9 Giugno 2020

Erronea proposizione dell’appello in luogo del ricorso per cassazione: né translatio iudicii, né conversione dell’atto

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass. civ. sez VI, n. 5712

[1] Appello avverso la sentenza ex art. 617 c.p.c. – Inammissibilità – Translatio iudicii o conversione dell’appello in ricorso per cassazione – Esclusione – Ragioni (artt. 617 c.p.c.).

Qualora l’appello (nella specie, avanzato avverso una sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 617 c.p.c.) sia inammissibile in quanto strumento processuale radicalmente diverso da quello corretto, non può operare la “translatio iudicii” perché l’impugnazione proposta è inidonea, anche solo in astratto, a configurare l’instaurazione di un regolare rapporto processuale, né l’appello può convertirsi in ricorso per cassazione, giacché difetta dei requisiti di validità dell’atto nel quale dev’essere convertito, essendo il ricorso di legittimità, mezzo di impugnazione a critica vincolata (a maggior ragione, se proposto in via straordinaria ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.), strutturalmente diverso. (massima ufficiale)

CASO

[1] Ricevute alcune cartelle di pagamento da parte di Equitalia, la contribuente proponeva opposizione avverso le stesse per vizi inerenti alla relativa notificazione.

Il Tribunale di Milano, dopo aver espressamente qualificato l’opposizione quale proposta a norma dell’art. 617 c.p.c., procedeva al rigetto della stessa.

La contribuente proponeva allora appello, il quale veniva dichiarato inammissibile dalla Corte territoriale sulla base della considerazione per cui il mezzo di gravame spendibile avverso la sentenza emessa all’esito dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. è il ricorso per cassazione.

Avverso tale decisione veniva presentato ricorso per cassazione articolato in un unico motivo. La ricorrente, per l’esattezza, non contestava la qualificazione dell’opposizione quale proposta ai sensi dell’art. 617 c.p.c. (e, conseguentemente, la non appellabilità della sentenza emessa all’esito della stessa, secondo quanto disposto dall’art. 618 c.p.c.), bensì la circostanza per cui la Corte d’Appello, una volta rilevata l’erroneità del mezzo di impugnazione proposto, non avrebbe dovuto dichiararlo inammissibile, ma avrebbe dovuto trasmettere gli atti alla Corte di cassazione, in attuazione del principio della translatio iudicii, destinato a trovare applicazione anche in ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello davanti al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame (sul punto, la ricorrente richiama il precedente di cui a Cass., sez. un., 14 settembre 2016, n. 18121).

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile ai sensi del comb. disp. degli artt. 380-bis e 375, n. 1), c.p.c., evidentemente – ancorché ciò non sia chiarito dal testo del provvedimento – a causa del riscontro di una delle cause di inammissibilità previste dal c.d. filtro di cui all’art. 360-bis c.p.c.

I giudicanti rilevano l’inconferenza del principio di diritto richiamato dalla ricorrente, rilevando come, nella fattispecie sottoposta al suo esame, non ricorra un problema risolvibile in termini di translatio iudicii (destinata a operare laddove il mezzo di gravame scelto dalla parte sia corretto, ma indirizzato a un giudice incompetente per territorio o per grado), bensì un vizio che concerne la scelta stessa dello strumento processuale da utilizzare, nel caso di specie inidoneo a costituire un regolare rapporto processuale (per questa distinzione, pure Cass., 7 dicembre 2016, n. 25078). Nell’ambito della vicenda giudiziaria giunta al suo esame, infatti, non si è riscontrato (solamente) un errore di individuazione dell’organo giudiziario competente a ricevere il gravame, bensì, a monte, l’utilizzazione di uno strumento processuale diverso rispetto a quello correttamente spendibile.

La Corte rileva inoltre come non possa operare, nel caso di specie, un meccanismo di conversione dell’atto di appello erroneamente proposto in ricorso per cassazione. Tale sanatoria, infatti, presuppone che l’atto nullo presenti tutti i requisiti di validità dell’atto nel quale deve essere convertito: ciò che non appare predicabile nell’ipotesi in esame, stante la diversità strutturale tra appello e ricorso per cassazione, specialmente nella misura in cui quest’ultimo, a differenza del primo, integra un mezzo di impugnazione a critica vincolata.

QUESTIONI

[1] Nell’argomentazione della sua decisione, la Suprema Corte tocca alcuni istituti di fondamentale importanza pratica nell’atto dell’introduzione di un giudizio (di primo grado ovvero di gravame), in quanto consentono di rimediare ad alcuni errori che la parte può commettere nel compimento di tale attività processuale, a tutto vantaggio del canone dell’economia processuale.

Anzitutto l’attenzione si sofferma sul principio della c.d. translatio iudicii, come detto posta dal ricorrente a fondamento della propria censura.

Tale istituto, lo si ricorda, consente che, nel caso in cui sia adita una autorità giudiziaria incompetente a ricevere la causa, il processo non debba chiudersi con una declaratoria di rigetto in rito, per poi essere riavviato ex novo dalla parte, bensì possa proseguire, tramite un meccanismo di riassunzione, presso il giudice individuato come competente: il che, con tutta evidenza, permette di evitare una duplicazione delle attività processuali, nonché, soprattutto, di salvaguardare gli effetti sostanziali e processuali della prima domanda, presentata innanzi al giudice incompetente. L’istituto, inizialmente predisposto dall’art. 50 c.p.c. con riguardo a fattispecie di incompetenza (per i dovuti riferimenti, L. Prendini, sub art. 50, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile. Commentario, I, Milano, 2018, 672 ss.), è stato riconosciuto operante anche tra giudice e arbitro (Corte Cost., 19 luglio 2013, n. 223) e successivamente è stato esteso alle ipotesi di difetto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudici speciali, precisamente ad opera dell’art. 59 della l. 18 giugno 2009, n. 69 (in dottrina, C. Asprella, La translatio iudicii, Milano, 2010; C. Consolo, La translatio iudicii tra giurisdizioni nel nuovo art. 59 della legge di riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 2009, 1267 ss.).

