24 Ottobre 2023

Erronea lettura dell’esame diagnostico e responsabilità medica

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, ord., 16.06.2023, n. 17410 – Pres. Travaglino – Rel. Porreca

Esecuzione di esame diagnostico – Attività del medico – Contenuto – Erronea lettura dell’esame diagnostico – Carenza della necessaria specializzazione – Esimente – Esclusione – Condotta necessaria – Contenuto – Fondamento

[1] In tema di attività medico-chirurgica, grava sul sanitario che esegua un esame diagnostico la responsabilità di leggere correttamente le relative immagini, senza che la carenza della necessaria specializzazione possa escludere la colpa per una erronea lettura dei suoi esiti, dovendo questi, ove insorgano dubbi, nella consapevolezza dei limiti derivanti dalla propria competenza settoriale e della mancanza di ulteriori strumenti di opportuna indagine, indirizzare il paziente presso strutture in grado di risolvere tempestivamente la criticità diagnostica in quanto, opinando diversamente, la grave imperizia della condotta posta in essere si tradurrebbe in un ingiustificato vuoto di tutela.

CASO

Una donna, in preda a forti dolori addominali, si recava in Pronto Soccorso, dove il medico di guardia, dopo una breve visita e senza eseguire accertamenti, la dimetteva con diagnosi di dismenorrea, somministrandole un antidolorifico.

Nel medesimo giorno, la donna si recava dal proprio medico di medicina generale, il quale prescriveva un antispastico al bisogno.

Il giorno seguente, permanendo la sintomatologia dolorosa, la paziente si rivolgeva al proprio ginecologo di fiducia, il quale sottoponeva la donna ad ecografia, in esito alla quale formulava una diagnosi di cisti liquida, anziché refertare “un quadro morfologico di deterioramento della parete intestinale” e prescriveva un ricovero, senza specificare se urgente oppure no.

Il giorno successivo, essendo ulteriormente aumentati i dolori, la donna si recava nuovamente presso il medesimo ospedale, dove veniva disposto un ricovero d’urgenza con diagnosi di “addome acuto” e successivo intervento chirurgico.

Il giorno dopo, in seguito ad uno shock tossico-infettivo irreversibile, insorto come complicanza dell’intervento chirurgico tardivo, la paziente veniva trasferita nel reparto di rianimazione, dove di lì a poco decedeva.

I familiari della donna citavano in giudizio tutti i professionisti sanitari coinvolti nella vicenda (il ginecologo, il medico di medicina generale ed i medici ospedalieri), ritenendo che il decesso della congiunta fosse loro addebitabile, per ritardo nella diagnosi e per avere gravemente sottovalutato lo stato di tossicità in cui la medesima versava.

Il Tribunale, con decisione confermata in grado di appello, accoglieva la domanda attorea, affermando (per quanto qui rileva)  la responsabilità del ginecologo che, non avendo dato sufficiente importanza al quadro morfologico di deterioramento della parete intestinale, risultante dall’ecografia, aveva omesso di rappresentare, nelle annotazioni del referto ed alla paziente, l’urgenza del ricovero, addirittura prescrivendo analisi – per markers tumorali ovarici – incompatibili con la situazione di urgenza.

Inoltre, il medico aveva erroneamente refertato l’ecografia, qualificando come formazioni anecogene le immagini riferite, con tutta probabilità, ad anse intestinali dilatate e fisse alla parete addominale.

Secondo il Tribunale, una corretta lettura ecografica avrebbe dovuto indurre il ginecologo a correlare i sospetti ai forti dolori addominali, indirizzando la paziente al ricovero d’urgenza per accertamenti specifici.

Pertanto, il ritardo nell’esecuzione delle necessarie indagini, effettuate quando il quadro clinico era oramai inevitabilmente compromesso, è stato ritenuto elemento “causalmente efficiente in termini probabilistici”, e pertanto decisivo nell’iter che ha determinato il decesso della paziente.

Il medico ginecologo proponeva ricorso in cassazione, lamentando fondamentalmente che il giudice di seconde cure avrebbe omesso di considerare che era specializzato in ginecologia e che non aveva, quindi, le competenze specialistiche di un internista, ciò che impediva di addebitargli l’imperizia ipotizzata nella refertazione ecografica e nell’errore diagnostico commesso.

SOLUZIONE

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, richiamando i propri precedenti sul punto, ha affermato che “la distinta specializzazione medica non esclude la colpa di chi, eseguendo un esame e dunque assumendosi la responsabilità di quello, lo referta in modo errato e senza indirizzare ai necessari approfondimenti con la cautela e tempestività del caso concreto”.

QUESTIONI

L’ordinanza in commento affronta la tematica della responsabilità del medico per errore diagnostico, inteso sia come non corretto inquadramento diagnostico della patologia e sottostima di una specifica allarmante sintomatologia, sia come ritardo diagnostico, per avere il medico procrastinato, a danno del paziente, l’esecuzione di necessari ed approfonditi accertamenti.

