3 Ottobre 2023

Esulano dall’ambito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti la convenienza o alla gravosità della somma che il condominio si obblighi a versare a terzi a titolo di canone per il godimento di beni condotti in locazione

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte Suprema di Cassazione, Sez. II, Civile, Ordinanza n. 15320 del 13 maggio 2022, Pres. Dott. Rosa Maria Di Virgilio, Rel. Dott. Antonio Scarpa.

“Il sindacato dell’autorità giudiziaria sulla contrarietà alla legge o al regolamento delle deliberazioni prese dall’assemblea dei condomini, ai sensi dell’art. 1137 c.c., nella specie in ordine alla ripartizione delle spese inerenti ad una locazione immobiliare stipulata nel comune interesse dal condominio in veste di conduttore ed avente ad oggetto il godimento di un immobile di proprietà di terzi, non può riguardare la convenienza economica dell’importo del canone pattuito o la legittimità dell’accollo in capo al condominio conduttore degli esborsi sostenuti per il mantenimento della cosa in buono stato locativo o per l’esecuzione di miglioramenti o addizioni alla stessa, né può concernere questioni relative alla nullità o all’inefficacia delle clausole del contratto di locazione”.

CASO

Tizio e Caia, insieme a Sempronia e Mevio, nella di loro qualità di proprietari e condomini convenirono in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano il Condominio di Via in Bresso al fine di sentire dichiarare l’annullamento della delibera assembleare dell’8 luglio 2009, assunta in violazione dei loro diritti patrimoniali per la sproporzionata ed ingiustificata “quadruplicazione del canone di locazione della centrale termica”, peraltro anche esteso retroattivamente all’esercizio 2007/08, nonché per l’illegittimità di ulteriori addebiti da sostenersi in capo al Condominio per opere – a loro dire – estranee alle parti condominiali, aventi natura straordinaria e volte a soddisfare unicamente i proprietari della centrale termica, nonché, all’occorrenza, delle corrispondenti clausole del contratto di locazione che fossero eventualmente invocate a giustificazione della ripartizione di dette partite a carico dei condomini. Tali clausole risultavano, secondo i ricorrenti, generiche, sproporzionate e prive di causa e sinallagma vessatorie, non essendoci la doppia sottoscrizione.

Il Tribunale di Milano, espletata le necessarie istruzioni probatorie, provvedeva al rigetto della domanda degli attori.

I soccombenti proponevano appello, anch’esso rigettato.

Avverso la sentenza di gravame, soltanto Tizio e Caia proponevano ricorso per Cassazione, riferito a tre motivi, incontrando le resistenze dell’intimato Condominio di Via in Bresso.

SOLUZIONE

La Suprema Corte dichiarò inammissibile il ricorso, con condanna in solido dei ricorrenti al rimborso al controricorrente delle spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo[1].

QUESTIONI

Attraverso la presentazione dei tre motivi di ricorso, Tizio e Caia denunciarono plurime violazioni ricondotte a quella degli artt. 112 e 115 c.c., artt. 1135, 1136 e 1137 c.c. nonché degli artt. artt. 1135, 1136 e 1137 c.c. e degli artt. 1341, 1342, 1421, 1575, 1576 e 2373 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma I, n.3. I ricorrenti sottolinearono come l’attività del Giudice di merito non avesse dato risposta alla domanda sulla legittimità dell’aumento del canone di locazione del locale caldaia. Venivano censurati sia un “errore di fatto”, poiché era stato negato che il contratto di locazione fosse stato oggetto del giudizio di primo grado, sia uno “logico”, in quanto “l’esistenza di un rapporto locativo tra comunione di condomini/condominio non è stato affatto estranea al materiale di causa”. Si argomentava poi in ordine ad un “triplice errore di diritto” dato dalla mancata corrispondenza tra la pretesa dichiarazione di nullità o annullabilità della deliberazione dell’assemblea condominiale dell’8/7/2009 degli appellanti e quanto pronunciato dai Giudici di primo e secondo grado rispetto alla carenza di legittimazione attiva ad impugnare il contratto di locazione.

