30 Gennaio 2024

Errore diagnostico: è ammessa la coesistenza tra danno da premorienza e danno da perdita di chance

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, sent., 19.09.2023, n. 26851– Pres. Travaglino – Rel. Porreca

Attività medico-chirurgica – Errore medico e morte anticipata del paziente – Errore medico e perdita di “chance” di sopravvivenza – Danni risarcibili al paziente e agli eredi – Danno da perdita anticipata della vita – Risarcibilità “iure hereditario” – Esclusione – Valutazione e liquidazione

Nesso di causalità – Concorso tra causa naturale e causa umana imputabile – Attribuzione integrale dell’evento all’autore del fatto illecito – Liquidazione del danno

[1] Fermo il generale principio della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo.

[2] In tema di responsabilità sanitaria, in ipotesi di condotta colpevole del sanitario cui sia conseguita la perdita anticipata della vita, perdita che si sarebbe comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la pregressa patologia del paziente, non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un danno da “perdita anticipata della vita” trasmissibile “iure successionis”, non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico. È possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto “iure proprio” degli eredi, rappresentato dal pregiudizio da minor tempo vissuto dal congiunto.

[3] In ipotesi di morte del paziente dipendente (anche) dall’errore medico, qualora l’evento risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde “in toto” dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato.

CASO

Una paziente, malata oncologica, poi deceduta in corso di giudizio, aveva richiesto una consulenza tecnica preventiva, volta all’accertamento del danno dalla medesima subìto in conseguenza di una ritardata diagnosi tumorale e la conseguente omissione di adeguata terapia ormonale da parte di una struttura sanitaria locale.

Nello specifico, la donna era stata sottoposta a quadrectomia per carcinoma mammario, con conseguente svuotamento ascellare e biopsia del linfonodo sentinella. La determinazione recettoriale era stata refertata come negativa.

Negli anni successivi, la malattia era recidivata con metastasi a livello polmonare ed osseo.

L’errore diagnostico, addebitato ai sanitari, era stato allegato come commesso nell’esame di “determinazione dell’assetto recettoriale sul pezzo operatorio” avvenuto nell’anno 2006.

Tale errore era emerso successivamente, nel 2010, in seguito alla revisione dei vetrini, al fine di una verifica dell’assetto recettoriale del medesimo pezzo operatorio, da cui emergeva che il tessuto tumorale era fortemente recettivo per entrambi i recettori.

L’errore de quo aveva determinato l’omessa prescrizione di idonea terapia ormonale, al termine del ciclo di chemioterapia (nel 2007), la quale era poi stata intrapresa soltanto nel 2010, quando la patologia si era evoluta drammaticamente.

Ciò aveva determinato, secondo i consulenti di parte, una riduzione della probabilità di sopravvivenza a dieci anni.

La consulenza d’ufficio aveva accertato che la terapia ormonale sarebbe stata idonea a ritardare la recidiva della patologia tumorale e che, pertanto, l’omessa prescrizione della stessa ne aveva di fatto anticipato la ricomparsa.

La CTU, inoltre, aveva sostenuto che al momento della prima diagnosi (errata) avrebbe dovuto essere prescritta anche una terapia con apposito farmaco, dimostratosi efficace, da un lato, nel ridurre la recidiva tumorale e dall’altro, sia pure in misura minore, nel ridurre il rischio di decesso, indipendentemente dalla prescrizione della terapia ormonale. In conclusione, la consulenza d’ufficio stimava i postumi permanenti, riconducibili all’aggravamento della patologia, nella misura del 50% rispetto allo stato di salute precedente.

Il Tribunale aveva accolto le domande dell’attrice, considerando provato l’errore diagnostico.

La corte di merito aveva confermato la decisione di primo grado, ritenendo però necessario personalizzare il danno biologico, tenuto conto dello sconvolgimento della vita della paziente, già minata dalla scoperta della patologia, unitamente alla sfiducia circa il recupero delle precedenti condizioni di salute, a fronte del mutamento definitivo ed integrale delle medesime.

L’Azienda Sanitaria Locale proponeva ricorso in cassazione, lamentando, tra gli altri motivi, che la Corte di merito avesse erroneamente duplicato le voci risarcitorie a favore dell’attrice, riconoscendo sia il risarcimento del danno da perdita di chance, sia del danno da premorienza, oltreché il danno biologico permanente.

SOLUZIONE

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte, pur confermando il generale principio per cui risarcire cumulativamente il danno da perdita anticipata della vita e quello da perdita di chance di sopravvivenza rappresenta un’inammissibile duplicazione risarcitoria tra le voci di danno, ha tuttavia affermato che entrambe le tipologie “possono eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione, qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile”.

QUESTIONI

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha fatto chiarezza sulle differenze tra danno da premorienza, danno biologico differenziale e danno da perdita di chance di sopravvivenza.

Quanto al danno da premorienza, gli Ermellini hanno evidenziato che le conseguenze dannose della premorienza occorsa nelle more del giudizio vanno distinte, secondo che la morte sia indipendente o dipendente dall’errore medico.

