30 Maggio 2023

Pignoramento presso terzi e obblighi dichiarativi del terzo pignorato

di Valentina Scappini, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione, III sezione civile, sentenza del 5 aprile 2023, n. 9433; Pres. Rubino; Rel. Tatangelo.

Massima:“Nel procedimento di espropriazione di crediti di cui agli artt. 543 e ss. c.p.c., ove il terzo pignorato dichiari la sussistenza della propria obbligazione nei confronti del debitore esecutato, precisando però che il relativo credito risulta già vincolato in virtù di precedenti pignoramenti, egli ha l’obbligo, ai sensi dell’art. 550 c.p.c., di indicare gli estremi di detti pignoramenti (precisando, quindi, quanto meno i creditori pignoranti, la data della notifica dei pignoramenti, gli importi pignorati, nonché il contenuto delle dichiarazioni di quantità già rese e gli eventuali pagamenti già effettuati in base ai provvedimenti di assegnazione emessi), onde consentire al giudice dell’esecuzione di disporre eventualmente, nella presenza dei necessari presupposti, la riunione delle procedure, ai sensi dell’art. 524 c.p.c.; nel caso in cui tali indicazioni non siano fornite dal terzo, la dichiarazione dovrà ritenersi incompleta e il giudice dell’esecuzione dovrà chiedere la sua integrazione allo stesso terzo, fissando una nuova udienza ai sensi dell’art. 548 c.p.c. e concedendogli, nell’ipotesi in cui i pignoramenti in questione siano in numero tale da rendere necessaria una complessa attività di recupero dei dati necessari, un adeguato termine; nel caso in cui, peraltro, nonostante il termine all’uopo concesso, l’integrazione non sia resa dal terzo, la dichiarazione non potrà intendersi regolarmente resa, ai sensi dello stesso art. 548 c.p.c., con la conseguenza che, se le allegazioni del creditore o anche la stessa dichiarazione comunque resa dal terzo consentano l’individuazione del credito pignorato, potrà procedersi all’assegnazione di esso in favore del creditore procedente”.

CASO

E.E., creditore di una ASL, pignorava le disponibilità della stessa presso l’istituto tesoriere Banco di Napoli s.p.a. (oggi Intesa San Paolo s.p.a.). La banca dichiarava la sussistenza di un saldo attivo sul conto di tesoreria per oltre 17 milioni di Euro, limitandosi però a specificare che detta somma era già integralmente vincolata in virtù di precedenti pignoramenti e che dal momento del pignoramento non si erano verificate ulteriori disponibilità.

Su tale dichiarazione sorgeva contestazione circa la completezza della stessa, in quanto la ASL non aveva indicato gli estremi dei precedenti pignoramenti, cosicché il giudice dell’esecuzione invitava espressamente la terza debitrice ad integrare la dichiarazione, fornendo le indicazioni mancanti (ivi inclusa l’esibizione delle scritture contabili) ed avvisandola che, in mancanza, avrebbe considerato verificati gli effetti di cui all’art. 548, co. 2, c.p.c. e, quindi, avrebbe considerato la dichiarazione come implicitamente positiva.

La banca non provvedeva ad integrare la dichiarazione e così il giudice dell’esecuzione disponeva l’assegnazione delle somme pignorate.

L’istituto tesoriere impugnava l’ordinanza di assegnazione ex art. 617 c.p.c. e l’opposizione era accolta dal Tribunale di Torre Annunziata.

Il creditore ricorreva, pertanto, in cassazione sulla base di tre motivi. Prima della data fissata per l’udienza, si costituivano gli eredi di E.E. in seguito al suo decesso dopo la proposizione del ricorso.

La ASL intimata non svolgeva attività difensiva.

SOLUZIONE

La Corte di aassazione ha accolto il ricorso, dichiarando fondati tutti e tre i motivi e pronunciando il principio di diritto indicato in epigrafe, cassando la sentenza impugnata e rinviando al Tribunale di Torre Annunziata in persona di diverso magistrato, anche per le spese di legittimità.

QUESTIONI

Con i tre motivi di ricorso, E.E. e quindi i suoi eredi deducevano, rispettivamente:

1) la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 543, 547, 550 e 552 c.p.c, nonché dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, n. 3 e 4, c.p.c.;

2) la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 547, 548, 549 e 550 c.p.c. ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.;

3) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c. e la contraddittorietà manifesta ed irriducibile della motivazione.

La Suprema Corte, nell’esaminare congiuntamente i tre motivi, li ha dichiarati fondati.

Anzitutto, il ricorrente ha dedotto che il Tribunale avrebbe errato nel qualificare la dichiarazione resa dalla banca come negativa. Secondo la Suprema Corte, la dichiarazione in questione ha carattere oggettivamente e innegabilmente positivo, in quanto la terza pignorata ha dichiarato un credito dell’azienda debitrice, precisando solo che vi erano pignoramenti che avevano già colpito il medesimo credito.

