21 Giugno 2022

La previsione statutaria di un obbligo di preventiva conciliazione all’interno di un regolamento non integra la fattispecie della clausola compromissoria

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Sezione II, Ordinanza del 14 Febbraio 2022 n.4711, Presidente Dott. Felice Manna, Relatore Dott.ssa Rossana Giannaccari

Massima: “La clausola del regolamento di condominio che, per i casi di contrasto tra condomini, preveda l’obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite, non integra una clausola compromissoria, sicché da essa non può derivare alcuna preclusione all’esercizio dell’azione giudiziaria, giacché i presupposti processuali per la validità del procedimento sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nell’autonomia privata”.

CASO

La controversia traeva origine dalla domanda giudiziale proposta dal Condominio (OMISSIS), sito in Monza, nei confronti dei codomini Tizia e Caio al fine di accertare l’illegittimità degli interventi, ritenuti oltretutto lesivi del decoro architettonico dell’edificio, effettuati da questi ultimi sulle parti comuni dello stabile e consistenti nella “chiusura di una loggia prospiciente la pubblica via e la realizzazione di una bussola antistante la porta d’ingresso”.

Il Tribunale di Monza, a seguito della rituale costituzione dei convenuti e dello svolgimento del contraddittorio, accertava l’illegittimità delle opere condannando i condomini alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

Alla medesima decisione giungeva anche la Corte d’Appello di Milano, investita dal giudizio di impugnazione della sentenza del Tribunale da parte dei condomini soccombenti in primo grado.  Contestualmente, la Corte distrettuale preliminarmente rigettava l’eccezione di carenza di legittimazione passiva per difetto di conferimento del mandato da parte dell’assemblea, trattandosi di azione proposta dall’amministratore per la tutela e conservazione delle parti comuni del condominio, ed ugualmente non considerava alla stregua di una causa di improcedibilità, il mancato rispetto della previsione regolamentare di esperire un tentativo di conciliazione amichevole prima dell’instaurazione del giudizio, posto che la clausola non introduceva alcuna forma di arbitrato, né rituale, né irrituale.

Sotto il profilo processuale, la Corte non aveva ritenuto rinunciata la domanda di eliminazione della veranda chiusa mediante serramenti fissi su uno dei balconi di proprietà esclusiva, contrariamente a quanto eccepito da controparte. Infatti, gli appellanti avevano sottolineato come il Condominio non avesse riproposto la domanda in sede di precisazione delle conclusioni, comportando, ai sensi di legge, la rinuncia a tale “rimostranza”. Tuttavia il Giudice del gravame valutava la medesima come eccezione nuova, proposta per la prima volta in appello, tenendo conto che la domanda era ben presente nel foglio di precisazione delle conclusioni ma, per mera svista da parte del giudice di prime cure, era stata saltata la pagina contenente detto capo che, pertanto, non poteva dirsi rinunciato.

Nel merito, la Corte accertava ulteriormente che i condomini Tizia e Caio avevano realizzato una veranda ed una bussola collocata sul terrazzo condominiale in corrispondenza della parte di accesso alla loro abitazione le quali, oltre a ledere il decoro architettonico del fabbricato data l’importanza paesaggistica per il territorio,  occupava il bene comune rendendolo parte integrante dell’unità immobiliare dei convenuti, in tal modo appropriandosi di esso ed impedendo il pari uso agli altri condomini.

Al fine di ottenere la cassazione della sentenza di secondo grado, i condomini Tizia e Caio presentarono ricorso sulla base di sette motivi, trovando la resistenza del Condominio il quale presentò proprio controricorso.

SOLUZIONE

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso e condannato la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

QUESTIONI

Con il primo motivo, i ricorrenti dedussero la violazione e falsa applicazione degli artt. 1130, 1131 c.c. e dell’art.77 disp. att c.c., in relazione all’art.360 comma n.3 c.p.c., in quanto la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la rappresentanza processuale dell’amministratore del condominio, in assenza di delibera autorizzativa da parte dell’assemblea, senza considerare che il mandato sarebbe stato limitato alla contestazione dell’illegittimità della costruzione sulle parti comuni condominiali e non a tutte le altre opere realizzate dai convenuti.

