apprezzamento condotto dal giudice di merito, nel giudizio di legittimità – è quello di pregiudicare irrimediabilmente il diritto di proprietà del singolo condomino, il quale si troverebbe perennemente schiacciato da una c.d. “dittatura della maggioranza” difficilmente conciliabile coi più basilari fondamenti sociali ed economici del nostro ordinamento.

È al fine di garantire in massimo grado il diritto di proprietà, in altri termini, che si dovrà essere disposti a limitarne eventuali discrasie, per evitare che l’esercizio di un diritto si trasformi nell’abuso del potere della maggioranza a scapito di una sparuta ed indifesa minoranza e soprattutto che si perda l’orientamento di nomofilachia della Suprema Corte.

[1] Cass. civ. 18/2/1998 n.1708; Cass. civ. 14/12/1994 n.10704, Cass. civ. 17/7/1962 n.1899.

[2] Cassazione Civile, Sez. II, sentenza n. 15633/2012.

[3] Tribunale di Genova 29.01.2008.

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