19 Marzo 2024

Concordato preventivo in continuità aziendale: presupposti applicativi

di Giulio Marconcin, Avvocato Scarica in PDF

Cassaz., 15 giugno 2023, n. 17092 – Pres. F.A. Genovese – Rel. L. Abete – Est. R. Amatore

Parole chiave: Concordato preventivo – Esecuzione – Concordato preventivo in continuità aziendale – Componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale – Rilevanza – Eventuale modificazione di una parte dell’attività produttiva – Ininfluenza

Massima: “Il concordato preventivo è qualificabile come in continuità aziendale, salvi i casi di abuso dello strumento, allorquando alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale, tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del successivo trasferimento cui l’azienda in esercizio dev’essere dichiaratamente destinata, senza che rilevi in senso ostativo all’applicazione del regime ex art. 186-bis l. fall. l’eventuale intervenuta modificazione di una parte dell’attività produttiva”.

Disposizioni applicate

Artt. 18 e 162, comma 3, l. fall; Artt. 186-bis l. fall.; Art. 84 CCII

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione torna a esaminare i requisiti che, nel contesto di una domanda di concordato preventivo in continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall., sono necessari affinché la domanda possa superare il vaglio di ammissibilità.

Nello specifico, la Suprema Corte si sofferma sul concetto di continuità richiamato all’art. 186-bis l. fall. quale esecuzione (anche minimale) di attività di impresa mai cessata del tutto al momento della proposta di concordato, sancendo così il principio in forza del quale per aversi continuità aziendale occorre in ogni caso che l’azienda sia in esercizio.

La pronuncia è oltremodo interessante perché offre l’opportunità di tracciare una linea di demarcazione tra il testo dell’art. 186-bis l. fall. e il nuovo art. 84 CCII che, nel descrivere il concetto di continuità aziendale e le sue due declinazioni – diretta e indiretta – fa espresso riferimento a una continuità indiretta da attuarsi anche con “la ripresa dell’attività”, evidentemente già cessata al momento della presentazione della domanda concordataria.

CASO

Con sentenza n. (OMISSIS) il Tribunale di Lucca ha dichiarato il fallimento della società (OMISSIS) S.r.l., dichiarando contestualmente inammissibile la proposta di concordato preventivo presentata ex art. 186-bis l. fall.

Proposto reclamo ex art. 18 e 162, terzo comma, l. fall. da parte di (OMISSIS) S.r.l., nei confronti del Fallimento della (OMISSIS) S.r.l., avverso la predetta sentenza del Tribunale di Lucca, la Corte di Appello di Firenze ha respinto l’impugnazione, confermando pertanto la sentenza di prime cure.

SOLUZIONE

Nel motivare la decisione, i giudici fiorentini hanno evidenziato inter alia che, in ossequio all’art. 186-bis l. fall., per potersi qualificare un concordato in continuità aziendale è indispensabile che l’attività di impresa sia effettivamente in esercizio al momento dell’ammissione al concordato e al momento del trasferimento della stessa.

Diversamente, nel caso in esame tale requisito era insussistente perché l’attività era ormai cessata da tempo, mentre la nuova presunta attività era totalmente differente, avendo un oggetto diverso ed era svolta da un solo dipendente contro i sedici precedenti, essendo peraltro stata documentata dalla curatela l’assenza di contratti in corso con fornitori strategici e con clienti strategici, a conferma dell’assenza di alcuna continuità.

QUESTIONI APPLICATE NELLA PRATICA

La pronuncia in esame è particolarmente significativa in quanto offre l’occasione di tornare sull’istituto della continuità aziendale introdotto nell’art. 186-bis l. fall. con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

L’inserimento della norma in esame nel testo della legge fallimentare ha rappresentato un’alternativa concreta alla tradizionale figura del concordato liquidatorio, riconoscendo all’imprenditore in crisi di beneficiare degli effetti dello strumento concorsuale senza vedersi necessariamente costretto alla dismissione degli asset aziendali.

Sotto questo profilo, la valorizzazione della prosecuzione dell’attività di impresa rispetto alla tradizionale figura del concordato liquidatorio si inserisce nel solco della ormai consolidata evoluzione del diritto della crisi, essendo noto che la conservazione dell’azienda, anche se l’impresa versa in condizioni di squilibrio economico-finanziario e addirittura in stato di insolvenza, costituisce principio fondante il diritto concorsuale e si caratterizza rispetto alla tradizionale impostazione che mira, diversamente, all’espunzione dell’impresa decotta dal mercato, anche in un’ottica sanzionatoria, con conseguente dispersione dell’azienda (G. Capobianco, La continuità aziendale nel concordato preventivo. Il caso ATAC S.p.A., in www.osservatorio-oci.org, 2021).

