5 Aprile 2016

La rimessione in termini all’epoca del processo civile telematico

di Giuseppe Vitrani, Avvocato Scarica in PDF

Una delle problematiche maggiormente avvertite al tempo del processo civile telematico riguarda i rimedi a disposizione dell’avvocato nel caso in cui il deposito di un atto del processo non vada a buon fine.

Il problema è strettamente connaturato al fatto che gli atti processuali vengono inviati all’ufficio giudiziario di destinazione con l’ausilio della pec (e vengono pertanto spediti a tutti gli effetti), superano un controllo automatico dei sistemi ministeriali ma devono poi essere accettati manualmente dalle cancellerie.

Il contesto legislativo specifico non è del resto di grande aiuto; per vero, l’art. 13 del d.m. 44/2011 (recante le regole tecniche del PCT) dispone, al II comma, che “i documenti informatici…si intendono ricevuti dal dominio giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia”, codificando così la valenza della ricevuta di consegna della PEC come vero e proprio “depositato” dell’atto processuale.

In sostanza, come noto, anche se l’atto viene formalmente accettato dalla cancelleria anche a distanza di molti giorni, la tempestività del deposito e il rispetto dei termini di decadenza vengono fatti risalire al momento del recapito della ricevuta di avvenuta consegna della PEC.

Fin qui nessun problema, ovviamente; il sistema mostra però il suo lato critico nel momento in cui l’attività spettante alla cancelleria non può essere espletata e il deposito telematico non può essere accettato.

Verificandosi tale eventualità, l’atto processuale non entra a far parte del fascicolo informatico, sicché anche il tempestivo ricevimento della ricevuta di consegna non può essere evidenziato al Giudice o al Collegio Giudicante. Fatto più grave, è che da tale evento di segno negativo spesso e volentieri deriva una decadenza a carico della parte; occorre perciò indagare come e se si possa annullare gli effetti perniciosi di tale evento e per far ciò non si può non volgere l’attenzione verso l’art. 153, II comma, c.p.c. ai sensi del quale “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”.

Sennonché la lettura della norma ci dice assai poco se non la caliamo nella realtà fattuale e giurisprudenziale e non accompagniamo tale operazione dalla riflessione secondo cui molto spesso il rifiuto del deposito è dovuto ad errori banali dell’avvocato depositante; tipico esempio è l’errata indicazione del numero di ruolo del procedimento.

Se compiamo tale operazione scopriamo innanzitutto l’esistenza di un orientamenti molto (forse troppo) rigoroso e legato ad una lettura marcatamente formalista della norma codicistica.

Ad esempio di quanto si afferma si può citare un’ordinanza del Tribunale di Torino del 26 agosto ’14, che nega la rimessione in termini ad un avvocato che aveva indicato un numero di ruolo di causa errato sulla base della considerazione che in quel caso l’errore era imputabile all’avvocato stesso (essendo stato ovviamente lui a comunicare i dati occorrenti per il deposito).

Di contro, su posizioni più liberali si attesta il Tribunale di Pescara che, con pronuncia del 2 ottobre ’15, ha rilevato che la parte non era incorsa in decadenza ad essa imputabile dal momento che l’errore (anche in tal caso erronea indicazione del numero di ruolo del procedimento) era semmai da imputare al sistema di gestione dei depositi telematici, incapace di segnalare all’interessato un semplice errore materiale.

In posizione mediana trai due orientamenti si colloca invece una più articolata pronuncia del Tribunale di Napoli in data 16 dicembre ’15, che rileva innanzitutto l’inosservanza del termine perentorio per il deposito di memoria istruttoria a causa di un errore del depositante nell’indicazione del numero di ruolo del fascicolo in cui l’atto doveva essere inserito.

A fronte di ciò il Giudice napoletano osserva che l’errore era però riconoscibile da parte del mittente già pochi minuti dopo il deposito, precisamente al momento della ricezione della terza ricevuta PEC contenente gli esiti dei cd. controlli automatizzati previsti dall’art. 13, co. 7, del DM 44/2011 e dall’art. 14 del Provv. Resp. S.I.A. del 16 aprile 2014 nei quali si evidenziava “Numero di ruolo non valido: il mittente non ha accesso al fascicolo. Sono necessarie verifiche da parte della cancelleria».

Nonostante tale messaggio (che effettivamente evidenziava la presenza di un errore), l’avvocato attendeva il rifiuto da parte della cancelleria e solo dopo tale evento depositava istanza per la rimessione in termini. Ecco, a fronte di tale comportamento omissivo, il Giudice di l’inosservanza del termine perentorio è comunque attribuibile in parte anche al medesimo mittente che non solo ha indicato un numero diverso ma non si è neppure attivato per i necessari controlli sui propri applicativi per comprendere le cause della segnalazione della mancanza di legittimazione all’accesso in quel fascicolo evidenziata nel terza ricevuta PEC ».