15 Dicembre 2020

Effetti dell’estinzione dell’espropriazione forzata sulla divisione endoesecutiva

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. VI, 2 ottobre 2020, n. 21218 – Pres. Cosentino – Rel. Criscuolo

Poiché la divisione endoesecutiva, sebbene strumentale alla liquidazione del compendio immobiliare pignorato per la quota indivisa, resta una parentesi cognitiva autonoma, oggettivamente e soggettivamente distinta dalla procedura espropriativa che ne ha cagionato l’introduzione e di cui non costituisce una fase, quanto ivi disposto non viene immediatamente travolto per effetto delle vicende del processo esecutivo e, in caso di sentenza che abbia dichiarato l’estinzione di quest’ultimo, il giudice è legittimato a disporre la sospensione del giudizio di divisione ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., in attesa della definitività di tale sentenza.

CASO

Nell’ambito dell’espropriazione forzata della quota indivisa di un immobile, il processo esecutivo veniva sospeso per dare corso al giudizio di divisione, conclusosi con sentenza che, accertata la non comoda divisibilità del bene, ne disponeva la vendita, cui seguivano l’aggiudicazione e l’emissione dei decreti di trasferimento.

A quel punto, il giudice dell’esecuzione veniva investito della richiesta di declaratoria di estinzione del processo esecutivo, in quanto, dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado nell’ambito del giudizio di divisione, era stato riassunto quest’ultimo, anziché quello di esecuzione.

L’istanza veniva rigettata, così come il successivo reclamo; la Corte d’appello di Ancona, tuttavia, riformava il provvedimento, dichiarando l’estinzione del processo esecutivo.

Veniva, quindi, chiesta l’adozione dei provvedimenti conseguenti a tale pronuncia, ma poiché quest’ultima era stata – nel frattempo – fatta oggetto di ricorso per cassazione, il giudice sospendeva il processo di divisione fino al suo passaggio in giudicato ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c.

L’ordinanza così emessa veniva impugnata con ricorso per regolamento di competenza, lamentandosi che la norma richiamata consente di sospendere il processo quando è invocata l’autorità di una sentenza resa in altro giudizio, mentre quella emessa nel procedimento di divisione endoesecutiva – proprio in quanto tale – appartiene pur sempre al processo esecutivo.

SOLUZIONE

La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, ritenendo che, stanti i rapporti tra espropriazione forzata e divisione endoesecutiva (la quale, pur essendo funzionale alla prima, non ne costituisce una fase, ma rimane una parentesi cognitiva autonoma), il giudice dell’esecuzione avesse correttamente fatto applicazione dell’art. 337, comma 2, c.p.c., anziché degli artt. 336 e 295 c.p.c.

QUESTIONI

L’inquadramento sistematico della divisione che venga disposta nel corso del processo di esecuzione forzata per fare cessare lo stato di comunione e potere disporre la vendita della quota attribuita al debitore esecutato, che rappresenta lo sviluppo normale di ogni procedura espropriativa riguardante un bene in comproprietà, è stato operato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 20817 del 20 agosto 2018.

In tale arresto è stato affermato che il giudizio di divisione endoesecutiva costituisce una parentesi di cognizione nell’ambito dell’esecuzione forzata e, pur ponendosi in rapporto di funzionalità rispetto a essa, assume i connotati di un procedimento incidentale integrante un vero e proprio giudizio di cognizione, autonomo e distinto dal processo di esecuzione, di cui non costituisce né una continuazione, né una fase, sebbene si svolga dinanzi al medesimo giudice dell’esecuzione, nella veste e in funzione di giudice istruttore civile. Sintomatico, da questo punto di vista (anche se – di per sé – non decisivo), è il fatto che il giudizio di divisione deve comunque essere iscritto a ruolo e assume un numero identificativo diverso da quello del processo esecutivo.

Poiché, dunque, il rapporto di funzionalità esistente tra i due giudizi non ne fa venire meno l’autonomia, è giocoforza ritenere, secondo i giudici di legittimità, che le vicende che interessano l’uno non esplicano immediatamente effetti nell’altro.

Nel caso di specie, era stata disposta la sospensione del processo esecutivo per effetto di quanto previsto dall’art. 601 c.p.c.: allorché, trattandosi dell’espropriazione forzata di bene indiviso, non sia possibile la separazione della quota in natura spettante al debitore e il giudice ritenga improbabile che la quota indivisa possa essere venduta a un prezzo pari o superiore al valore della stessa, si deve procedere alla divisione, con conseguente sospensione ex lege dell’esecuzione.

