27 Aprile 2022

Individuazione di parti comuni dell’edificio

di Francesco Luppino, Dottore in legge e cultore della materia di diritto privato presso l'Università degli Studi di Bologna Scarica in PDF

Cassazione civile, sez. II, sentenza 8.09.2021 n. 24189. Presidente P. D’Ascola – Estensore A. Scarpa

Massima:In tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come i cortili, risultanti dall’art. 1117 c.c. non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari. (Nella specie la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva omesso di accertare, attraverso l’individuazione e la verifica dell’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà, se l’obiettiva destinazione primaria del cortile oggetto del giudizio fosse o meno volta al servizio esclusivo di una delle unità immobiliari ivi prospicienti).

CASO

La vicenda processuale in commento riguarda una controversia insorta tra alcuni condomini di un complesso condominiale situato in Venezia ed una società a responsabilità limitata proprietaria di un ristorante ubicato in un immobile ad esso adiacente ed il suo rappresentante nonché socio unico. L’oggetto della lite riguarda l’uso di una corte interna posta al centro dell’edificio condominiale da parte del predetto ristorante, uso che i condomini ritengono essere illegittimo, nonché lesivo delle loro sfere giuridiche.

Il Tribunale condannava la società proprietaria del ristorante e il suo unico socio a cessare qualsiasi utilizzo della corte interna posta al centro dell’edificio del condominio situato in Venezia a servizio del fondo finitimo adibito a ristorante, nonché a rimuovere la caldaia e gli accessori ivi collocati, a chiudere la porta di accesso alla corte dal locale ristorante, a cessare le immissioni provenienti dalla cappa di aspirazione della cucina del ristorante ed al pagamento di una somma di € 10.000,00 oltre interessi compensativi, a titolo di rimborsi e danni.

Successivamente i soccombenti impugnavano nei termini di legge la pronuncia del giudice di primo grado, ma si vedevano rigettare il gravame dalla Corte d’Appello di Venezia che contestualmente riconosceva la legittimazione passiva del socio unico e rappresentante della predetta s.r.l., in ordine alle domande attinenti all’uso illegittimo della corte interna. In sostanza, rispetto alla questione sostenuta in appello dalla s.r.l. e dal suo rappresentante circa la sussistenza in capo ai medesimi del diritto di condominio della corte interna, dal momento che anche tale società era condomina, giacché proprietaria di un magazzino e di un appartamento situati nel medesimo complesso condominiale, i giudici della corte territoriale ritenevano che il fondo confinante su cui insisteva il ristorante non era parte del condominio e che il cortiletto oggetto di lite non fosse mai pervenuto al dante causa della società appellante.

In particolare, la Corte d’Appello di Venezia affermava che l’uso del cortile spettava esclusivamente alle unità immobiliari del condominio essendo illegittima la destinazione al servizio dell’immobile confinante, nonché sede del ristorante, poiché in tal modo si determinava la costituzione di una servitù in favore di un bene estraneo al condominio stesso. D’altronde, l’uso solo parziale del cortile era già stato concesso dal condominio al socio unico e rappresentante della s.r.l., con apposito contratto di locazione risalente a molti anni prima, in cui subentrava in un secondo momento la società appellante. La corte territoriale smentiva anche la possibilità che il cortile fosse stato col tempo usucapito, confermando la sussistenza di un uso illegittimo della corte e accertando le immissioni rumorose eccedenti la normale soglia di tollerabilità e la congruità dei danni liquidati dal giudice di primo grado.

La S.r.l. e il suo socio unico ricorrevano in Cassazione, resistevano con controricorso alcuni condomini.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24189 del 8.09.2022, ha accolto parzialmente il ricorso, più precisamente il primo ed il secondo motivo dello stesso, dichiarando assorbito il terzo motivo e rigettando il quarto, cassando con rinvio la sentenza impugnata. Pertanto, gli ermellini hanno rinviato la causa, anche in relazione alle spese dello stesso giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione, la quale dovrà riesaminare la stessa tenendo conto dei rilievi svolti ed uniformandosi ai principi di diritto enunciati in sede di legittimità.

