10 Luglio 2018

La revocazione dei provvedimenti della Cassazione alla luce della L. 197/2016 e delle più recenti pronunce di legittimità

di Piervito Bonifacio Scarica in PDF
  1. Profili generali

La disciplina della revocazione dei provvedimenti della Corte di Cassazione presenta, sotto molteplici profili, delle peculiarità che la distinguono dalla disciplina generale di cui agli articoli 395 e ss. c.p.c. e ne giustificano una trattazione autonoma.

La revocazione viene tradizionalmente configurata come un mezzo d’impugnazione a carattere eccezionale (Mandrioli-Carratta, Diritto Processuale Civile, II, Torino 2017, 629) che risponderebbe all’esigenza di porre rimedio ai casi in cui un giudizio si manifesti affetto da circostanze patologiche che ne hanno turbato il regolare corso in modo talmente radicale da deviarlo verso risultati ingiusti e da far presumere che, in assenza delle ragioni di turbativa, l’esito sarebbe stato diverso. In questi casi, eccezionalmente l’ordinamento può consentire che il bisogno di giustizia prevalga su quello di stabilità della decisione (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino 2017, 617).

La revocazione, per come delineata dall’art. 395 c.p.c., costituisce un mezzo di impugnazione a critica vincolata, esperibile soltanto in presenza dei vizi tassativamente indicati dal legislatore, i quali si distinguono in vizi occulti (quelli di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6), che, in quanto non rilevabili sulla base della sola sentenza, sono denunciabili anche dopo il passaggio in giudicato (e fondano, pertanto, una revocazione straordinaria), e vizi palesi (quelli di cui ai numeri 4 e 5), i quali, in quanto rilevabili sulla base della sentenza, non possono più essere fatti valere se non denunciati entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza o, in mancanza, entro sei mesi dalla pubblicazione della stessa (e fondano, dunque, una revocazione ordinaria).

Nell’identificare i provvedimenti impugnabili per revocazione, l’art. 395 c.p.c. fa riferimento esclusivamente alle sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado, non anche alle sentenze o agli altri provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione, la cui revocabilità era originariamente esclusa dal codice. La revocazione per errore di fatto delle pronunce della Cassazione è stata ammessa soltanto con l’introduzione dell’art. 391 bis c.p.c. (per mezzo della l. n. 353/1990), cui ha fatto seguito l’introduzione (per mezzo del d.lgs. 40/2006) dell’art. 391 ter c.p.c., con cui si è ammessa la revocazione anche per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., ma solo limitatamente ai provvedimenti con cui la Cassazione ha deciso la causa nel merito.

È stata così delineata una specifica disciplina della revocazione delle pronunce della Suprema Corte, che il legislatore ha più volte rimaneggiato, con interventi non sempre organici, l’ultimo dei quali è ascrivibile alla l. n. 197/2016. All’esito di questa evoluzione normativa (in relazione alla quale si rinvia a Cossignani, L’art. 391 bis c.p.c. di riforma in riforma, in Giur. it., 2018, 772 ss.) risulta attualmente un quadro articolato e complesso che viene qui esaminato sotto tre profili: provvedimenti impugnabili, motivi di revocazione e procedimento.

  1. Provvedimenti impugnabili

L’art. 391 bis c.p.c., nella sua attuale formulazione, individua i provvedimenti revocabili nella «sentenza o ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione» che risulti affetta «da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, numero 4». La revocazione per errore di fatto, pertanto, è ormai ammessa contro tutte le sentenze e ordinanze della Cassazione, senza altra specificazione (con il superamento delle lacune generate dalle precedenti formulazioni della norma, rispetto alle quali si rinvia a Cossignani, L’art. 391-bis c.p.c., cit., 803 e Consolo, Spiegazioni, cit., 631). Devono, invece, ritenersi esclusi dal novero dei provvedimenti impugnabili ai sensi di tale norma, poiché non aventi forma di sentenza o ordinanza, i decreti di estinzione di cui all’art. 391 c.p.c. D’altronde, la Suprema Corte, già prima della l. n. 197/2016, si era più volte espressa nel senso che contro il decreto di estinzione non è ammessa la revocazione ex art. 391 bis c.p.c., ma è prevista soltanto la possibilità di proporre un’istanza di fissazione dell’udienza collegiale per la trattazione del ricorso nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto (Cass., sez. VI, 6 aprile 2016, n. 6607, Cass., sez. V, 7 agosto 2015, n. 16625, Cass., sez. un., 23 settembre 2014, n. 19980).

