21 Febbraio 2023

Non è soggetta ad imposta di registro la clausola contrattuale che non costituisce autonomo negozio giuridico

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado, Lombardia-Milano, Sez.II, Sentenza 25 ottobre 2022 n.4087, Pres. Dott. Domenico Giordano, Rel. Dott.ssa Paola Malanetto.

Massima: “L’impostazione seguita dall’amministrazione non sia condivisibile, attribuendo al generico termine di “disposizione” un significato assolutamente indeterminato fino a farlo coincidere con quello di “clausola negoziale” pur che sia, soluzione che non è coerente né con il significato strettamente giuridico di autonomo “negozio” o “causa negoziale” né con una sua lettura in termini lato sensu economici di “espressione di autonoma capacità contributiva”. L’unica finalità della clausola penale contestata è infatti quella di scoraggiare una forma di inadempimento (ritardo nel versamento dei canoni) di una obbligazione tipica della locazione, rafforzando la regolare esecuzione dell’unico contratto, e non certo disciplinando inesistenti autonomi negozi”. 

CASO

La Direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Varese appellava la sentenza n. 170/2021 emessa dalla CTP di Varese con la quale veniva accolto il ricorso proposto da Tizia avverso all’avviso di liquidazione con il quale era stata erroneamente quantificata l’imposta di registro collegata con clausole di pagamento di interessi moratori per ritardato pagamento di canoni di locazione.

L’appellante lamentava la violazione dell’art.21 del d.p.r. n.131/1986[1] laddove il giudice di prime cure non avrebbe considerato la volontarietà della clausola né la sua autonomia causale, chiedendo pertanto la conferma dell’avviso di liquidazione impugnato.

Contestualmente si costituiva in giudizio la contribuente, con appello incidentale, lamentando l’irrisorietà delle spese legali liquidate con la sentenza in accoglimento della sua domanda e quantificate solo in euro 300,00, inferiori anche rispetto al minimo tabellare, da individuarsi invece in Euro 525,00.

In via preliminare, la contribuente eccepiva l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata si sarebbe fondata su una doppia motivazione, “in specifico affermando in primis che la clausola oggetto di contestazione non sarebbe neppure stata qualificabile quale penale, trattandosi di meri interessi di mora; alternativamente argomentava per la non tassabilità della penale indicata in contratto. Posto che la prima parte della motivazione, di per sé sufficiente a sorreggere la decisione, non sarebbe stata oggetto di contestazione, l’appello sarebbe inammissibile”. Nel merito, invece, era contestata la tesi dell’Agenzia, rimarcando che la clausola non costituirebbe una penale e che, in ogni caso, non integrerebbe una clausola autonoma, comportando la non suscettibilità ad un trattamento analogico rispetto ai negozi soggetti a condizione sospensiva.

Riassumendo dunque le eccezioni dedotte in primo grado e riproposte nella suddetta fase di gravame, la contribuente segnalava: il difetto di motivazione dell’atto, la violazione degli artt. 6 e 10 della l. n. 212/2000 e 5 D.lgs. n. 742/97, in quanto la modulistica in uso al momento di registrazione del contratto non prevedeva la tassazione della clausola; in ogni caso la contribuente aveva optato per il regime della cedolare secca, che avrebbe comunque escluso l’applicazione dell’imposta di registro.

SOLUZIONE

La Corte di giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, definitivamente pronunciando respingeva l’appello dell’Ufficio; in accoglimento dell’appello incidentale rideterminava le spese liquidate in primo grado in favore della contribuente in euro 525,00 oltre IVA, CPA e rimborso spese generali, condannando l’appellante a rifondere alla contribuente anche le spese del grado di appello, liquidate in Euro 1885,00 oltre IVA, CPA e rimborso spese generali.

QUESTIONI

Il Collegio ritenne l’appello infondato e che la contestazione in merito alla non debenza della maggior imposta di registro reclamata dall’amministrazione abbia assorbito ogni altra contestazione reciprocamente posta dalle parti con riferimento alla sentenza e all’atto impugnato, data la natura devolutiva del procedimento d’appello. Alla base dell’assorbimento delle diverse contestazioni presentate dalla parte appellante, il Collegio pose il rispetto del principio della c.d. ragion più liquida, nozione di larga e diffusa applicazione sia nella giurisprudenza di merito che in quella di legittimità seppur di elaborazione dottrinale, desumibile dall’art. 24 e 111 della Costituzione[2] e mira a fare in modo che la tutela giurisdizionale sia effettiva e celere per le parti in giudizio. Attraverso suddetto principio, pertanto, è stata riconosciuta la facoltà al giudice di rigettare la domanda ritenendo fondata una questione pregiudiziale, su cui si sia già formato il convincimento, senza essere tenuto a vagliare anticipatamente le altre, che richiederebbero una più complessa indagine, quantunque la prima, dal punto di vista logico, si ponga a valle di queste ultime[3].

Tanto precisato, posto che la clausola che originò la contestazione e l’applicazione della maggior imposta di registro in misura fissa fu quella con la quale le parti del contratto di locazione previdero l’applicazione degli interessi moratori in caso di tardivo pagamento dei canoni, l’Ente impositore ritenne questa determinazione autonomamente tassabile poiché presunta espressione di un autonomo negozio e, pertanto, di una specifica capacità contributiva.

In merito, i giudici aditi della Corte di Giustizia Tributaria ricordarono che, in virtù del dettato dell’art. 21 del d.p.r. n. 186/1931, “se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto. Se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa“.

