3 Marzo 2020

Saper cambiare prospettiva: è questa la chiave per scrivere il proprio futuro

di Giulia Maria Picchi - Senior partner Marketude Scarica in PDF

Mi capita sempre più spesso di conversare con professionisti di circa 50 anni che mi descrivono la grandezza dei loro dominus. Fondatori di studi che hanno avuto successo, economico e reputazionale. Potrei fare un breve elenco di caratteristiche che li accomunano, pur evidentemente nella loro capacità di imporsi come figure “fuori dal coro”, dotate di un’intelligenza non comune e tutte -questo sì mi preme sottolinearlo- dedite in modo incessante allo studio e all’approfondimento di atti, sentenze, articoli e tutto quanto potesse consolidare e accrescere la loro conoscenza.

Ma una qualità ritengo sia più decisiva delle altre: la loro capacità di cambiare prospettiva.

E’ questo -a mio personale modo di vedere- che ha determinato la storia di questi professionisti e delle loro realtà. Qualcuno poi aggiunge “anticipando i tempi” ma forse anche dettando inconsapevolmente le regole di un futuro che ha poi visto la luce.

Sono tutte persone che hanno avuto il coraggio di fare le cose in modo diverso, che non si sono adagiate sul “si è sempre fatto così”, che hanno raccolto le forze e si sono messi in viaggio.

Il tempo spesso li ha graziati. Le condizioni di contesto prima e la lentezza con cui lo stesso si è adattato dopo -complici magari anche le istituzioni che hanno tentato il più possibile di rallentare e ostacolare l’affermarsi di nuove modalità di lavoro- hanno garantito loro lunghi periodi di prosperità. E per quanto si possa essere irrequieti per indole, si tenta sempre di consolidare quel che si costruisce, non di vivere in un costante stato di cambiamento.

Peraltro, anche stabilizzare e mantenere lo status quo in un certo senso sono attività che costituiscono una nuova sfida -e quindi una novità- soprattutto se comportano il dotarsi di una struttura più grande, magari ampliare la rosa di servizi offerti o anche solo la compagine di professionisti che operano in studio. Perché tutto questo implica darsi delle nuove regole, abituarsi magari a condividere ciò che prima era proprio -soldi, visibilità, relazioni, spazi, …- e in generale perdere anche parte della propria autonomia.

Si perde, si vince, ci si adatta.

Si resiste se non si imprime una nuova velocità, se non si cambia.

Almeno fino a quando arriva uno scossone di qualche genere, un bambino che grida “il re è nudo”.

E allora diventa irrinunciabile rimettersi in gioco, ritrovare il coraggio che si aveva in partenza.

O, se non si è tra quei “padri fondatori” di cui si parlava, dare voce al proprio valore e con risolutezza scegliere il proprio destino.

Ma c’è un problema.

“Scegliere” vuol dire “decidere”. E decidere non è cosa semplice, se si è stati abituati a non farlo. Se si è stati guidati e si è stati coinvolti solo quel tanto che serviva per far sì che venissero eseguiti i compiti, che venisse smaltito il lavoro. In sintesi, se si è vissuti in cattività, sentendosi a volte protetti dalle spalle larghe del proprio mentore, a volte scoraggiati dal prendere iniziative che potessero in qualche modo alterare lo stato delle cose.

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