L’art. 391 ter c.p.c., invece, nel disciplinare la revocazione per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., fa genericamente riferimento al «provvedimento con il quale la Corte ha deciso la causa nel merito», a prescindere, dunque, dalla forma che esso abbia in concreto assunto.

Non rientrano tra i provvedimenti impugnabili per revocazione tutte le sentenze e le ordinanze che la Corte abbia già emesso all’esito di un primo giudizio di revocazione. Tale esclusione deriva dal divieto sancito dall’art. 403 c.p.c., secondo cui «non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione», nonché dal costante orientamento di legittimità secondo cui le pronunce emessa dalla Cassazione «nel giudizio di revocazione non sono suscettibili di una nuova impugnazione per revocazione, essendo esauriti i mezzi di impugnazione ordinari, a norma dell’art. 403 c.p.c., comma 1» (Cass., sez. I, 4 settembre 2017, n. 20724; Cass., sez. II, 18 ottobre 2016, n. 21019; Cass., sez. lav., 6 marzo 2014, n. 5294; per una critica di tale orientamento e per i dubbi di legittimità costituzionale che esso suscita si veda C. Consolo, La revocazione delle decisioni della Cassazione e la formazione del giudicato, Padova 1989, 134 ss.).

Un’ulteriore esclusione potrebbe, infine, riguardare le pronunce di cassazione con rinvio, alla luce dell’orientamento secondo cui «è inammissibile il ricorso per cassazione per revocazione proposto, ai sensi degli articoli 395, n. 4, e 391 bis c.p.c., avverso la sentenza con la quale la decisione di merito sia stata cassata con rinvio, potendo ogni eventuale errore revocatorio essere fatto valere nel giudizio di riassunzione» (Cass., sez. VI, 12 ottobre 2015, n. 20393; Cass., sez. lav., 25 luglio 2011, n. 16184). Tale orientamento, considerato da una parte della dottrina «fortemente manipolativo» e «scarsamente condivisibile» (Ricci, Il giudizio civile di cassazione, Torino 2016, 697) è stato rimesso in discussione da una recente ordinanza che ha limitato l’inammissibilità al solo caso in cui l’errore revocatorio enunciato abbia portato all’omesso esame di eccezioni, questioni o tesi difensive che possano costituire oggetto di una nuova, libera ed autonoma valutazione da parte del giudice del rinvio (Cass., sez. VI, 17 maggio 2018, n. 12046).

  1. Motivi di revocazione

La revocazione può, dunque, essere proposta, per errore di fatto, contro tutte le sentenze ed ordinanze pronunciate dalla Cassazione; per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., soltanto avverso i provvedimenti con cui la Corte abbia deciso la causa nel merito. Secondo il consolidato orientamento di legittimità, è invece inammissibile la revocazione proposta ai sensi dell’art. 395, n. 5, c.p.c., trattandosi di motivo di revocazione non contemplato dalla disciplina positiva e non essendo possibile pervenire, nemmeno in via interpretativa, ad una diversa soluzione per le sentenze che abbiano deciso nel merito (Cass., sez. un., 23 novembre 2015, n. 23833; Cass., sez. un., 18 luglio 2013, n. 17557).

Quanto alla revocazione per errore di fatto (sulla quale si rinviene la più ampia casistica), nella giurisprudenza di legittimità è costante l’affermazione secondo cui l’errore di fatto «riguarda solo l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, non potendosi far rientrare nella previsione il vizio che, nascendo da una falsa percezione di norme che contempli la rilevanza giuridica di questi stessi fatti, integri gli estremi dell’error iuris, sia che attenga ad obliterazione delle norme medesime, riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione, sia che si concreti nella distorsione della loro effettiva portata, riconducibile all’ipotesi della violazione. Resta, quindi, esclusa dall’area del vizio revocatorio la sindacabilità di errori formatisi sulla base di una pretesa errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perché siffatto tipo di errore, se fondato, costituirebbe un errore di giudizio, e non un errore di fatto» (Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30996). Non costituisce, dunque, causa di revocazione della pronuncia della Cassazione «l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione» (Cass., sez. un., 11 aprile 2018, n. 8984) ed anzi il ricorrente che prospetti come vizio revocatorio un preteso error in iudicando potrebbe anche essere condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. (Cass., sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2040).

L’errore di fatto, poi, deve riguardare gli “atti interni” del giudizio di legittimità, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili di ufficio (Cass., sez. lav., 18 febbraio 2014, n. 3820), e deve dar luogo ad un indiscutibile contrasto tra quanto rappresentato nella pronuncia impugnata e le oggettive risultanze degli atti processuali, con la conseguenza che l’impugnazione è inammissibile qualora, per dimostrare l’errore, sia necessario produrre documenti nuovi (Cass., sez. VI, 3 maggio 2018, n. 10469).