Nel caso di specie, il medico ginecologo citato in giudizio dagli eredi della vittima era incorso in entrambi gli errori.

Infatti, aveva erroneamente refertato le immagini di un’ecografia, cui si era sottoposta la paziente, indicando come formazioni anecogene le immagini riferite con tutta probabilità ad anse intestinali dilatate e fisse della parete addominale.

Ed aveva, altresì, omesso di specificare l’urgenza del ricovero nella sua annotazione, né l’aveva rappresentata alla paziente, onde consentirle di verificare l’effettiva causa dei dolori lamentati.

Il principio da cui ha preso le mosse la Corte di legittimità, nel caso di specie, è quello secondo cui sul medico, che esegue un esame diagnostico, grava la responsabilità di leggere correttamente le immagini, non valendo la carenza della necessaria specializzazione ad escludere la colpa per una erronea interpretazione dei suoi esiti.

In applicazione di tale principio, gli Ermellini avevano rigettato il ricorso presentato dal ginecologo, coinvolto nel caso di specie, il quale contestava che la sua specializzazione in ginecologia – e non in internistica – impediva di addebitargli l’imperizia nella refertazione ecografica e nell’errore diagnostico, in quanto la paziente era deceduta per una patologia intestinale e non ginecologica.

Ma la specializzazione medica del ginecologo non era stata ritenuta una causa di giustificazione sufficiente ad interrompere il nesso causale tra la condotta del sanitario ed il danno patito dalla paziente, poi deceduta.

Infatti, secondo gli Ermellini, il medico, eseguendo l’ecografia addominale, aveva la responsabilità di leggere correttamente le relative immagini e, nella consapevolezza dei limiti derivanti dalla propria competenza settoriale, avrebbe dovuto correlare le immagini refertate quantomeno a dubbi “la cui presa in considerazione non può che far parte del bagaglio professionale del medico”. Ciò lo avrebbe indotto ad “indirizzare, nello specifico, senza alcun ulteriore ritardo, la paziente ….. presso strutture in grado di risolvere tempestivamente la criticità diagnostica”.

E quindi, secondo la Suprema Corte “in alcun modo può cioè avvallarsi la conclusione per cui la distinta specializzazione medica esclude la colpa di chi, eseguendo un esame e dunque assumendosi la responsabilità di quello, lo referta in modo erroneo e senza indirizzare ai necessari approfondimenti con la cautela e tempestività del caso concreto, traducendosi, altrimenti, la grave imperizia della condotta posta in essere in uno speculare quanto ingiustificato vuoto di tutela”.

Nel caso di specie, la condotta del medico ginecologo non solo è stata caratterizzata da imperizia – per aver errato nella diagnosi e prescritto alla paziente solo la ricerca di markers tumorali, incompatibili con l’urgenza del ricovero – ma anche, da imprudenza e negligenza, tenuto conto che la necessità e l’urgenza del ricovero non erano state rappresentate alla paziente come dovuto, al di là delle refertazioni (nelle quali, comunque, non c’era traccia dell’urgenza, parlandosi genericamente di “ricovero”).

La Cassazione, quindi, rimarca il principio di diritto dell’obbligo di garanzia, che tutela il paziente ed impegna il medico ben oltre la sua specializzazione, dovendo il secondo ponderare i propri giudizi diagnostici, secondo la diligenza qualificata stabilita dall’art. 1176, co. 2°, c.c.

In forza di tale disposizione normativa, il medico non può limitarsi ad una “mera e formale lettura degli esiti dell’esame diagnostico svolto, ma, allorché tali esiti lo suggeriscano (e dunque ove si tratti di esiti c.d. aspecifici del quadro radiologico), è tenuto ad attivarsi per un approfondimento del quadro, dovendo, quindi, prospettare al paziente anche la necessità o l’esigenza di far fronte ad ulteriori e più adeguati esami” (Cass. civ., 37728/2022).

Se, dunque, gli esami strumentali eseguiti non consentono al medico di effettuare una diagnosi e quindi non gli consentono, senza sua colpa, di avere ragionevoli certezze sull’effettiva condizione del paziente, il sanitario, in base alla diligenza specifica di cui all’art. 1176, co. 2°, c.c., deve attivarsi per gli opportuni approfondimenti o indirizzare il paziente presso centri di specializzazione adeguati allo scopo (in tal senso: Cass. civ., 30727/2019; Cass. civ., 24220/2015; Cass. civ., 15386/2011).

Ciò che nella specie non è avvenuto.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la responsabilità del ginecologo.

Orbene, pur essendo pacifico che l’obbligo di garanzia a tutela del paziente “non fa sconti” e quindi va oltre la singola specializzazione, tuttavia l’ordinanza in commento si presta, a giudizio di chi scrive, alla seguente osservazione critica: poteva esigersi dal ginecologo, che ha evidentemente eseguito un’ecografia ginecologica (quindi limitata all’indagine del suo ambito di competenza), quella diligenza, perizia e specificità che deve, invece, pretendersi dal medico ecografista?

Questo aspetto avrebbe meritato uno specifico approfondimento.

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