QUESTIONI

Come si è avuto modo di anticipare, la controversia oggetto della sentenza in commento riguarda l’utilizzo, illegittimo secondo alcuni condomini, della corte interna al complesso condominiale da parte di un ristorante situato nel medesimo stabile, e la possibilità o meno che tale spazio fosse stato col tempo usucapito dalla società proprietaria del ristorante. La fattispecie appare del tutto peculiare visto che il condominio sembra sorto nella vigenza del Codice civile del Regno d’Italia del 1865, anche in ragione del fatto che i ricorrenti hanno prodotto un atto di compravendita risalente al 1925 allorquando il Codice civile Pisanelli era ancora in vigore. Pertanto, gli Ermellini hanno dovuto anche valutare quali norme potevano essere applicate all’epoca di acquisto dell’immobile in relazione a quelle attuali, giungendo a precisare che alla vertenza risulta comunque applicabile il fondamentale articolo 1117[1] dell’odierno Codice civile del ’42 disciplinante la cosiddetta “presunzione di condominialità”, termine estremamente diffuso nella giurisprudenza di legittimità, nonostante la nota pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 1993[2]. D’altronde, anche secondo l’interpretazione dell’articolo 562 del vecchio Codice civile del Regno d’Italia, se i diversi titoli di proprietà non stabilivano alcunché, dovevano presumersi di proprietà comune tutte le entità strutturali e le parti di un edificio in condominio, che fossero destinate all’uso comune.

  1. I giudici del Supremo Collegio hanno dovuto inizialmente esaminare, in via pregiudiziale, la possibile nullità della sentenza impugnata, dedotta dal pubblico ministero nelle conclusioni da lui motivate, perché realizzata mediante «assemblaggio dello “svolgimento del processo” dattiloscritto e dei “motivi della decisione” costituiti dalla minuta redatta a penna dall’estensore», con una grafia non facilmente leggibile, propendendo per la non rilevabilità della stessa. Infatti, già in una precedente pronuncia del 2010, riguardante un caso sotto questo punto di vista analogo a quello della sentenza in comento[3], i giudici della medesima Corte avevano affermato che, mancando un’espressa comminatoria, «non è configurabile nullità della sentenza nell’ipotesi di mera difficoltà di comprensione del testo stilato dall’estensore con scrittura manuale o di difficile leggibilità, atteso che in tali casi la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità per essa stabiliti. Deve, invece, ritenersi nullo per carenza assoluta della motivazione il provvedimento che non si presenti soltanto di difficile lettura, ma sia addirittura incomprensibile, al punto da richiedere, per la sua decifrazione, una operazione il cui stesso esito è dubbio, poiché, nonostante gli sforzi cui eventualmente si sottoponga il lettore più attento, risulta impossibile avere certezza dell’esatta comprensione del testo»[4]. Inoltre, nonostante la difficoltà nel comprendere il contenuto della sentenza impugnata, gli Ermellini hanno rilevato che il testo della stessa ha comunque consentito alle parti di appurare le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione adottata dai giudici del precedente grado di giudizio.
  2. Gli Ermellini hanno ritenuto di dover esaminare congiuntamente i primi due motivi del ricorso, perché connessi tra loro e fondati.

Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente e il suo socio unico lamentavano la violazione di alcuni fondamentali articoli del codice civile disciplinanti la materia condominiale, ossia il 1102, il 1117 e il 1123 c.c. I ricorrenti invocavano, in virtù dell’atto di compravendita risalente al 1925, del Regolamento ad esso allegato, del Regolamento di Condominio approvato all’unanimità nel 1975 in seguito alle risultanze di una CTU ad esso connessa[5], la sussistenza di un unico edificio, identificato da un solo mappale catastale e da due numeri civici, comprendente per la maggior parte il ristorante, con una corrispondente situazione di condominio parziale della corte interna e del corrispondente diritto spettante alla società ricorrente di fruire del sottosuolo della stessa per lo scarico delle acque mediante fossa settica e impianto fognario e di mantenervi la caldaia e gli altri accessori.