Dovendo derivare l’errore revocatorio da un’erronea percezione e non da un’erronea valutazione, non può configurarsi come tale l’errata valutazione del contenuto degli atti di parte o della motivazione della sentenza impugnata (Cass., sez. VI, 27 aprile 2018, n. 10184), né l’errata valutazione di uno dei motivi del ricorso (Cass., sez. VI, 15 febbraio 2018, n. 3760), ma soltanto l’omesso esame di uno dei motivi nell’erronea supposizione della sua inesistenza (Cass., sez. III, 4 agosto 2017, n. 19510). Allo stesso modo è idonea ad integrare errore revocatorio l’omessa percezione di questioni sulle quali il giudice d’appello non si è pronunciato in quanto ritenute, anche implicitamente, assorbite (Cass., sez. lav., 30 marzo 2018, n. 7988).

Dall’analisi dei motivi di revocazione emerge chiaramente che soltanto una parte dei vizi che si verificano nel giudizio di legittimità potranno essere soppressi mediante il rimedio revocatorio. La dottrina, pertanto, ha, a più riprese, sottolineato le «carenze del sistema» (Ricci, Il giudizio, cit., 690 ss.), manifestando la propria preoccupazione soprattutto in relazione ai casi di violazione del contraddittorio che, nel giudizio di cassazione, sono spesso destinati a rimanere senza rimedio. La Suprema Corte non sempre è rimasta estranea a queste preoccupazioni e, talvolta, ha forzato l’interpretazione dell’art. 391 bis c.p.c., come nel caso di due recenti pronunce (Cass., sez. V, 12 gennaio 2018, n. 602; Cass., sez. V, 12 gennaio 2018, n. 603), con cui la Corte ha ritenuto deducibile «come causa di errore revocatorio l’omesso avviso di fissazione dell’udienza o della camera di consiglio a tutte le parti costituite, quale fatto incontestabilmente mai avvenuto, ma non anche l’assunta nullità dello stesso, essendo in tal caso configurabile la denuncia di errore di diritto» (contra Cass., sez. VI, 20 novembre 2015, n. 23832).

Un’ulteriore questione riguarda la natura della revocazione proposta ex art. 391 bis c.p.c. La tesi, prospettata da una parte della dottrina, secondo cui la revocazione delle pronunce della Cassazione avrebbe natura straordinaria anche nei casi di errore di fatto (Consolo, La revocazione, cit., 204 ss.) è stata confermata dall’art. 391 bis c.p.c., che, al penultimo comma, ha sancito che «la pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di Cassazione non impedisce il passaggio il giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto», oltre che dalla giurisprudenza successiva (ex multis, Cass., sez. VI, 17 settembre 2015, n. 18301). La questione, tuttavia, potrebbe ora riaprirsi a seguito della “scomparsa” (conseguente alla l. n. 197/2016) di tale comma (“scomparsa” che, però, potrebbe essere imputabile ad un mero errore tipografico; si veda al riguardo Finocchiaro, La revocazione delle sentenze della Cassazione e il tipografo legislatore seriale: il caso dell’art. 391 bis c.p.c., in Quotidiano Giuridico, 14 novembre 2016).

  1. Il procedimento

La revocazione per errore di fatto va proposta «entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento». Prima della l. 197/2016, invece, l’art. 391-bis c.p.c. sanciva un termine lungo annuale che la Cassazione, data la discrasia rispetto al termine lungo semestrale generalmente previsto dall’art. 327 c.p.c. (come modificato dalla l. 69/2009), aveva considerato di carattere eccezionale, ex art. 14 delle preleggi (Cass., sez. VI, 31 marzo 2016, n. 6308). Nel caso di controversie in materia di lavoro e previdenza, poi, la sospensione feriale dei termini va esclusa dal computo del termine lungo per la proposizione del ricorso (Cass., sez. lav., 10 ottobre 2017, n. 23698).

Quanto ai casi di revocazione di cui all’art. 391 ter c.p.c., tale norma non sancisce alcun termine, ma si ritiene che il ricorso debba essere proposto entro sessanta giorni dalla scoperta del vizio.

