Trattamenti medici invasivi non programmati e dissenso presunto del paziente
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, ord., 22.01.2025, n. 1443 – Pres. Scoditti – Rel. Rubino
Responsabilità sanitaria – Principio di autodeterminazione – Intervento non programmato – Dissenso presunto del paziente – Onere probatorio della struttura sanitaria – Risarcimento.
Massima: “In caso di intervento chirurgico più complesso e invasivo rispetto a quello inizialmente programmato e concordato, effettuato senza adeguata informazione e consenso del paziente, in assenza di situazioni di urgenza, non grava sul paziente l’onere di provare che se fosse stato informato avrebbe rifiutato tale intervento. Al contrario, è onere della struttura sanitaria dimostrare che il paziente avrebbe prestato il consenso al più invasivo intervento.”
CASO
Nel caso di specie, era accaduto che, nel corso di un intervento chirurgico addominale, effettuato per un reflusso gastroesofageo e per il quale la paziente aveva rilasciato il proprio consenso informato per effettuare una rimozione di plastica gastrica antireflusso e una anastomosi gastro digiunale, l’equipe chirurgica, in luogo di quanto programmato, aveva eseguito un altro intervento maggiormente invasivo: una resezione subtotale dello stomaco e della cistifellea.
Tale intervento, non autorizzato e non giustificato da ragioni di urgenza, non aveva determinato alcun miglioramento nelle condizioni della paziente, affetta da una grave forma di reflusso, ma, al contrario, aveva avuto esiti peggiorativi, tanto da rendere necessario, quattro anni dopo, un secondo intervento demolitivo, presso una diversa struttura sanitaria.
La paziente, quindi, agiva in giudizio per il risarcimento del danno alla salute e da violazione del diritto all’autodeterminazione, per essere stata sottoposta ad un intervento chirurgico diverso e più invasivo rispetto a quello programmato e per cui aveva prestato il proprio consenso.
Il Tribunale rigettava la domanda attorea, ritenendo non provato che la paziente, ove fosse stata informata dell’intenzione dei medici di eseguire l’intervento più invasivo, avrebbe rifiutato il suo consenso.
La Corte d’appello confermava la decisone di primo grado, affermando anzi “preliminarmente che non esiste un danno in re ipsa da omessa informazione”.
La paziente proponeva ricorso in cassazione, affidandosi a quattro motivi, denunciando, tra le altre cose, l’omessa pronuncia da parte della Corte d’appello sul motivo relativo alla inutilità dell’intervento non consentito, che aveva avuto effetti peggiorativi.
SOLUZIONE
Con l’ordinanza in commento la suprema Corte ha affermato il principio secondo cui “non grava sul paziente l’onere di provare che, ove fosse stato informato del più complesso intervento che i medici avevano in animo di eseguire, non vi avrebbe consentito. Al contrario, a fronte della allegazione della paziente che il suo consenso sarebbe stato circoscritto a quanto programmato e non oltre, era a carico della struttura l’onere di provare che ella avrebbe dato il consenso al secondo e più invasivo intervento, non necessitato dall’urgenza, in quanto a fronte della violazione del dovere di autodeterminazione, opera il principio del dissenso presunto del paziente in relazione a tutto ciò che si pone al di là e al di fuori rispetto ai trattamenti medico chirurgici che abbia consentito di effettuare sul proprio corpo”.
QUESTIONI
La questione centrale oggetto dell’ordinanza in commento concerne la ripartizione dell’onere probatorio tra paziente e struttura sanitaria, in ipotesi di violazione del consenso informato, quando l’intervento effettuato si riveli più invasivo rispetto a quanto inizialmente autorizzato.
Secondo la Cassazione, la Corte d’appello non ha valutato l’inutilità dell’intervento a cui la paziente era stata sottoposta, senza aver espresso il proprio consenso, fermando il suo accertamento alla mancanza di prova, da parte della paziente, del rifiuto che avrebbe opposto se fosse stata informata.
