14 Dicembre 2015

La testimonianza non è sempre prova libera

di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF

Il valore probatorio tradizionalmente assegnato alla prova testimoniale è quello di prova libera, con ciò intendendosi l’esito istruttorio che, per regola generale di cui all’art. 116 c.p.c., è soggetto al prudente apprezzamento del giudice.

Il legislatore – che dedica quindici articoli (dal 244 al nuovo 257 bis c.p.c. in materia di testimonianza scritta) alla regolamentazione delle modalità di assunzione del mezzo, cui si devono aggiungere i sette articoli del codice civile (dal 2721 al 2726) sui limiti oggettivi della prova – non indica in alcun punto del codice altra norma che imponga al giudice di adottare un particolare criterio valutativo nel giudizio sulla verità o meno di quanto dichiarato dal teste.  

Si sarebbe dunque indotti a concludere che l’ordinamento pone il giudice davanti a un’alternativa secca: o la prova testimoniale non deve trovare ingresso nel processo, perché, ad esempio, il suo oggetto esula da quelli consentiti dalla legge, o il soggetto del quale è richiesta la testimonianza è portatore di un interesse che, ex art. 246 c.p.c., legittimerebbe la sua partecipazione al giudizio; oppure la prova, qualora ritenuta anche astrattamente rilevante, deve essere ammessa e, una volta assunta, il suo esito dovrà essere invariabilmente soggetto al regime delle prove libere.

La questione è in realtà più complessa.

Se è vero infatti che l’ordinamento non conosce deroghe “per eccesso” (nessuna dichiarazione resa in sede testimoniale può assurgere al rango di prova legale, ossia vincolare il giudice a ritenere vero il fatto riferito dal terzo) altrettanto non può dirsi riguardo a possibili attenuazioni – al grado di argomenti di prova, o di semplici indizi – dell’apporto probatorio della testimonianza.  

La giurisprudenza ha infatti individuato ipotesi – non previste dalla legge, e infatti ricavate nell’ambito della categoria delle cc.dd. prove atipiche – in cui la prova testimoniale è contraddistinta da un valore persuasivo inferiore alle prove libere.

Le Corti sono ferme nel limitare ad una “valenza probatoria minima” (Cass., 24 giugno 2008, n. 17188, in Mass. Giur. It., 2008; Cass., 12 marzo 2008, n. 6620, in www.leggiditaliaprofessionale.it.) l’efficacia dimostrativa delle cc.dd. testimonianze de relato ex parte, ovvero delle attestazioni sulla verità o falsità di circostanze di cui il testimone ha avuto notizia dalle parole di un soggetto del processo (sulla nozione, in dottrina, v. Barbagallo, La prova testimoniale, Milano, 2002, 266 ss.;  Laudisa, voce “Prova testimoniale (dir. proc. civ.)”, in Enc. Giur., XXV, Roma, 1991, 2; Taruffo, voce “Prova testimoniale (dir. proc. civ.)”, in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1988, 754).

Vi è invece incertezza sul grado di persuasività da riconoscersi alla dichiarazione con cui il terzo abbia riferito fatti appresi unicamente dalla parte che ha proposto la domanda giudiziale (c.d. testimonianza de relato ex parte actoris) e a questa favorevoli (diverso il caso della confessione stragiudiziale resa al terzo, oggetto di specifica disciplina nell’art. 2735 c.c).

Un primo orientamento, particolarmente rigoroso, assegna alla deposizione una rilevanza processuale “sostanzialmente nulla”, in quanto vertente sul “fatto della dichiarazione” e non sul “fatto oggetto dell’accertamento”: in questo senso Cass., 15 gennaio 2015, n. 569, in C.E.D. Cass., rv. 634331; Cass., 10 gennaio 2011, n. 313, in C.E.D. Cass., rv. 615494; con parole simili Cass., 9 giugno 2009, n. 13263, in Imm. e propr., 2009, 664.

