La chiusura dell’esecuzione non determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi
di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. III, 16 gennaio 2025, n. 1042 – Pres. De Stefano – Rel. Guizzi
Esecuzione forzata – Distribuzione del ricavato dalla vendita – Conclusione dell’espropriazione forzata – Opposizione agli atti esecutivi pendente – Cessazione della materia del contendere – Esclusione
Massima: “La circostanza che la procedura esecutiva sia giunta al suo esito naturale, con la distribuzione finale del ricavato, non comporta necessariamente la cessazione della materia del contendere, né la sopravvenuta carenza d’interesse, con riguardo alle parentesi di cognizione che si siano già innestate nel processo esecutivo anche attraverso l’opposizione agli atti esecutivi.”
CASO
Nell’ambito di due procedure esecutive immobiliari riunite, uno degli esecutati, dopo essersi costituito per opporsi alla vendita dei beni staggiti (che, tuttavia, veniva nondimeno disposta dal giudice dell’esecuzione), proponeva sia opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., sia opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.
Respinta l’istanza di sospensione dell’esecuzione e instaurata la fase di merito del giudizio di opposizione, questo si concludeva con la declaratoria di inammissibilità dell’opposizione ex art. 615 c.p.c. e di cessazione della materia del contendere quanto a quella ex art. 617 c.p.c., stante l’intervenuta definizione delle procedure esecutive a seguito della pronuncia del decreto di trasferimento e della distribuzione del ricavato dalla vendita.
Avverso tale seconda statuizione veniva proposto ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, affermando che l’intervenuta definizione della procedura esecutiva in pendenza del giudizio di opposizione agli atti esecutivi, non essendo stata disposta alcuna sospensione ai sensi dell’art. 618 c.p.c., non determina il venire meno dell’interesse dell’opponente alla decisione sull’opposizione proposta, sicché non è predicabile la cessazione della materia del contendere.
QUESTIONI
[1] Il processo esecutivo si caratterizza per la tipicità e la tassatività dei rimedi impugnatori dei quali possono avvalersi le parti, che sono rappresentati:
- dall’opposizione all’esecuzione, diretta a contestare il diritto del creditore di procedere a esecuzione forzata;
- dall’opposizione agli atti esecutivi, attraverso cui vanno proposte le contestazioni inerenti alla regolarità formale (ovvero alla legittimità) degli atti nei quali si articola il processo esecutivo o che ne precedono l’avvio;
- dall’opposizione di terzo, volta a fare rilevare l’illegittimità dell’esecuzione che si svolga in danno di un soggetto – diverso dal debitore – che vanti sul bene pignorato un diritto prevalente sui creditori.
La disciplina del processo esecutivo non consente di proporre opposizioni diverse da quelle tipicamente disciplinate, né di avvalersi di altri strumenti pure previsti dall’ordinamento processuale per mettere in discussione il processo esecutivo medesimo o gli esiti dello stesso, a salvaguardia dell’affidamento qualificato che i soggetti che vi prendono parte legittimamente nutrono.
È per questo motivo che, con l’ordinanza che si annota, è stato affermato che chi abbia ritualmente impugnato ai sensi dell’art. 617 c.p.c. un atto del processo di esecuzione forzata, che sia nondimeno proseguita e si sia conclusa nelle more della fase di merito dell’opposizione, mantiene intatto il proprio interesse alla decisione, alla quale il giudice non può dunque sottrarsi, dichiarando cessata la materia del contendere.
È pur vero, infatti, che, con la distribuzione del ricavato dalla vendita dei beni pignorati che non sia stata vittoriosamente opposta, il processo esecutivo si chiude e i pagamenti eseguiti ai creditori restano intangibili; tuttavia, la parte che, nel corso dell’esecuzione, abbia spiegato un’opposizione tendente a determinare la rinnovazione di uno o più atti del processo o l’arresto definitivo dello stesso, conserva il proprio interesse a ottenere una decisione, trattandosi dell’unico strumento a sua disposizione per reagire alle eventuali illegittimità commesse e fare valere, così, i suoi diritti.
La giurisprudenza, infatti, è granitica nell’affermare due principi, che, ricavati dalla stessa morfologia del processo di esecuzione forzata, costituiscono diritto vivente:
- da un lato, non è ammessa l’attivazione di strumenti processuali da azionare al di fuori del processo esecutivo per dolersi di un pregiudizio subito nell’ambito dello stesso, dovendo la parte avvalersi dei rimedi all’uopo predisposti dall’ordinamento (vale a dire, delle opposizioni esecutive), salvo che ricorrano specifiche circostanze che lo abbiano reso concretamente impossibile;
- dall’altro lato, il diritto – tutelato dall’art. 24 Cost. – alla tutela giurisdizionale esclude che dalla conclusione della procedura esecutiva possa farsi discendere la superfluità della decisione sull’opposizione ritualmente proposta, giacché ciò significherebbe fare dipendere la sorte e l’esito del giudizio di merito dalla decisione assunta dal giudice dell’esecuzione, nella fase sommaria dell’opposizione deputata a svolgersi innanzi a lui, in merito alla sospensione o meno della procedura, accordandogli un potere addirittura esorbitante rispetto a quello del giudice della cognizione.