Nel caso di specie, peraltro, il principio è stato invocato da parte ricorrente richiamando la pronuncia di Cass., sez. un., n. 18121/2016, secondo la quale «l’appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall’art. 341 c.p.c. non determina l’inammissibilità dell’impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii».

È evidente, tuttavia – e si condivide, dunque, la posizione assunta sul punto dal provvedimento in commento -, come la fattispecie decisa dalle Sezioni Unite sia diversa rispetto a quella verificatasi nel caso di specie, con conseguente inapplicabilità del relativo principio di diritto. Nel caso oggetto del precedente richiamato, infatti, la parte aveva esperito il mezzo di impugnazione corretto (appello), ma aveva adito un organo incompetente, per territorio o per grado, a riceverlo; nella fattispecie decisa dal provvedimento in epigrafe, viceversa, la parte, più radicalmente e, si potrebbe dire, a monte, ha errato nella scelta del mezzo di impugnazione (appello in luogo del ricorso per cassazione): circostanza, questa, che ha pure comportato – ancorché, potremmo dire, a valle – l’investitura di un organo giudiziario incompetente (Corte d’Appello in luogo della Corte di cassazione). Del tutto coerente, allora, è il richiamo che la decisione in commento effettua al precedente di cui a Cass., 7 dicembre 2016, n. 25078, la quale, per quanto di interesse ai presenti fini, ha condivisibilmente affermato che «in tema di impugnazioni, in caso di errata individuazione del mezzo di impugnazione, non è validamente adito il giudice competente sull’impugnazione stessa e non insorge, pertanto, alcun obbligo del giudice così adito, né alcun diritto del maldestro impugnante, di trasmettere la causa al giudice competente sul corretto mezzo di impugnazione con gli effetti conservativi propri della c.d. translatio iudicii, risultando sic et simpliciter inammissibile il mezzo di impugnazione erroneamente proposto». In altri termini, l’errore circa il mezzo di impugnazione prescelto – da riguardarsi quale causa di inammissibilità del gravame proposto -, prevale e diviene assorbente rispetto alla possibilità di effettuare una salvifica translatio iudicii al giudice competente.

Esiste, tuttavia, un meccanismo astrattamente idoneo a salvare l’impugnazione veicolata tramite un mezzo erroneo dalla declaratoria di inammissibilità, sì da far resuscitare poi la possibilità di translatio iudicii al giudice competente: e proprio l’impossibilità, nel caso di specie, di innescare tale meccanismo spiega perché si sia dovuto ricorrere, a monte, alla decisione di inammissibilità dell’impugnazione proposta.

La Suprema Corte, infatti, non si astiene dall’esaminare la possibilità di salvare l’appello proposto tramite la sua conversione in ricorso per cassazione. Il principio di conversione degli atti processuali (anch’esso evidente espressione di una ratio di economia dei giudizi) consente infatti di salvare l’atto processuale invalido tramite, per l’appunto, la sua conversione in un atto diverso, che del primo, però, possegga tutti i necessari requisiti di validità (per un’applicazione, si veda Cass., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21675, secondo cui «l’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile deve proporsi con atto di citazione, sicché, qualora l’opponente abbia introdotto il corrispondente giudizio con ricorso, la sanatoria del vizio procedurale – operante quando, con la regolare instaurazione del contraddittorio, conseguente alla costituzione della controparte in assenza di eccezione alcuna, sia stato raggiunto lo scopo dell’atto, in virtù del principio di conversione degli atti processuali nulli di cui all’art. 156 c.p.c. – sussiste alla condizione che il ricorso venga notificato nel termine indicato nel decreto, analogamente a come si sarebbe dovuto procedere con l’atto di citazione»; in dottrina, F. Marelli, La conservazione degli atti invalidi nel processo civile, Padova, 2000; L. Salvaneschi, Riflessioni sulla conversione degli atti processuali di parte, in Riv. dir. proc., 1984, 121 ss.).

La Cassazione, tuttavia, scioglie il quesito in termini negativi. Un atto di appello, infatti, è giocoforza inidoneo a presentare tutti i requisiti di validità del ricorso per cassazione: quest’ultimo atto, infatti, introduce un giudizio di impugnazione a critica vincolata e, come noto, prevede criteri di redazione dei relativi motivi particolarmente stringenti, che un atto di appello – pur se redatto secondo le previsioni di cui al nuovo art. 342 c.p.c. – non è, con ogni probabilità, idoneo a rispettare.

Si spiega, allora, la prevalenza della declaratoria di inammissibilità sulla translatio iudicii. Infatti, se anche la Corte d’Appello avesse trasmesso gli atti alla Corte di cassazione, quest’ultima non avrebbe potuto far altro che prendere atto dell’inammissibilità dell’impugnazione proposta, a causa dell’inidoneità, per i motivi appena visti, dell’atto di citazione in appello a validamente instaurare il giudizio di legittimità: sicché, senz’altro più conveniente si è dimostrata la decisione assunta nel caso di specie.

In termini ancora differenti, la possibilità di translatio iudicii, in fattispecie quali quella ora in esame, presuppone la previa operatività della conversione dell’atto nullo in un atto idoneo a validamente instaurare il giudizio davanti all’autorità giudiziaria competente. Esclusa la praticabilità della conversione, la translatio non ha alcun ragione di essere.