La Suprema Corte ritenne infondato il motivo di ricorso.

Infatti, motivarono gli Ermellini, è uniforme e costante la giurisprudenza di legittimità nel ritenere che l’amministratore del condominio sia sempre legittimato ad agire in giudizio laddove l’azione sia finalizzata alla tutela delle parti comuni condominiali, qualora rientranti negli atti conservativi dei diritti, senza necessità di autorizzazione assembleare[1]. Gli atti di cui all’art.1130 c.c. ricomprendono anche le azioni finalizzate alla tutela dello stato di godimento della cosa comune purché non comportino una possibile disposizione della stessa res comune[2].

In virtù di tale orientamento, pertanto, la Corte d’Appello di Milano non avrebbe errato nel ritenere che l’instaurazione del giudizio da parte dell’amministratore finalizzata alla tutela e conservazione del decoro architettonico rientrasse nel paradigma indicato[3] e la censura dovette essere rigettata.

Tizia e Caio, in secondo luogo, dedussero la nullità della sentenza d’Appello per violazione degli artt.3 e 38 del Regolamento Condominiale per violazione degli artt.1130 e 1131 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c, per non avere la corte di merito dichiarato l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo di conciliazione, previsto dal regolamento condominiale.

Anche la seconda censura presentata da parte dei ricorrenti venne respinta dalla seconda Sezione.

In premessa, la Corte richiamò il generale principio in base al quale le disposizioni di legge che prevedono le condizioni di procedibilità delle azioni, connotandosi quali vere e proprie deroghe al diritto di agire in giudizio garantito all’art.24 Cost., non possono essere oggetto di interpretazioni in senso estensivo[4]. Infatti, come ben riportato nell’orientamento giurisprudenziale citato dai giudici di legittimità, le indicazioni della Corte costituzionale additano in sostanza una linea di equilibrio fra un principio di ordine costituzionale e le deroghe che possono esservi apportate in funzione di interessi di estrema rilevanza, ma confermano il carattere eccezionale delle ipotesi limitative, ragion per cui le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono esser aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata.

Proseguendo nella disamina dell’impianto giurisprudenziale su cui venne fondato il rigetto del motivo, la Corte affermò che “la clausola del regolamento di condominio che, per i casi di contrasto tra condomini, prevede l’obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite, non integra una clausola compromissoria sicché da essa non può derivare alcuna preclusione all’esercizio dell’azione giudiziaria”. In virtù di tale convincimento, da essa non può derivare alcuna preclusione all’esercizio dell’azione giudiziaria, giacché i presupposti processuali per la validità del procedimento, sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nella autonomia privata[5].

Nel caso di specie, la Corte distrettuale valutò correttamente l’art.3 del Regolamento condominiale come non idonea a comportare alcuna convenzionale rinuncia all’azione giudiziaria.

Parlando propriamente di clausola compromissoria, infatti, si fa riferimento ad una prassi diffusa nei regolamenti di condominio di natura contrattuale attraverso le quali si prevede, per il caso di liti fra condomini, il ricorso ad un arbitro (o a un collegio arbitrale) invece che al giudice ordinario. La giurisprudenza, a seguito di un acceso dibattito in merito alla validità e alla portata dell’efficacia di tali pattuizioni, si è trovata concorde nello stabilire che in presenza di una clausola compromissoria, deve dichiararsi improponibile qualsiasi domanda formulata davanti alla magistratura ordinaria[6].

Tale conclusione, tuttavia, troverebbe la propria giustificazione nella espressa e concorde volontà di tutti i partecipanti al condominio di sottrarsi alla podestà decisionale per dirimere nel merito le controversie tra loro insorte. In virtù di ciò, la clausola in esame non può validamente essere configurata come “compromissoria” in quanto, non avendo esplicitamente previsto alcuna forma di arbitrato, non rappresenta una volontaria devoluzione della competenza giurisdizionale delle controversie interne ad un organismo stragiudiziale ma solo l’obbligo di un preventivo tentativo di  ricomposizione della lite[7], non precludendo le eventuali modalità di svolgimento del successivo giudizio.