Dovendosi interrogare sul reale significato dell’espressione “autonoma disposizione”, tenendo conto che quest’ultima espressione è concetto generico che ben può attagliarsi a più fattispecie, con riferimento alla norma in discussione, l’espressione non può che tenere conto dell’autonomo valore economico patrimoniale che una “disposizione” deve essere in grado di esprimere, ponendosi così in linea con la complessiva finalità di colpire un sintomo di capacità contributiva propria dell’ordinamento tributario.

Alla luce di tali riferimenti normativi e interpretazioni, valutando che evidentemente non ogni clausola contrattuale identifica un autonomo negozio giuridico e neppure necessariamente rappresenta una autonoma operazione economica, l’oggetto proprio del contratto di locazione implica una contestuale ma necessariamente economicamente vincolata pluralità di obbligazioni a carico delle parti. Pertanto, com’è noto, il locatore “sarà tenuto alla consegna dell’immobile nei tempi pattuiti, a garantirne il godimento, ad effettuare la manutenzione straordinaria, a rispettare i tempi legali/contrattuali di durata del rapporto; a sua volta il conduttore sarà tenuto al puntuale pagamento del canone, alla conservazione diligente dell’immobile, alla restituzione dello stesso nei tempi e modi previsti dalla legge o da specifiche pattuizioni individuali”.

La disciplina e la gestione dei diversi aspetti della pluralità summenzionata ben possono essere cristallizzata in molteplici “clausole” o “disposizioni” del contratto ma non rappresenterà mai, né dal punto di vista giuridico né dal punto di vista economico, una pluralità di negozi scindibili o autonomi[4]. A ciò i giudici tributari aggiunsero che il contratto di locazione avrebbe per sua natura una disciplina che contempla, secondo il tipo di locazione scelta, disposizioni di carattere imperativo[5] ed altre di carattere dispositivo o parzialmente dispositivo in favore di una parte, che i contraenti possono diversamente regolare. Tanto premesso, la circostanza per cui le parti usufruiscano di questa facoltà dispositiva, nei limiti della causa negoziale tipizzata dal legislatore, e che a tal fine introducano delle disposizioni contrattuali, non comporterebbe “certo che esse concludano autonomi negozi ma unicamente che, appunto nell’ambito dell’unico tipo negoziale disegnato dalla legge, si avvalgono del potere dispositivo che l’ordinamento loro riconosce coerentemente con la causa e tipo dell’unico negozio”.

Attraverso la motivazione, pertanto, la Corte ritenne evidente che l’impostazione seguita dall’amministrazione non possa essere condivisibile, avendo essa attribuito al termine “disposizione” un significato assolutamente indeterminato fino a farlo coincidere con quello generico di “clausola negoziale”, soluzione che non sarebbe coerente né con il significato strettamente giuridico di autonomo “negozio” o “causa negoziale” né con una sua lettura in termini lato sensu economica di “espressione di autonoma capacità contributiva”.

Fu inoltre precisato che, al fine di operare la quantificazione dell’imposta dovuta all’Erario, l’Agenzia delle Entrate è stata costretta ad operare un’analogia con la disciplina della c.d. condizione, così contravvenendo in linea di principio a direttive proprie della materia tributaria, inquadrando la ritenuta autonoma pattuizione come “negozio soggetto a condizione sospensiva”. Pertanto, tenuto conto che la condizione non è un negozio ma una sua clausola accessoria incidente sull’efficacia del negozio in cui si inserisce, la Corte si espresse con perplessità sull’impostazione dell’Agenzia in quanto “non è chiarissimo […] come la singola clausola possa essere allo stesso tempo “autonomo negozio” (come tale tassabile) e “condizione”, come tale per definizione accessoria e non autonoma”. Sempre seguendo l’argomentazione formulata dall’Ufficio, l’evento dedotto in condizione consisterebbe nell’inadempimento di una parte, essendo ancora una volta incoerente con la natura stessa degli istituti invocati[6].

In ultima analisi, fu ritenuto opportuno dai giudici tributari richiamare che la posizione della contribuente appare ulteriormente immeritevole dell’applicata tassazione giacché la stessa aveva chiesto l’applicazione della cedolare secca (circostanza non contestata dall’Ufficio), ossia di un regime facoltativo ex lege sostitutivo IRPEF, addizionali e che esclude anche l’applicazione delle imposte di registro e bollo ordinariamente dovute per le registrazioni, il che, a maggior ragione, lasciò ulteriormente stupiti dell’impostazione dell’Ufficio che oltre a moltiplicare in modo improprio la tassazione ne ha altresì preteso all’applicazione in un contesto che la avrebbe esclusa.

[1] C.d. “Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro”.

[2] Rispettivamente inerenti al diritto di difesa e di giusto processo, con particolare riguardo alla ragionevole durata del processo,

[3] Criterio del primato della ragione più liquida, si veda Corte di Cassazione, Sezione VI – 3 Civile, Ordinanza 26 novembre 2019, n. 30745.

[4] “Non avrebbe alcun senso, neppure economico, disquisire di tempi e modi di restituzione dell’immobile se non sul necessario presupposto di una locazione in corso, non ha alcun senso disquisire di ritardo nel pagamento del canone se non sul presupposto dell’esistenza dell’unica obbligazione di pagarlo tempestivamente”.

[5] Es. vincoli di durata, limiti alla possibile risoluzione anticipata.

[6] Si aggiunga che l’inadempimento è condotta rimessa al mero arbitrio della parte, come tale strutturalmente incompatibile con la disciplina della condizione (si veda l’ art. 1355 c.c. che qualifica nulla la condizione subordinata alla mera volontà di una parte).