Benché il legislatore non abbia fornito una definizione specifica di continuità aziendale – concetto di origine economico-aziendale (si vedano M.E. Chiari, La prioritaria rilevanza della continuità negli strumenti del Codice della crisi, in www.dirittodellacrisi.it; R. Ranalli, Alcune riflessioni aziendalistiche sulla viability of the business della direttiva Insolvency, con particolare (ma non esclusivo) riguardo al concordato in continuità, in www.dirittodellacrisi.it, 1 ss., secondo cui “a ben vedere la continuità aziendale ha plurime chiavi di lettura. Comune a tutte è la sostenibilità economica dell’impresa, la già viability of the business, e cioè la sua capacità di stare sul mercato e di non esserne estromessa”) – la pronuncia in commento sancisce il principio secondo cui l’elemento chiave nella valutazione di sussistenza della continuità aziendale – anche indiretta purché l’azienda sia in esercizio – è l’accertamento della prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore in crisi o, comunque, la cessione dell’azienda in esercizio o il suo conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione.

Il cuore della sentenza in questione è che si tratti quindi di una vera e propria prosecuzione di un’attività pregressa esistente e non cessata. Ciò che conta, infatti, è che l’azienda sia in esercizio e che essa (non importa se ad opera dell’imprenditore stesso ovvero di un terzo, tanto al momento dell’ammissione della domanda concordataria quanto al momento del suo trasferimento), con l’unico limite che la stessa continuità aziendale non deve essere apparente, ma effettiva (M.E. Chiari, La prioritaria rilevanza della continuità negli strumenti del Codice della crisi, in www.

dirittodellacrisi.it).

Sotto questo profilo, infatti, in linea con il principio giurisprudenziale già affermato in passato dalla Corte di Cassazione, è irrilevante “la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell’una rispetto all’altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori)”, pur affermando in ogni caso il carattere decisivo della “funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell’impresa in uno scenario concordatario” (Cass., n. 734/2020).

È invece necessario che la continuità aziendale sia reale e, quindi, che sia ravvisabile anche una pur minima componente di prosecuzione di attività che sia idoneo a generare un altrettanto minimo flusso reddituale in funzione del soddisfacimento del ceto creditorio.

Occorre quindi prestare attenzione a tali aspetti onde minimizzare il rischio del verificarsi di fenomeni abusivi dello strumento concordatario laddove, ad esempio, il ricorso al concordato in continuità aziendale mascheri in realtà “un concordato liquidatorio elusivo della soglia satisfattoria del 20%” (Cass., n. 6772/2022). O, ancora, laddove “l’attività d’impresa risulti insussistente in quanto cessata e ridotta alla mera gestione di una partecipazione minoritaria” (Cass. n. 21864/2023, che fa riferimento a fattispecie nelle quali alla partecipazione minoritaria ad altra società si accompagnava la designazione di un solo componente dell’organo amministrativo).

Occorre poi che la proposta e il piano risultino operativamente percorribili e coerenti con il dichiarato scopo di risanamento dell’impresa in crisi e di conservazione dei valori aziendali.

Come anticipato, la pronuncia in esame è significativa in quanto offre l’occasione di tracciare una linea di demarcazione tra il testo dell’art. 186-bis l. fall. e il nuovo art. 84 CCII che, nel secondo comma, prevede espressamente che la continuità indiretta – da parte di un soggetto terzo rispetto all’imprenditore in crisi – possa essere modulata indifferentemente sia attraverso “la gestione dell’azienda in esercizio” sia attraverso “la ripresa dell’attività” evidentemente già cessata al momento della presentazione della domanda concordataria.

Tale previsione è chiaramente finalizzata al recupero della capacità dell’impresa di rientrare – ristrutturata e risanata – nel mercato consentendo all’imprenditore di uscire dalla fase di crisi anche laddove l’attività di impresa risulti inattiva. In tale ipotesi si assiste non alla prosecuzione, ma al riavvio dell’attività di impresa.

Verrebbe da chiedersi entro quali limiti si possa avere una simile apertura rispetto a fattispecie che, nella vigenza della legge fallimentare, erano escluse dall’accesso al concordato in continuità.

Certamente, la nuova norma rende l’istituto del concordato in continuità maggiormente appetibile, con l’introduzione di nuove possibilità operative prima inesplorate nell’ottica di consentire la conservazione del valore aziendale – anche rispetto ad attività previamente cessate – e permettere un maggior soddisfacimento delle pretese creditorie con il mantenimento di adeguati livelli occupazionali.

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