Con il secondo motivo, i ricorrenti deducevano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1117 c.c. A fronte del riconoscimento da parte della sentenza impugnata del diritto di proprietà della società ricorrente su due ulteriori unità immobiliari comprese nel condominio, adibite ad appartamento e magazzino, con il conseguente e connesso diritto di fare uso del cortile condominiale, la corte territoriale decideva oltremodo di condannare i ricorrenti a rimuovere la fossa settica e i relativi impianti.

Ebbene, i giudici di legittimità hanno individuato quale “punto nevralgico” della sentenza impugnata la presa di posizione della corte territoriale circa «l’estraneità al condominio del fondo adibito a ristorante». A tale conclusione pervenivano i giudici della Corte d’Appello di Venezia sulla base dell’analisi dei “documenti già prodotti in prime cure” dai quali era risultato che “il cortiletto in oggetto non fosse mai pervenuto, quale proprietà condominiale” alla s.r.l. proprietaria del ristorante. Secondo la Corte d’Appello, l’uso del cortile spetterebbe, pertanto, esclusivamente alle unità immobiliari facenti parte del complesso condominiale in questione, con conseguente illegittimità della destinazione di tale spazio al servizio dell’immobile confinante sede del ristorante, comportando, altrimenti, la costituzione di una servitù in favore di un bene “estraneo” rispetto al condominio. Da tale presupposto dipenderebbe anche l’inibitoria rivolta ai ricorrenti per non fare più uso del cortile quale «sgombero e servizio igienico del ristorante e a non utilizzare la fossa settica in favore del medesimo fondo confinante», nonché le installazioni della nuova fossa settica, della caldaia e dei relativi accessori.

Preliminarmente i giudici della Cassazione hanno preferito richiamare una consolidata giurisprudenza al fine di definire cosa si intenda per cortile così come da elenco delle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’articolo 1117 c.c. Pertanto, con tale termine si intende «qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, o che abbia anche la sola funzione di consentirne l’accesso»[6]. Invece, con il termine “pozzo luce”, altrimenti denominato cavedìo, chiostrina o vanella, si intende il cortile di piccole dimensioni, circondato per intero dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell’edificio comune, la cui funzione consiste per lo più nel dare aria e luce a locali secondari, quali ad esempio bagni, disimpegni e altri servizi, e soggiace al medesimo regime giuridico previsto per il cortile vero e proprio.

Secondo i giudici di legittimità il fatto che la corte territoriale abbia escluso il diritto di condominio sul cortile in capo alla società proprietaria del ristorante in quanto esso non risultava compreso nel titolo di acquisto del socio unico suo dante causa, consiste in una conclusione errata, a monte della quale si colloca una doppia omessa verifica da parte dei giudici d’appello. Infatti, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione nella ben nota pronuncia a Sezioni Unite del 1993 «l’individuazione delle parti comuni di un condominio edificio, come appunto i cortili, risultanti dall’art. 1117 c.c., non opera con riguardo a cose che, per loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari»[7]. Da ciò deriva la decisività dell’accertamento circa l’obiettiva destinazione primaria del cortile di causa a dare aria, luce ed accesso rivolta al servizio esclusivo delle unità immobiliari comprese nel blocco condominiale delle controricorrenti o, se risulta, anche al servizio dell’altro immobile adibito a ristorante.

Pertanto, come si accennava, al fine di determinare l’applicabilità o meno della disciplina del condominio degli edifici, di cui all’articolo 1117 c.c., al caso di specie, i giudici del merito avrebbero dovuto compiere, «mediante apposito apprezzamento di fatto», una prima verifica avendo riguardo al rapporto corrente fra l’immobile adibito a ristorante e il cortile interno al condominio dei controricorrenti e se tale rapporto concerneva la relazione di accessorietà necessaria che, nel momento in cui veniva ad esistenza il condominio, legava tale spazio aperto alla individuata porzione di proprietà singola. Dunque, una volta accertato che l’applicazione dell’articolo 1117 c.c. sia effettivamente coerente con il caso di specie, la corte territoriale avrebbe dovuto ulteriormente considerare che «tale norma non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria, potendo essere superata soltanto dalle opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali. La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice civile, si attua, infatti, sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto».