Pertanto non poté dirsi integrata alcuna causa di improcedibilità, comportando l’attestazione della validità dello svolgimento del giudizio di merito.

Con il terzo motivo di ricorso, venne sostenuta la nullità della sentenza per ultrapetizione, per violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art.112 c.p.c. perché la corte di merito avrebbe disposto la rimessione in pristino dello stato dei luoghi nonostante tale domanda fosse stata rinunciata.

La Suprema Corte ritenne di dover dar fondamento alla soluzione prospettata già dalla Corte d’Appello di Milano, rigettando nuovamente le istanze dei ricorrenti.

Come ricostruito dagli Ermellini in motivazione, la Corte distrettuale lombarda non ritenne rinunciata la domanda proposta dal Condominio in sede di merito finalizzata alla riduzione in pristino delle opere illegittimamente realizzate da Tizia e Caio sulle parti comuni in quanto, in base ad una interpretazione plausibile dell’atto di precisazione delle conclusioni, non avrebbe manifestato alcuna volontà di rinunciarvi. Infatti, prosegue la Cassazione, la motivazione della sentenza di gravame esponeva chiaramente che il foglio di precisazione delle conclusioni del Condominio, a causa di una mera svista, risultava manchevole di una pagina, come testimoniato dagli altrimenti inspiegabili salti logici contenuti nell’atto depositato (es. enumerazione delle domande, che passava dalla b) della prima pagina alla f) dell’ultima), frutto di un errore materiale in fase di redazione del testo finale e non certo manifestazione di una volontaria rinuncia al petito.

A supporto di tale ampia interpretazione da parte delle Corti di merito, per l’appunto, la giurisprudenza di legittimità si è ormai consolidata nel ritenere che la sola assenza della riproposizione della domanda nelle precisazioni conclusive non sia di per sé sufficiente per poterla considerare rinunciata. Di fatti, come richiamato dalla citata decisione della Corte, tale omissione rappresenterebbe “una mera presunzione di abbandono, mentre è necessario accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla domanda pretermessa” [8].

In virtù di tale orientamento, la mancata riproposizione di una domanda precedentemente prodotta non autorizzerebbe né le parti né, a maggior ragione, il giudice a presumere il venir meno dell’interesse a coltivarla del proponente: è dunque dovuta una valutazione complessiva della condotta, e della volontà in essa intrinseca, di entrambe le parti nel corso del processo affinché possa desumersi l’inequivocabile volontà di rinunciare a quanto chiesto precedentemente[9].

Analogamente il ragionamento può ben essere trasposto in tema di istanze istruttorie.  Infatti, come precisato dal Condominio nelle proprie conclusioni, “il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le dette istanze istruttorie, non consente al decidente di ritenerle abbandonate, ove la volontà in tal senso non risulti in modo inequivoco”[10].

Per tali ragioni anche il terzo motivo di ricorso trovò il rigetto da parte della Suprema Corte.

Passando all’esame del quinto motivo di ricorso, venne contestata la violazione dell’art.1102 c.c. per assenza della lesione del decoro architettonico dell’edificio, considerando che la costruzione avrebbe comunque subito diversi interventi nel tempo da parte di altri condomini, con alterazione dell’originaria estetica e del suddetto decoro, oltre a non presentare elementi architettonici di pregio.

Soffermandosi in primo luogo sulla determinazione del corretto concetto di “innovazione lesiva”, la Corte di Cassazione rimarcò che la fattispecie venga integrata nel caso in cui l’intervento, oltre a determinare l’alterazione delle linee architettoniche, si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio[11]. Tale orientamento, oltre a rimettere la valutazione al giudice di merito rendendo il suo giudizio insindacabile in sede di legittimità[12], privilegerebbe pertanto una valutazione unitaria ed oggettiva dell’estetica dell’edificio, togliendo spazio a considerazioni soggettive, di ordine generale, in merito alla pregevolezza dello stile architettonico originario. Come infatti ribadito dalla numerosa giurisprudenza di legittimità che si è espressa sulla questione[13], non occorre che il fabbricato abbia un particolare valore artistico, né tantomeno rileva che tale fisionomia ed i suoi stilemi siano stati già gravemente ed evidentemente compromessi da precedenti interventi sull’immobile.