Secondo i ricorrenti, la Corte non si era pronunciata sulle denunziate cause di nullità ed annullabilità della predetta delibera dell’assemblea condominiale ed infine, aveva disatteso le risultanze processuali allorché da un lato aveva negato che gli appellanti avessero espressamente censurato la sentenza di primo grado sulla questione della carenza di legittimazione ad interloquire sul rapporto di locazione e dall’altro aveva imputato agli appellanti l’omessa indicazione del canone dovuto in concreto nel caso di specie.

Inoltre, si eccepiva la ritenuta illegittimità della impugnata deliberazione dell’assemblea condominiale, che aveva quadruplicato il canone di locazione per l’esercizio 2008-2009 con estensione retroattiva all’esercizio 2007-2008” ribadendo ciò che già afferma la prima censura e concludendo che l’impugnata delibera dell’assemblea condominiale dell’8 luglio 2009 era viziata per plurimi motivi.

Infine, i ricorrenti sottolinearono come la deliberazione dell’assemblea condominiale, per potersi ritenere legittima e valida doveva farsi necessario riferimento al sottostante contratto di locazione, di cui dovevano essere previamente accertate la permanente vigenza e la piena validità ed efficacia.

Lette le argomentazioni presentate nel ricorso, la Suprema Corte ritenne in via preliminare che fosse del tutto ininfluente sull’esito del procedimento, e quindi superflua, la fissazione del termine ex art. 331 c.p.c., in forza del principio della ragionevole durata del processo, in quanto il ricorso appariva “prima facie” inammissibile, alla stregua dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c..

Secondo l’orientamento ormai consolidato, l’impugnativa di una delibera assembleare proposta da una pluralità di condomini che siano stati parte di un giudizio determina una situazione di litisconsorzio processuale tra gli stessi, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della delibera. Ne deriva che ove la sentenza che ha statuito su tale impugnativa venga appellata da alcuni soltanto di tali condomini, il giudice di secondo grado deve disporre l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c.[2] nei confronti degli altri.

Infatti, in presenza di tale situazione di litisconsorzio necessario si impone al “giudice del gravame l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini, quali parti di una causa inscindibile, anche nel caso in cui il gravame concerna, come nel caso di specie, le sole spese di lite, trattandosi di capo accessorio che condivide il carattere di inscindibilità della causa principale [3]”.

Tanto precisato, la Suprema Corte ritenne di esaminare i tre motivi di ricorso, inammissibili sotto più profili e trattati congiuntamente, per la loro evidente connessione.

Innanzitutto, il collegio sottolineò come non vi fosse un mutamento interpretativo tale da mettere in discussione il giudizio così come operato dalle Corti di merito ed evidenziò come, nel caso di specie, non fosse discutibile che si trattasse di un rapporto contrattuale di locazione intercorso tra i comproprietari del locale dove si trova la centrale termica ed il condominio, riguardo al quale non potevano interloquire i soli Tizio e Caia.

Inoltre, l’impugnata delibera approvata dall’assemblea dell’8 luglio 2009 del Condominio conteneva unicamente l’approvazione del consuntivo della gestione ordinaria 2008/2009 e l’autorità giudiziaria non può sindacare il merito delle scelte gestorie adottate dall’assemblea.

Il ricorso neppure conteneva la specifica indicazione del contenuto del contratto di locazione avente ad oggetto l’immobile in cui insiste la centrale termica condominiale. Si trattava di una locazione stipulata nel comune interesse dal condominio nella veste di conduttore che aveva ad oggetto il godimento verso un corrispettivo di un immobile di proprietà di terzi locatori. L’amministratore, in forza dei poteri di cui agli artt. 1130 e 1131 c.c., può stipulare i contratti ed assumere le obbligazioni necessari alla conservazione e al godimento delle parti comuni, come alla fruizione dei servizi comuni dell’edificio[4]. La titolarità di tali rapporti obbligatori conclusi per conto del condominio e la corrispondente legittimazione alle impugnative del negozio non spettano, tuttavia, in modo frazionato pro quota a ciascuno dei condomini, ma rimangono imputate alla collettività organizzata “condominio” quale unitaria parte contrattuale complessa, che esercita le posizioni e prerogative proprie dei contraenti attraverso i suoi organi. Pertanto, la rappresentanza spetta comunque all’amministratore[5].