In virtù di tale principio affermato dagli Ermellini nella sentenza in commento, i giudici della corte territoriale avrebbero dovuto dirimere la lite senza fare affidamento sul titolo di acquisto del socio unico della s.r.l. e dante causa della stessa, bensì individuando quale punto di partenza l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà, dalla quale si generò la situazione di condominio edilizio. In sostanza, avrebbero dovuto accertare se in tale titolo originario fosse rilevabile una «chiara ed univoca volontà» di riservare esclusivamente alle unità immobiliari comprese nel blocco condominiale dei controricorrenti la proprietà del cortile interno. Altrimenti, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità[8], dal momento in cui sorge la comproprietà delle parti comuni dell’edificio ex articolo 1117 c.c., «per effetto della trascrizione dei singoli atti di acquisto di proprietà esclusiva – i quali comprendono pro quota, senza bisogno di specifica indicazione, le parti comuni – la situazione condominiale è opponibile ai terzi».

  1. Una volta definito il principio di diritto applicabile al caso di specie e dopo aver descritto, per così dire in astratto, il percorso di verifiche che i giudici del merito avrebbero dovuto compiere per dirimere la controversia, i giudici della Corte di Cassazione si spingono oltre, stabilendo anche in concreto quale percorso logico essi dovranno compiere nel caso in cui avessero accertato in positivo ovvero in negativo la sussistenza del nesso di condominialità corrente tra il cortile interno al condominio dei controricorrenti e l’immobile adibito a ristorante.

Pertanto, nel caso in cui dovesse essere accertata la sussistenza del nesso di condominialità l’uso del cortile e dei suoi accessori da parte della società ricorrente sarà regolamentato dalla disciplina del condominio di edifici, la quale presuppone operare la regola della reciprocità. In tal caso, la s.r.l. proprietaria del ristorante «avrebbe diritto a servirsi del cortile, anche collocando impianti fissi o ponendo nel sottosuolo tubature per lo scarico fognario», con le limitazioni imposte dall’articolo 1102 c.c., «ovvero il divieto di alterarne la destinazione e l’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini»[9].

Nell’ipotesi opposta, invece, alla società ricorrente, proprietaria dell’immobile adibito a ristorante, dovrà essere riconosciuto il diritto di fruire del cortile, pur sempre nel rispetto dei dettami dell’articolo 1102 c.c., ma unicamente per i vantaggi connessi alla proprietà dei due ulteriori immobili situati in tale condominio, ossia l’appartamento e il magazzino, rimanendo precluso l’utilizzo di tale corte condominiale a vantaggio dell’immobile limitrofo parimenti appartenente alla società, «in quanto tale utilizzazione darebbe luogo alla costituzione di una servitù a favore di fondo estraneo alla comunione»[10].

  1. Per quanto attiene al terzo motivo di ricorso, gli Ermellini lo hanno ritenuto «necessariamente assorbito» dall’accoglimento dei primi due.

In tale parte del gravame, i ricorrenti avevano, infatti, dedotto la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1158 c.c., lamentando la conferma operata dalla Corte d’Appello circa l’ordine di chiusura della porta di collegamento fra il fondo adibito a ristorante e il cortile condominiale, nonché la decisione in merito all’insussistenza dell’usucapione dell’area cortilizia. Secondo i giudici della Cassazione, l’appurata necessità di riesaminare in un nuovo giudizio di merito se sussiste o meno il diritto di condominio sul cortile interno in favore dell’immobile adibito a ristorante, rende superfluo trattare in sede di legittimità la questione dell’usucapione sopra riportata, anche tenendo in considerazione il fatto che rimane difficile comprendere, in base al contenuto del gravame, se i ricorrenti pretendano di aver acquistato la proprietà esclusiva o la comproprietà della corte, in virtù del possesso continuato da loro esercitato, ovvero una servitù di passaggio in re aliena. Pertanto, tale domanda potrà essere più propriamente trattata una volta che verrà finalmente chiarito, nel giudizio di rinvio, se all’immobile adibito a ristorante spetti o meno il diritto di condominio sul cortile oggetto della controversia.