Inoltre, la Corte d’appello ha ricostruito erroneamente la distribuzione degli oneri probatori, non considerando, per l’appunto, che la paziente era stata sottoposta – a sua insaputa e fuori da una situazione di urgenza – ad un intervento ben più complesso ed invasivo di quello programmato e consentito.
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte opera un cambio di rotta, affermando che non è la paziente a dover provare che, se fosse stata informata del più complesso intervento, non vi avrebbe consentito ma, al contrario, a fronte della allegazione della paziente che il suo consenso era circoscritto a quanto programmato e non oltre, è la struttura sanitaria a dover provare che la paziente avrebbe autorizzato il secondo e più invasivo intervento o che l’intervento si è reso indispensabile a causa di uno stato di urgenza clinica.
In mancanza di tale prova, il trattamento eseguito senza consenso del paziente costituisce una violazione del diritto all’autodeterminazione, con conseguente diritto del medesimo al risarcimento del danno.
A fronte, quindi, della violazione del diritto di autodeterminazione, opera il principio del dissenso presunto del paziente in relazione a tutto ciò che si pone al di là e al di fuori rispetto ai trattamenti medico-chirurgici che abbia consentito di effettuare sul proprio corpo, a meno che – e non è questo il caso di specie – il diverso e più invasivo intervento sia giustificato da una situazione di urgenza.
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte sembra volersi allontanare dai principi, formulati in precedenza dalla stessa Cassazione, in tema di ripartizione dell’onere probatorio, in caso di violazione del consenso informato.
Infatti, la giurisprudenza precedente – pur riconoscendo la centralità del consenso informato – subordinava la risarcibilità del danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione alla prova, da parte del paziente, di un dissenso attuale o potenziale al trattamento.
Con diverse pronunce la Suprema Corte, infatti, aveva affermato che, ai fini del risarcimento del danno, il paziente dovesse provare il fatto positivo del rifiuto, ovvero che avrebbe rifiutato l’intervento eseguito in assenza del suo consenso: «Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che: a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova“; c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all’id quod plerumque accidit» (ex multis: Cass. civ., n. 28985/2019 ; Cass. civ., 24471/2020; Cass. civ., n. 10414/2022).
La nuova impostazione, invece, presume ex ante l’assenza del consenso per ogni trattamento eccedente quanto autorizzato, invertendo il criterio di riparto dell’onere probatorio e ponendo l’accento sull’illiceità in sé dell’intervento non autorizzato, a prescindere dall’esito terapeutico favorevole.
Si tratta, evidentemente, di un orientamento coerente con la dottrina, che ha interpretato la libertà di autodeterminazione sanitaria non solo come diritto a ricevere informazioni, ma anche come potere di controllo sulle decisioni terapeutiche, rafforzando le tutele del paziente e ridimensionando l’autonomia professionale del medico nei casi di difetto o carenza del consenso informato.
L’ordinanza in commento, quindi, ha un particolare rilievo sistematico in materia di consenso informato, per l’esplicita adozione del principio del dissenso presunto e per l’innovativa inversione dell’onere probatorio.
Tuttavia, sebbene i contenuti della decisione lascino intravedere gli elementi sostanziali di un revirement giurisprudenziale, la prudenza impone di attendere ulteriori conferme da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito.
Solo il consolidarsi di tale orientamento, attraverso una successiva e coerente elaborazione giurisprudenziale, potrà legittimare l’uso tecnico del termine revirement e segnare l’effettiva transizione verso un nuovo assetto interpretativo in tema di responsabilità medica e autodeterminazione terapeutica.
Allo stato, la pronuncia si impone come un forte segnale evolutivo, che recepisce istanze dottrinali orientate alla valorizzazione del diritto all’informazione e alla libertà negativa del paziente, ponendosi come possibile punto di svolta nella riflessione giuridica sull’autonomia decisionale in ambito sanitario.
Centro Studi Forense - Euroconference consiglia