Venuta meno la causa della sospensione, il processo esecutivo deve riprendere il proprio corso: un tanto avviene non già automaticamente, bensì, giusta quanto prevede l’art. 627 c.p.c., mediante la riassunzione su iniziativa della parte interessata, tramite ricorso depositato nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione e, in ogni caso, entro sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza d’appello che rigetta l’opposizione (qualora, evidentemente, si tratti di sospensione disposta ai sensi dell’art. 624 c.p.c.).

La norma dell’art. 627 c.p.c. è espressamente richiamata dall’art. 601 c.p.c., sicché, nel caso di sospensione disposta al fine di dare corso al giudizio di divisione endoesecutiva, dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado emessa nell’ambito dello stesso ovvero – ove questa sia stata impugnata – dalla comunicazione della sentenza di appello, scatta il termine semestrale entro cui dev’essere presentato il ricorso in riassunzione, salvo che, al limite, sia il giudice della causa divisoria a indicare, nella sentenza, il termine per la riassunzione del processo esecutivo sospeso.

Dall’autonomia dei procedimenti (esecutivo e di divisione) discende che la riassunzione dell’uno non produce sull’altro gli effetti previsti dall’art. 627 c.p.c.; di conseguenza, qualora manchi l’atto d’impulso – ovvero di riattivazione – del processo esecutivo, quest’ultimo si estingue, per effetto di quanto stabilito dall’art. 630 c.p.c.

Proprio su queste basi, nella fattispecie esaminata nella sentenza che si annota, era stata chiesta (e, dopo l’iniziale rigetto dell’istanza, dichiarata) l’estinzione del processo esecutivo, avendo il ricorso in riassunzione riguardato il giudizio di divisione endoesecutiva (nel quale era poi avvenuta la vendita del bene di cui era stata originariamente pignorata la quota), anziché il processo di esecuzione.

Stante l’impugnazione della sentenza che tale estinzione aveva dichiarato, il giudice dell’esecuzione, in funzione di giudice del giudizio di divisione – nel cui ambito l’immobile era stato aggiudicato, con conseguente emissione dei decreti di trasferimento – aveva deciso di sospendere il procedimento, in attesa del passaggio in giudicato della pronuncia, avvalendosi della previsione recata dall’art. 337 c.p.c., che, al comma 2, stabilisce che quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza è impugnata.

Alla luce dei delineati rapporti – di funzionalità, da un lato, ma di autonomia, dall’altro lato – tra processo esecutivo e giudizio di divisione endoesecutiva, i giudici di legittimità:

  • hanno escluso l’applicabilità dell’art. 336, comma 2, c.p.c., che estende gli effetti della sentenza agli atti e ai provvedimenti che dalla stessa dipendono, ovvero che trovano in essa il proprio fondamento (cosiddetto effetto espansivo esterno), dovendosi escludere che la vendita disposta in sede di divisione sia atto esecutivo direttamente ricollegabile alla procedura esecutiva di cui era stata dichiarata l’estinzione;

  • hanno escluso, altresì, l’applicabilità dell’art. 295 c.c., dal momento che, fatti salvi i casi nei quali la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica e in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 c.p.c.;

  • hanno, dunque, affermato la correttezza dell’operato del giudice dell’esecuzione, che, ravvisando l’opportunità di attendere l’esito della causa pregiudiziale (ossia la conferma o la cassazione della sentenza che aveva dichiarato l’estinzione del processo esecutivo), aveva sospeso il processo di divisione richiamando proprio l’art. 337, comma 2, c.p.c.

Quanto alle possibili conseguenze della dichiarata estinzione del processo esecutivo sul giudizio di divisione endoesecutivo (nell’ambito del quale era avvenuta la vendita dell’immobile di cui era stata pignorata la quota di proprietà del debitore esecutato), va osservato che, nel caso di specie, erano già intervenuti l’aggiudicazione e l’emissione dei decreti di trasferimento: in ogni caso, dunque, la posizione degli aggiudicatari risulterebbe al riparo dall’eventuale propagazione al giudizio di divisione degli effetti pregiudizievoli ascrivibili all’estinzione del processo esecutivo, se, come sostenuto da alcuni autori, il principio di stabilità della vendita forzata codificato dall’art. 187-bis disp. att. c.p.c. (a mente del quale, una volta intervenuta l’aggiudicazione – anche provvisoria – o l’assegnazione, l’acquisto del terzo è definitivamente fatto salvo anche in caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo) deve trovare applicazione pure nell’ipotesi di vendita avvenuta in sede di divisione incidentale, che partecipa della medesima esigenza di stabilizzare l’acquisto in buona fede del terzo – in funzione della credibilità del sistema delle vendite giudiziali – sottesa alla citata disposizione.