  1. Infine, con il quarto ed ultimo motivo i ricorrenti lamentavano che il giudice di appello era incorso nel vizio di ultrapetizione, poiché, secondo loro, si era pronunciato oltre i limiti delle richieste e delle eccezioni formulate dalle parti. Nel caso di specie, la locale corte d’appello aveva escluso che l’ordine di cessazione delle immissioni rumorose contenuto nella sentenza di primo grado fosse affetto da ultrapetizione «a fronte della “complessiva domanda iniziale di cessazione di ogni accertanda turbativa”».

Gli Ermellini hanno ritenuto tale ultimo motivo di ricorso infondato. Infatti, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado gli attori avevano domandato la “cessazione di ogni turbativa”, attraverso l’eliminazione di ogni scarico ed immissione di vibrazioni, fumi, rumori e odori che potessero superare la normale tollerabilità all’interno dell’area cortilizia. Infatti, dal contenuto della domanda degli attori, si evince che tali turbative traevano la propria origine in massima parte dalla cucina del ristorante e da essi derivava inesorabilmente un danno alla salute fisica, per la qualità della vita degli abitanti dell’edificio, limitazioni alla possibilità di fruire delle aperture, pregiudizi per i diritti di tutti coloro che in vario modo frequentavano la palazzina nelle zone antistanti la corte, nonché il deprezzamento dei valori degli immobili interessati. In virtù di una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, gli Ermellini hanno ritenuto che il giudice del merito non fosse incorso nel vizio di ultrapetizione ai sensi dell’articolo 112 c.p.c., poiché tale irregolarità si verifica solo nel caso in cui «il giudice attribuisce alla parte un bene non richiesto o un bene maggiore di quello richiesto, e non è perciò ipotizzabile se il giudice accoglie una domanda la quale si può ritenersi comunque implicitamente e virtualmente contenuta nella domanda dedotta in giudizio, e cioè quando, con particolare riguardo al petitum e alla causa petendi, la domanda accolta si trovi in rapporto di stretta connessione con l’oggetto della pretesa che l’attore ha voluto tutelare mediante la formulazione della domanda».

[1] Gli Ermellini hanno inteso precisare che mancando una espressa disposizione transitoria, la disciplina riguardante la comunione e il condominio negli edifici dettata dal precedente Codice del 1865 deve ritenersi abrogata dall’attuale Codice civile vigente, il quale si preoccupa di disciplinare compiutamente tale materia.

[2] Il riferimento è alla sentenza 7.07.1993, n. 7449 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella quale i giudici di legittimità affermavano che «la norma dell’art. 1117 del codice civile stabilendo che: “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo”, le cose in essa elencate nei nn. 1,2 e 3, non ha sancito una presunzione legale di comunione delle stesse, come erroneamente si è affermato in alcune sentenze di questa Corte, ma ha disposto che detti beni sono comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo che può essere costituito o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari o anche dall’usucapione».

[3] Nella specie la S.C. ha escluso che ricorressero gli estremi dell’incomprensibilità del testo autografo della sentenza impugnata, ritenendo il provvedimento, sia pur con un certo sforzo, intellegibile nella sua interezza.

[4] Cass. civ., sez. L, sentenza 14.05.2010, n. 11739.

[5] La CTU aveva descritto il fabbricato come composto da cinque piani, il cui piano terra risulta adibito per la maggior parte a ristorante.

[6] Cass. civ., sez. II, sentenza 15.02.2018, n. 3739; Cass. civ., sez. II, sentenza 2.08.2010, n. 17993; Cass. civ., sez. II, sentenza 30.07.2004, n. 14559; Cass. civ., sez. II, sentenza 29.10.2003, n. 16241.

[7] Cass. civ., S.U., sentenza 7.07.1993, n. 7449.

[8] Cass. civ., sez. II, ordinanza 17.02.2020, n. 3852; Cass. civ., sez. II, sentenza 9.12.1974, n. 4119.

[9] Cass. civ., sez. 6 2, ordinanza 23.05.2017, n. 15705; Cass. civ., sez. II, sentenza 22.09.2015, n. 18661; Cass. civ., sez. II, sentenza 26.02.2007, n. 4386; Cass. civ., sez. II, sentenza 7.07.1978, n. 3405.

[10] Cass. civ., sez. II, sentenza 26.09.2008, n. 24243; Cass. civ., sez. 6 2, ordinanza 25.02.2020, n. 5060.