Nel caso in cui la morte del paziente (avvenuta durante il giudizio risarcitorio, ma prima della sua conclusione) sia indipendente dall’errore medico, quando cioè è avvenuta per una causa non riconducibile alla condotta illecita del medico, il risarcimento spettante agli eredi del defunto, che agiscono iure successionisva parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non invece a quella statisticamente probabile.

Nel caso in cui, invece, la morte del paziente (avvenuta durante il giudizio risarcitorio, ma prima della sua conclusione) sia dipesa anche dall’errore del medico, oltre che da cause naturali (quali il precedente stato patologico del paziente, come nel caso di specie), l’autore del fatto illecito risponde dell’evento dannoso (della morte) in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale; mentre non ha alcun rilievo l’eventuale efficienza causale delle altre concause dell’evento mortale (quali la pregressa patologia). Infatti, l’efficienza causale degli altri eventi naturali può rilevare soltanto sul piano della causalità giuridica e, quindi, soltanto ai fini della liquidazione equitativa dei pregiudizi subiti dal paziente in conseguenza dell’evento dannoso.

Pertanto, secondo la sentenza in commento, qualora nel processo venga accertato che la causa naturale ha rilevanza esclusiva nella determinazione dell’evento dannoso, ciò esclude la sussistenza del nesso di causalità fra la condotta illecita dell’agente e l’evento, con conseguente rigetto della domanda risarcitoria.

Qualora, invece, nel processo venga accertato che la causa naturale ha rilevanza concorrente con la condotta dell’agente nella determinazione dell’evento, la responsabilità di quest’ultimo sarà addebitata integralmente al soggetto che ha tenuto la condotta, con conseguente accoglimento della domanda risarcitoria.

Dopodiché gli Ermellini passano ad esaminare la differenza tra il danno da perdita anticipata della vita e quello da perdita di chance di sopravvivenza, onde verificare se sia possibile la contemporanea sussistenza di entrambe le tipologie di danno.

Il danno da perdita anticipata della vita (o danno da premorienza) si sostanzia nella perdita anticipata della vita (la perdita della vita si sarebbe comunque verificata a causa della patologia pregressa, ma sarebbe avvenuta in un tempo successivo, rispetto a quello in cui è avvenuta a causa della condotta dell’agente). Tale danno va accertato, applicando il criterio del “più probabile che non” e, in ipotesi di accertamento positivo, lo stesso non sarà risarcibile a favore della vittima, ma solo a favore dei suoi congiunti.

Il danno da perdita di chance di sopravvivenza, invece, si sostanzia nella perdita per il paziente della possibilità di vivere ancora più a lungo; tale danno va risarcito equitativamente, una volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo.

In altri termini, per la risarcibilità del danno da perdita di chances di sopravvivenza, è necessario che sussista il nesso eziologico (da valutarsi sempre secondo il criterio “del più probabile che non”) tra la condotta colpevole del sanitario e la perdita per il paziente della possibilità di un risultato migliore (in termini di prolungamento della vita), non essendo sufficiente una semplice probabilità di un possibile risultato migliore.

Si tratta, quindi, di due diverse tipologie di danno, che vanno accertate dal giudice distintamente, in ragione della sussistenza oppure non del nesso di causalità con la condotta del medico per ciascuna delle due categorie di danno.

Dopo aver chiarito le differenze tra le varie tipologie di danno, nella fattispecie eventualmente rilevanti, la Suprema Corte, prima di dare risposta al quesito se, accanto al danno da premorienza (ovvero il danno per non aver avuto una vita che si sarebbe protratta più a lungo e per un tempo determinato), l’errore medico abbia potuto determinare, nel caso de quo, anche la perdita della chance di sopravvenire ancora più a lungo, passa ad esaminare possibili ipotesi, analoghe a quella oggetto del caso di specie, al fine di individuare e differenziare le eventuali voci risarcitorie, legittimamente invocabili dal danneggiato (ancora in vita al momento della decisione), in conseguenza di un errore diagnostico da parte dei sanitari, ovvero dagli eredi, iure successionis (in caso di decesso anticipato dell’avente diritto).

1) La vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi.

In tale ipotesi non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass. civ., 5641/2018; Cass. civ., SS. UU., 15350/2015; Cass. civ., 4400/2004), non essendo previsto, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.

Infatti, causare la morte di una persona non comporta il sorgere, a favore di quest’ultima, di un diritto al risarcimento del danno per la perdita della vita anticipatamente, rispetto alle prospettive statistiche di durata della vita o rispetto a quelle fornite dalla scienza medica.

Pertanto, provocare il decesso di un ottantenne sano, che ha dinnanzi a sé cinque anni di vita sperata non è ontologicamente diverso dal causare la morte di un ventenne malato che, se correttamente curato, secondo la scienza medica, avrebbe avuto dinnanzi ancora cinque anni di vita.

In ambedue i casi, la vittima perde la vita prima del tempo che gli assegnava – nel primo caso – la statistica demografica e – nel secondo caso – la scienza medica.