Il ricorso per revocazione deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura speciale, non essendo utilizzabile quella rilasciata per il precedente ricorso per cassazione (Cass., sez. I, 31 luglio 2015, n. 16224) e deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione del motivo di revocazione, prescritto dall’art. 398, co. 2, c.p.c. (nonché, nei casi di cui all’art. 391 ter c.p.c., le prove relative alla scoperta del vizio) e l’esposizione dei fatti di causa rilevanti per la decisione revocatoria, non essendo necessaria l’esposizione dei fatti di cui all’originario ricorso per cassazione, né la riproposizione dei relativi motivi (Cass., sez. un., 6 luglio 2015, n. 13863; Cass., sez. VI, 17 novembre 2015, n. 23528; Cass., sez. un., 20 novembre 2003, n. 17631). Anche il ricorso per revocazione deve rispettare il principio di autosufficienza (Cass., sez. VI, 25 agosto 2015, n. 17136) ed è improcedibile se, unitamente allo stesso, non viene depositata copia autentica della sentenza (Cass., sez. VI, 7 febbraio 2017, n. 3268).

L’ultimo comma dell’art. 391 bis c.p.c. stabilisce che «in caso di impugnazione della sentenza della Corte di cassazione non è ammessa la sospensione dell’esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo». Ma, discostandosi dalla dottrina prevalente, la Suprema Corte ha ammesso la sospensione dell’esecuzione delle sentenze con cui la Cassazione ha deciso nel merito ai sensi dell’art. 384, co. 2, c.p.c. (Cass., sez. VI, 17 settembre 2015, n. 18300, in Giur. It., 2015, 2618, con note di Marcheselli e di G. Ricci).

Quanto al procedimento, l’art. 391 bis c.p.c. stabilisce che la Corte «sul ricorso per revocazione pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza» e che « anche per le ipotesi regolate dall’art. 391 ter, la Corte pronuncia nell’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 380 bis, primo e secondo comma, se ritiene l’inammissibilità, altrimenti rinvia alla pubblica udienza della sezione semplice». Dal coordinamento dell’art. 391 bis con l’art. 380 bis c.p.c. si desume che il procedimento (come, peraltro, già avveniva prima della riforma del 2016) assume carattere bifasico, in quanto caratterizzato da una prima, immancabile, fase camerale, cui può far seguito, eventualmente, la pubblica udienza. In particolare: il ricorso viene assegnato, ex art. 376 c.p.c., all’«apposita sezione» sesta; il presidente, ex art. 380 bis c.p.c., fissa con decreto l’adunanza in camera di consiglio; almeno venti giorni prima dell’adunanza, il decreto è notificato agli avvocati delle parti che hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima. All’esito dell’adunanza, se riscontra un’ipotesi di inammissibilità, la sezione sesta dichiara il ricorso inammissibile con ordinanza, altrimenti, rinvia alla pubblica udienza dinnanzi alla sezione semplice.

Anche a seguito della riforma del 2016, tuttavia, sembrerebbe applicabile l’orientamento secondo cui la fissazione della trattazione del ricorso direttamente in udienza pubblica anziché in camera di consiglio «è pienamente legittima, in quanto non determina alcun pregiudizio ai diritti di azione e difesa delle parti», che risultano così maggiormente garantiti (Cass., sez. lav., 16 maggio 2017, n. 12088). Anzi, in una recente pronuncia, la Corte ha addirittura affermato – con un’evidente forzatura del dato testuale – che per la fase camerale si deve seguire non già il procedimento delineato dall’art. 380 bis c.p.c., ma il procedimento delineato dall’art. 380 bis.1, proprio in considerazione della «maggiore articolazione del contraddittorio», consentita da questo secondo procedimento (Cass., sez. II, 25 luglio 2017, n. 18278; sebbene, in realtà, secondo Carratta, La riforma del giudizio civile in Cassazione, in Giur. it, 2018, 776, non si riesce a comprendere in cosa si estrinsechi concretamente tale “maggiore articolazione del contraddittorio”).

Nel caso, poi, di revocazione delle pronunce delle Sezioni Unite, potranno essere direttamente queste ultime a procedere alla decisione seguendo il rito camerale previsto per l’ammissibilità della revocazione, di cui al combinato disposto del novellato art. 380 bis e dell’art. 391 bis c.p.c. (Cass., sez. un., 11 aprile 2018, n. 8984).

Ovviamente, se il ricorso per revocazione risulta ammissibile e viene ritenuto fondato, la Corte, pronunciata la revocazione, procede al giudizio rescissorio, decidendo il ricorso oggetto della decisione revocata, in virtù di un nuovo esame che prescinde dalle rationes decidendi della sentenza revocata (Cass., sez. VI, 16 maggio 2017, n. 12215). Nel caso in cui, per la decisione si rendano necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte pronuncia la revocazione e rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata.

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