4 Maggio 2021

Fondo patrimoniale e “tutela familiare”

di Antonio Morello, Avvocato Scarica in PDF

L’art. 167 cod. civ. assegna ai coniugi la possibilità di costituire un fondo patrimoniale composto da beni che, una volta conferiti nel fondo, risultano uniti da un vincolo di destinazione che ne condiziona, come vedremo, anche la pignorabilità: i beni confluenti nel fondo patrimoniale vengono cioè posti ad esclusivo servizio della famiglia perché servono – come recita la norma – per “far fronte ai bisogni della famiglia”.

La scelta di conferire un bene – spesso immobile – in un fondo patrimoniale può essere dettata da molteplici ragioni nel merito delle quali si sceglie, visti gli scopi di questo breve contributo, di non entrare: interessante è invece chiedersi fino a che punto quell’atto di conferimento “ponga al riparo” il bene dall’aggressione di un creditore del soggetto conferente.

Si tratta di una delle questioni più delicate e rilevanti dell’istituto in esame in quanto ove l’esecuzione sui beni conferiti nel fondo patrimoniale potesse “liberamente” avere luogo perderebbe di ogni effettività la “protezione” o l’effetto di “segregazione” che è alla base della costituzione del fondo patrimoniale.

Come noto, la costituzione di un fondo patrimoniale può essere colpita da revocatoria ordinaria (art. 2901 cod. civ.) che il creditore esperisce al fine di ottenere una dichiarazione di inefficacia nei propri confronti dell’atto di conferimento e dunque, in ultima istanza, di costituzione del fondo: atto di cui, collocandosi dalla angolazione degli creditori, non possono tacersi gli impatti negativi sulla garanzia patrimoniale generica (art. 2740 cod. civ.) atteso che – per l’art. 170 cod. civ. – “l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

Com’è facile intuire il punto cruciale ma anche quello maggiormente dibattuto riguarda la “prova dello scopo” per cui è stato contratto il credito che viene azionato sui beni del fondo: risulta cioè problematico accertare se il coniuge ha contratto il finanziamento, acquisto il bene, concluso il contratto, etc. per soddisfare i bisogni della famiglia e dunque nell’ambito della consueta “gestione familiare” ovvero per ragioni inerenti la propria attività imprenditoriale o professionale.

Il fondo patrimoniale del socio fidejussore.

Un caso

Della questione, come è facile intuire, si è occupata più volte la giurisprudenza e da ultimo anche la Suprema Corte ha avuto occasione di operare alcune importanti puntualizzazioni: si tratta dell’ordinanza Cass. 8 febbraio 2021, n. 2904.

Accade che una banca promuove una procedura esecutiva nei confronti di un socio a fronte della fidejussione da questi prestata nell’interesse della propria società: l’esecuzione viene avviata in particolare su un compendio immobiliare che il socio aveva precedentemente conferito ad un fondo patrimoniale; il socio spiega opposizione all’esecuzione essenzialmente contestando l’inerenza del debito fidejussorio rispetto ai bisogni della famiglia, inerenza che invece tanto il Tribunale  quanto, in sede di reclamo, la Corte d’Appello avevano ritenuto sussistente così ponendo le premesse per l’azione esecutiva della banca sui beni confluiti nel fondo patrimoniale.

Gli esiti del giudizio vengono ribaltati dalla Suprema Corte che, con il provvedimento in esame, censura l’automatismo – se così è permesso esprimersi – con cui il giudice territoriale ha inferito la natura “familiare” del debito dal fatto di essere l’attività del socio-coniuge la principale fonte di sostentamento della famiglia.

Prima però di vedere le basi di ragionamento su cui riposta questa (decisamente persuasiva) conclusione della Suprema Corte, è indicato ricordare in via del tutto preliminare che al fine di stabilire se un creditore possa o meno soddisfarsi sul fondo patrimoniale non è decisiva la natura contrattuale o extracontrattuale (responsabilità civile) dell’obbligazione ma – ed unicamente – il fatto di essere il debito contratto per soddisfare i bisogni della famiglia: ciò che invece va stabilito è se la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbia inerenza diretta ed immediata con quei bisogni e detta inerenza trovi oggettivo riscontro nei fatti.

A questo proposito si impone una interpretazione lata del concetto di “bisogno” perché si deve considerare “inerente” alla famiglia il debito contratto non solo per fare fronte ad esigenze per così dire essenziali o basilari ma anche per l’armonico sviluppo della famiglia, il benessere familiare, o il potenziamento della sua capacità lavorativa.

Ci si colloca invece al di fuori dei “bisogni della famiglia” – con conseguente impossibilità per il creditore di agire esecutivamente sui beni del fondo – quando il debito risponde ad esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi del coniuge o comunque quando il debito viene a dipendere dallo svolgimento dell’attività professionale o imprenditoriale del coniuge: ed è proprio su questo punto e precisamente sulla prova della inerenza del debito ai bisogni della famiglia che la nostra Ordinanza offre interessanti spunti di riflessione.

Mezzi di sostentamento e bisogni della famiglia.

L’art. 170 cod. civ. stabilisce le condizioni, sussistendo le quali, i beni che confluiscono nel fondo risultano impignorabili e cioè: una volta che il fondo viene costituto regolarmente (osservanza delle regole formali), l’atto di conferimento è capace di sottrare i beni che ne sono oggetto all’aggressione del creditore procedente a patto che – come più volte ricordato – il debito è sorto per scopi estranei ai bisogni della famiglia ed il creditore era consapevole di tale estraneità quando è sorta l’obbligazione e dunque quando è stato acceso il finanziamento, è stata rilasciata la fidejussione, etc.

Al riguardo, la Cassazione chiarisce che è sufficiente “che lo scopo dell’obbligazione [appaia] al momento della relativa assunzione come estraneo ai bisogni della famiglia”: su queste basi la Cassazione censura il ragionamento articolato dal giudice territoriale allorquando quest’ultimo ha ritenuto di “presumere” l’inerenza rispetto ai bisogni della famiglia dal fatto che i mezzi di sostentamento del nucleo familiare derivavano da quella stessa attività di impresa nell’ambito della quale il coniuge ha rilasciato la fidejussione; in sostanza – volendo altrimenti esprimere il concetto – non si può far rientrare l’obbligazione fidejussoria nell’alveo delle obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia solo perché la fidejussione è stata prestata dal coniuge nel contesto della propria attività lavorativa-imprenditoriale: anche quando si presumere che questa attività assurga a principale fonte di sostentamento della famiglia.

A volere vedere una certa relazione tra le obbligazioni contratte nell’esercizio di detta attività ed i bisogni familiari la Cassazione ammette soltanto una inerenza “indiretta e mediata”: ma – qui il punto cruciale – questo non basta a ritenere dette obbligazioni contratte per soddisfare i “bisogni della famiglia” per come l’art. 170 cod. civ. intende questa locuzione.