Dal combinato disposto di questi principi emerge che, quand’anche l’esecuzione, nelle more del giudizio di merito dell’opposizione, sia stata definita, l’opponente ha interesse alla decisione, dal momento che, se a lui favorevole, gli consentirà di neutralizzare gli effetti che da tale definizione sono derivati, attraverso l’esercizio delle opportune azioni, a questo punto necessariamente svolte al di fuori del processo esecutivo, essendosi questo già concluso; salvo che, come recentemente affermato (si veda, in particolare, Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2023, n. 32146), l’accoglimento dell’opposizione formale possa addirittura comportare la riapertura della procedura proseguita fino alla sua definizione, in quanto sia stato riconosciuto non solo che l’atto attinto dall’opposizione era viziato, ma pure che la nullità che lo colpiva ha determinato uno sviluppo anomalo e illegittimo del processo e una altrettanto anomala e illegittima conclusione di esso.
Solo proponendo ritualmente l’opposizione e coltivandola con successo, l’opponente può legittimamente aspirare a vedere tutelati i propri diritti, vuoi all’interno del processo esecutivo (qualora questo sia stato nel frattempo sospeso, in attesa dell’esito del giudizio di opposizione, oppure quando si sia riaperto con efficacia ex tunc, quando ciò sia possibile), vuoi all’esterno di esso: sotto questo secondo profilo, sulla scorta dei principi innanzi riportati, ben si comprende come solo in quanto abbia tempestivamente opposto l’atto illegittimo, azionando il rimedio all’uopo previsto, l’interessato che abbia alfine visto accolta la propria domanda potrà promuovere le ordinarie azioni recuperatorie o ripristinatorie, altrimenti preclusegli, dal momento che determinerebbero in modo surrettizio lo stravolgimento degli esiti del processo esecutivo, minandone la stabilità.
D’altra parte, l’estensione del campo di applicazione dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. a ogni atto che implichi lo sviluppo del processo esecutivo fino alla sua definizione impone di ammetterne l’utile esperimento soprattutto quando sia rivolto a incidere proprio su tali aspetti, per consentire la neutralizzazione degli effetti dell’atto di cui sia stata tempestivamente censurata e giudizialmente accertata l’illegittimità, onde garantire l’effettività della tutela dei soggetti coinvolti nel processo di esecuzione forzata.
In definitiva, il giudice della fase di merito dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. non può dichiarare cessata la materia del contendere per il semplice fatto che, nonostante la tempestiva impugnazione dell’atto viziato e mercè la mancata sospensione vuoi della sua esecuzione, vuoi del processo esecutivo, si siano prodotti gli effetti allo stesso ricollegati, nemmeno nel caso in cui l’esecuzione si sia nel frattempo definita, perché la pronuncia in rito precluderebbe all’opponente di conseguire una qualsivoglia tutela, proprio per il fatto di non disporre di una pronuncia che attesti la fondatezza delle ragioni addotte a sostegno dell’opposizione e la conseguente illegittimità dell’atto impugnato.
Non si tratta, dunque, di effettuare una delibazione finalizzata unicamente alla regolamentazione delle spese del giudizio di opposizione, sulla scorta del criterio di soccombenza virtuale, ma di un vero e proprio dovere del giudice di pronunciarsi sul merito, onde munire l’opponente di una sentenza che gli consenta di coltivare – all’interno del processo esecutivo ancora pendente o eventualmente riaperto, ovvero, qualora ciò non fosse possibile, all’esterno di esso – le proprie ragioni e ricevere, così, concreta ed effettiva tutela dei diritti a salvaguardia dei quali era stata promossa l’opposizione.
Del resto, se si pensa che, anche nel caso in cui sia stata proposta opposizione avverso il precetto e sebbene la decorrenza del termine di efficacia dello stesso resti sospesa ai sensi dell’art. 481, comma 2, c.p.c., il creditore può nondimeno avviare e coltivare l’azione esecutiva, ma a suo rischio e pericolo, dal momento che, in caso di accoglimento dell’opposizione, resterà esposto alla responsabilità per i danni provocati dall’ingiustizia dell’esecuzione nel frattempo accertata, è evidente che il principio affermato con l’ordinanza annotata si iscrive coerentemente all’interno di una disciplina che, nel tutelare precipuamente il ceto creditorio, che ha tutto l’interesse alla speditezza del processo esecutivo affinché le proprie ragioni possano trovare concreta soddisfazione, non può certo frustrare le legittime aspettative dell’esecutato a non vedere indebitamente e ingiustamente sacrificati i propri diritti.
Restano ferme, nel contempo, le tutele apprestate in favore di chi (come l’aggiudicatario) del processo esecutivo non è parte e che, per tale motivo, beneficia della neutralità, nei suoi confronti, sia delle nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione, ai sensi dell’art. 2929 c.c. (salvo che sia riscontrata la sua collusione con il creditore procedente), sia delle cause di estinzione o di chiusura anticipata dell’esecuzione avvenuta dopo l’aggiudicazione, anche provvisoria, o dell’assegnazione, ai sensi dell’art. 187-bis disp. att. c.p.c.
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