Tanto precisato, nel caso di specie la Corte di merito ritenne che la realizzazione degli interventi prospettati dai ricorrenti (veranda a chiusura della loggia di proprietà dei convenuti, prospiciente sulla pubblica via, e di una bussola di ingresso collocata sul terrazzo condominiale, in corrispondenza della porta di accesso alla loro abitazione) fossero lesivi del decoro architettonico dell’edificio. L’immobile, per l’appunto, aveva mantenuto nel tempo le proprie caratteristiche peculiari, sicché dette opere dei condomini avrebbero modificato il rapporto armonico delle linee e, per tipologia e qualità dei materiali utilizzati, oltre che per l’alterazione della sagoma dell’edificio, contrastavano fortemente con le caratteristiche estetiche dello stesso.

Pertanto anche il quinto motivo trovò l’opposizione ed il rigetto da parte dei giudici di legittimità.

Con il sesto motivo di ricorso venne fondato sulla violazione e falsa applicazione dell’art.1117 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con particolare riferimento all’omessa motivazione in merito alla realizzazione della bussola serra bioclimatica che garantirebbe la migliore salubrità dei locali, il risparmio energetico e la minore dispersione di anidride carbonica in atmosfera, con beneficio di tutto il condominio.

La censura tuttavia non convinse gli Ermellini a dissociarsi dall’operato dei giudici di merito, i quali, nel caso di specie, accertarono “l’occupazione stabile di oltre quattro metri dell’area comune con una struttura stabile sicché sussisteva un’appropriazione del bene condominiale, con una modifica della destinazione che precludeva l’utilizzo dell’area agli altri condomini”.

Come motivato nell’ordinanza, infatti, a norma dell’art.1102 c.c.. comma I, “ciascun condomino può apportare a sue spese le “modificazioni” necessarie per il migliore godimento delle cose comuni, sempre che osservi il duplice limite di non alterare la destinazione e di non impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto”.

Tenendo a mente detti limiti e le connotazioni del caso di specie, appare chiara la violazione da parte dei condomini ricorrenti della disposizione dagli stessi citata in quanto l’intervento da loro attuato ebbe l’effetto di sottrarre detta area comune alla fruizione della collettività dei comproprietari.

[1] Ex art. 1130 c.c., n. 4 c.c.; ex plurimis, Cass., 12/10/2000 n. 13611.

[2] Così Cass. 06/02/2009 n. 3044.

[3] Così Cass. civile sez. IL 24/07/2017, n.18207

[4] Cass. Civ., 21 gennaio 2004, n. 967.

[5] Cass. civile sez. II, 17/11/1979, n.5985.

[6] Ex multis Trib. Milano 10/06/1991.

[7] Così Trib. Milano 1/6/1987, n. 4956

[8] Cass. civile sez. III, 03/02/2012, n.1603.

[9] Cass. civile sez. II, 14/07/2017, n.17582.

[10] Così Cassazione civile sez. I, 19/02/2021, n.4487; nello stesso senso Cassazione civile sez. III, 29/05/2012, n.8576.

[11] Cassazione civile sez. II, 11/09/2020, n.18928; Cass. Civ., n. 14607 del 2012; Cass. Civ., n. 10350 del 2011.

[12] Se non nei limiti di cui all’art.360 c.p.c., comma 1, n.5.

[13] Cassazione civile sez. II, 26/05/2021, n.14598;Cass. Sez. 2, 13/11/2020, n. 25790; Cass. Sez. 2, 19/06/2009, n. 14455; Cass. Sez. 2, 14/12/2005, n. 27551; Cass. Sez. 2, 30/08/2004, n. 17398.

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