Ne consegue che non è possibile distingue morfologicamente le due fattispecie e prevedere la risarcibilità solo nel secondo caso.

Quindi, nel caso di un paziente che, al momento dell’introduzione del giudizio, sia già deceduto, sono alternativamente risarcibili iure hereditario, se allegati e provati, i seguenti danni:
a)    il danno biologico differenziale (inteso quale peggiore qualità della vita effettivamente vissuta) e il danno morale da lucida consapevolezza dell’anticipazione della propria morte (dal momento in cui il paziente ha avuto conoscenza della propria imminente morte), nel caso in cui la condotta del medico ha causato la perdita anticipata della vita del paziente;

b)    il danno da perdita di chances di sopravvivenza, nel caso in cui la condotta del medico ha causato la perdita della possibilità per il paziente di vivere più a lungo (non determinata né nell’an, né nel quantum).

Mentre, lo si ripete, non è risarcibile, iure hereditario, un danno da perdita anticipata della vita con riferimento al periodo di vita che il paziente non ha vissuto.

2) La vittima è ancora vivente al momento della liquidazione del danno.

In questa seconda ipotesi, i danni liquidabili sono i medesimi previsti nella prima fattispecie, vale a dire: il danno biologico differenziale e il danno morale da lucida agonia.

La sola differenza rispetto alla prima fattispecie è rappresentata dal fatto che sarà il paziente stesso, ancora in vita, a invocare il risarcimento.

3) La vittima, vivente al momento dell’introduzione del giudizio, è deceduta al momento della liquidazione del danno

In tale ipotesi, che ricorre nel caso di specie:

  • se viene accertato che l’errore medico abbia causato la morte anticipata del paziente, i danni liquidabili sono i medesimi previsti per l’ipotesi di cui punto 1, vale a dire: il danno biologico differenziale e il danno morale da lucida agonia.

Tali danni saranno trasmessi dal paziente, al momento del decesso, ai suoi eredi. Mentre, non potrà essere trasmesso un danno da perdita anticipata della vita;

  • se è incerto che l’errore medico abbia causato la morte del paziente, quest’ultimo può aver subìto un danno da perdita delle chances di sopravvivenza (per il periodo in cui ha vissuto) e, pertanto, alla sua morte, trasmetterà agli eredi il diritto al risarcimento del danno. Anche in questo caso, non si potrà trasmettere loro il diritto al risarcimento del danno da perdita anticipata della vita.

Con riferimento a tali aspetti, gli Ermellini precisano che quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola (salvo l’eccezione di cui si dirà), evento assorbente di qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chances future.

I danni risarcibili a favore del paziente (trasmissibili agli eredi in caso di morte) sono dunque:

– il danno biologico differenziale, consistente nell’aver vissuto in modo peggiore, sul piano dinamico relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa dell’errore del medico;

il danno morale consistente nella sofferenza interiore e nella privazione della capacità di lottare contro la malattia, che il paziente avrà nel trascorrere gli ultimi periodi di tempo della propria vita, a causa della acquisita consapevolezza che l’errore del medico ha determinato o determinerà con certezza una riduzione della propria vita;

– il danno da perdita di chances di sopravvivenza consistente nella perdita della possibilità, seria, apprezzabile e concreta, anche se incerta, di vivere più a lungo, a causa della condotta illecita posta in essere dal medico.

Mentre, la perdita anticipata della vita (che sarebbe comunque stata perduta a causa della malattia), a causa di un errore medico, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti (c.d. danno da perdita del rapporto parentale). Al paziente, invece, andrà risarcito il solo danno biologico differenziale sulla base del criterio causale del “più probabile che non”.

Queste due ultime tipologie di danno (il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chances di sopravvivenza) di regola non sono sovrapponibili, né congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione, qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, laddove questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta ed apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente  alla condotta colpevole dell’agente.

In simili casi, il Giudice dovrà procedere alla liquidazione sia del danno biologico differenziale (ed eventualmente anche quello morale), sia del danno da perdita di chance di sopravvivenza.

Tornando all’esame del caso di specie, la Corte di legittimità ha ritenuto che, essendo emerso nel giudizio di merito che il decesso della paziente era ricollegabile sia alla patologia di cui la medesima era affetta, sia all’errore dei sanitari, la Corte d’appello avrebbe dovuto specificare se e come era stato distinto il danno correlato alla morte della paziente, rispetto a quello correlato alla peggiore qualità della vita prima della morte.

Secondo gli Ermellini, la liquidazione del danno biologico differenziale avrebbe dovuto essere effettuata, tenendo conto della percentuale complessiva del danno patito dalla paziente, sottraendo la percentuale non imputabile alla condotta illecita del sanitario.
Invece, la corte di merito aveva genericamente fatto riferimento alla decisione di primo grado, ciò che non consentiva di individuare una reale motivazione della quantificazione del danno legato al peggioramento della qualità di vita della paziente deceduta.
Conseguentemente, la Suprema Corte aveva cassato la decisione impugnata con rinvio alla Corte di appello.

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