La tesi maggioritaria riconosce invece, in presenza di ulteriori riscontri probatori, un’astratta idoneità a concorrere nella determinazione del convincimento del giudice anche all’attestazione confermativa delle circostanze allegate dalla parte: così Trib. Massa, 10 febbraio 2015, in www.plurisonline.it, secondo cui la deposizione de relato ex parte actoris può “assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata da circostanze oggettive e soggettive ad essa intrinseche o da risultanze probatorie acquisite al processo che concorrano a confortarne la credibilità”; Trib. Foggia, 18 ottobre 2011, in www.leggiditaliaprofessionale.it; Trib. Roma, 13 maggio 2008, in Lav. nella Giur., 2009, 278; Trib. Ivrea, 26 febbraio 2008, in Foro It., 2008, I, 2695; Trib. Civitavecchia, 20 luglio 2006, in www.professionisti24.ilsole24ore.com, che condiziona il valore indiziario all’“adeguata consistenza” del riscontro; Cass., 19 maggio 2006, n. 11844, in C.E.D. Cass., rv. 589391.

A sostegno di tale posizione milita il rilievo della sostanziale impossibilità, in talune circostanze, di provare il fatto costitutivo con mezzi diversi dall’audizione del teste de relato ex parte actoris, e ciò in particolare nell’ambito dei procedimento aventi ad oggetto il diritto di famiglia: si pensi alla prova della mancata consumazione del matrimonio ai fini di cui all’art. 3 della L. n. 898 del 1970 (Trib. Novara, 27 novembre 2009, in www.novaraius.it) o al sopravvenuto rifiuto di intrattenere rapporti sessuali in corso di coniugio (Cass., 8 febbraio 2006, n. 2815, in Mass. Giur. It., 2006). In dottrina, la stessa esigenza è avvertita da Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 574 s. in riferimento ai casi in cui i fatti su cui il testimone è chiamato a riferire siano “insuscettibili ex se di una percezione diretta, ad opera di terzi, o persino di un’indagine tecnica disposta ad hoc dal giudice” e da Filippis, Nullità dei matrimoni e Tribunali ecclesiastici, Padova, 2010, 242, secondo cui, allorché si tratti di stati soggettivi, “l’unico mezzo attraverso il quale essi possono divenire conoscibili consiste proprio nelle dichiarazioni della parte e, quindi, dei soggetti che le hanno ascoltate in epoche precedenti rispetto al giudizio”.

Si segnala infine, ancora con riferimento alla valutazione della dichiarazione de relato, che la Cassazione ha recentemente statuito che “quel che infirma una testimonianza de relato non è la possibilità astratta che il terzo abbia mentito, ma l’esistenza di concreti elementi oggettivi dai quali desumere la falsità delle dichiarazioni riferite”: in tal senso Cass., 24 settembre 2015, n. 18896, in www.ilcaso.it. Sulla base di questo principio, la Suprema Corte ha censurato la sentenza nella parte in cui aveva negato valore probatorio non solo alla testimonianza de relato, ma anche ad altra testimonianza in quanto il teste non aveva riferito la fonte di quanto dichiarato in sede testimoniale.

La Corte di cassazione ha ribadito che il giudice del merito non è un “mero registratore passivo” di quanto dichiarato dal testimone, bensì un soggetto “attivo e partecipe dell’escussione testimoniale”, al quale l’ordinamento attribuisce due poteri-doveri: il sondaggio “con zelo” dell’attendibilità del testimone, e, in secondo luogo, l’acquisizione da parte del testimone “vuoi con le domande di chiarimento, vuoi incalzandolo, vuoi contestandogli contraddizioni tra quanto dichiarato ed altre prove già raccolte”) di “tutte le informazioni ritenute indispensabili per una giusta decisione”.

Sul piano generale, con l’ancor più recente sentenza 16 ottobre 2015, n. 20929, in www.dejure.it, la Cassazione ha esteso i medesimi criteri valutativi all’apprezzamento della testimonianza diretta, precisando che al giudice del merito è precluso ritenere lacunosa una prova testimoniale perché carente su circostanze non capitolate, e sulle quali nessuno (ivi compreso lo stesso giudice in udienza, a chiarimento dei fatti appena dichiarati, o tramite riconvocazione ex art. 257 c.p.c.) ha chiesto al testimone di riferire.

box_eclegal_nuova_programmazione_appello.jpg