Gli oneri economici derivanti dall’esecuzione dei contratti conclusi in nome e per conto del condominio vanno poi compresi tra le voci di spesa contabilizzate nel rendiconto da sottoporre all’approvazione dell’assemblea.

Tanto premesso, la Corte sottolineò come fosse conforme all’orientamento consolidato il principio secondo cui, “in tema di condominio negli edifici, il sindacato dell’autorità giudiziaria sulle delibere assembleari non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo della discrezionalità di cui dispone l’assemblea, quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi ad un riscontro di legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, può abbracciare anche l’eccesso di potere, purché la causa della deliberazione risulti – sulla base di un apprezzamento di fatto del relativo contenuto, che spetta al giudice di merito – falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso lo strumento di cui all’art. 1137 c.c. non è finalizzato a controllare l’opportunità o convenienza della soluzione adottata dall’impugnata delibera in ordine ai costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose e ai servizi comuni, ma solo a stabilire se la decisione collegiale sia, o meno, il risultato del legittimo esercizio del potere dell’assemblea[6]”.

Ne consegue che “esulano dall’ambito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti, come nella specie, alla convenienza o alla gravosità della somma che il condominio si obblighi a versare a terzi a titolo di canone per il godimento di beni condotti in locazione; o all’accollo in capo al condominio conduttore delle spese necessarie per il mantenimento della cosa in buono stato locativo, o per l’esecuzione di miglioramenti o addizioni alla stessa, seppur derogando convenzionalmente (come consentito: cfr. Cass. Sez. 3, 20/06/1998, n. 6158) alle disposizioni di cui agli artt. 1576, 1592 e 1593 c.c.”.

La Corte si espresse anche in riferimento all’eccesso di potere assembleare, il quale suppone un grave pregiudizio alla cosa comune, ex art. 1109 c.c., tale da consentire l’invalidazione della decisione approvata dalla maggioranza ed al “conflitto di interessi” dei condomini locatori.

In particolare, con richiamo al consolidato orientamento della Corte in tema di condominio, le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono sempre inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell’intero edificio, compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio. Infatti, questi ultimi possono (ma non devono) astenersi dall’esercitare il diritto di voto, indi per cui, anche nell’ipotesi di conflitto d’interesse, la deliberazione deve essere presa con il voto favorevole di tanti condomini rappresentano la maggioranza personale e reale fissata dalla legge ed, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio, ciascun partecipante può ricorrere all’Autorità giudiziaria[7].

Pertanto, il principio sopradetto dovrà necessariamente essere modulato in ragione delle specifiche circostanze della fattispecie e, dunque, sarà imperativo valutare che l’accertamento dell’esistenza di una sicura divergenza tra specifiche ragioni personali di determinati condomini, il cui voto abbia concorso a determinare la necessaria maggioranza, ed uno specifico interesse istituzionale contrario del condominio, poiché coinvolge un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, è sindacabile dal giudice di legittimità soltanto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., .

Infine, la decisione sulla nullità ed inefficacia delle clausole del contratto di locazione avrebbe imposto il litisconsorzio di tutti i contraenti, mentre nel caso di specie in giudizio vi erano i soli Tizio e Caia.

In ragione di tali motivazioni, la Corte di Cassazione dispose l’inammissibilità del ricorso, con condanna in solido dei ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo.

[1] La Corte specificò anche: “Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto”.

[2] Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 12/02/2016, n. 2859, in CED Cassazione, 2016.

[3] Cass. civ., Sez. II, Ordinanza, 26/09/2017, n. 22370, in CED Cassazione, 2017.

[4] Cass. Sez. 2, 22/02/1997, n. 1640, in Arch. Locazioni, 1997.

[5] Cass. Sez. 3, 20/02/2009, n. 4245, in Resp. civ. on line, 2009.

[6] Cass. Sez. 6 – 2, 25/02/2020, n. 5061; Cass. Sez. 6 – 2, 17/08/2017, n. 20135.

[7] Cass. Sez. 6-2, 31/01/2018, n. 2415; Cass. sez. 6- 2, 25/01/2018, n. 1849; Cass. Sez. 2, 28/09/2015, n. 1913, in Giust. civ. Mass. 2015; Cass. Sez. 2, 30/01/2002, n. 1201, in Giust. civ. Mass. 2002, 162.

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