Una simile dichiarazione, per giurisprudenza di legittimità costante, non perde affatto il suo carattere positivo, in quanto i vincoli dichiarati incidono non sul carattere della dichiarazione, ma solamente sulla possibilità di procedere all’assegnazione del credito, questione rispetto alla quale il terzo di regola è estraneo (salvo che gliene derivi un pregiudizio diretto).

In realtà, la questione rilevante è un’altra, ossia il fatto che tale dichiarazione, pur se positiva, risulta incompleta. Ed infatti la banca pignorata, nonostante la richiesta del Giudice dell’esecuzione, non ha integrato la dichiarazione con l’indicazione specifica degli estremi dei pignoramenti precedenti, cosicché il Giudice ha considerato la dichiarazione come “tacitamente positiva”.

La sentenza impugnata ha errato nel ritenere che tale giudice avesse effettuato una “ingiustificata commistione tra il procedimento di cui all’art. 548 c.p.c. … e quello di cui all’art. 549 c.p.c.”. Tale statuizione, da cui il Tribunale di Torre Annunziata ha fatto derivare l’illegittimità del provvedimento di assegnazione, non è conforme a diritto.

Infatti, ai sensi dell’art. 550 c.p.c., il terzo, nel rendere la sua dichiarazione, ha l’obbligo di “indicare” i pignoramenti che sono stati eseguiti presso di lui. Il verbo “indicare” implica che tali pignoramenti devono essere precisati nei loro estremi al fine di permetterne l’esatta individuazione. Tale indicazioni riguardano quantomeno il creditore, la data di notifica del pignoramento e l’entità della somma pignorata. Il terzo dovrebbe anche precisare, laddove possibile, il contenuto delle dichiarazioni di quantità già rese e gli eventuali pagamenti effettuati in base ai provvedimenti di assegnazione già emessi.

In base a tali indicazioni il giudice dell’esecuzione deve individuare le procedure ancora pendenti in ordine al medesimo credito, verificarne lo stato o l’esito ed eventualmente disporne la riunione, ai sensi degli artt. 550 e 524 c.p.c.

Nessuna di tali precise indicazioni era contenuta nella dichiarazione della banca pignorata.

Cosicché il giudice dell’esecuzione, nella fattispecie, non avrebbe nemmeno potuto disporre la riunione delle procedure aventi ad oggetto il medesimo credito, non conoscendone i relativi estremi.

Pertanto, la parte finale della sentenza, laddove afferma che, anche ad intenderla come positiva, la dichiarazione di quantità resa dalla banca pignorata non avrebbe consentito l’assegnazione, in quanto avrebbe dovuto disporsi la riunione della procedura esecutiva per cui è causa con quelle originate dai precedenti pignoramenti, è intrinsecamente contraddittoria e denota chiaramente l’erroneità e l’illogicità della decisione impugnata.

In caso di dichiarazione incompleta, il giudice dell’esecuzione non può ritenere che la dichiarazione di quantità sia stata resa in modo adeguato e secondo le previsioni di legge, il che gli impone di chiederne l’integrazione al terzo, il quale potrà anche, se necessario, chiedere un adeguato termine qualora l’attività di recupero dei dati necessari sia complessa.

Laddove, invece, il terzo non provveda alla suddetta integrazione, è inevitabile ritenere che la dichiarazione non possa intendersi come resa regolarmente, con ogni conseguenza di cui all’art. 548 c.p.c., anche in tema di “non contestazione”.

In una simile situazione, quindi, il giudice può procedere all’assegnazione del credito dichiarato esistente dal terzo, considerando la dichiarazione di quantità come “implicitamente positiva”.

Ne consegue che la sentenza impugnata ha errato nel ritenere la dichiarazione “negativa”.

Per quanto riguarda, poi, la pretesa “ingiustificata commistione tra il procedimento di cui all’art. 548 c.p.c. … e quello di cui all’art. 549 c.p.c.”, la Suprema Corte ha osservato quanto segue.

La richiesta di integrazione rivolta al terzo non può considerarsi come un atto di istruzione del giudizio sommario di accertamento del credito di cui all’art. 549 c.p.c., ma costituisce una corretta modalità di applicazione di quanto previsto dalla legge nell’ambito della fase del procedimento di cui all’art. 548 c.p.c., cioè della fase in cui il giudice dell’esecuzione valuta se la dichiarazione sia stata resa in modo completo e, se necessario, invita il terzo ad integrarla.

Nella fattispecie, il giudice dell’esecuzione ha chiesto alla banca, oltre l’integrazione della dichiarazione, anche l’esibizione delle scritture contabili successive al pignoramento. Questa attività, precisa la Corte, va intesa come complementare alla richiesta di integrazione, in quanto volta ad acquisire gli elementi necessari per verificare i presupposti dell’eventuale necessità di riunione delle procedure esecutive aventi ad oggetto il medesimo credito.

Ma anche a voler ammettere, per un momento, che il giudice dell’esecuzione abbia effettuato una sorta di “commistione” tra le attività di cui all’art. 548 c.p.c. e quelle di cui all’art. 549 c.p.c., indebitamente anticipando le seconde ad un momento in cui non erano ancora esaurite le prime, ciò non potrebbe avere alcuna incidenza sulla legittimità del provvedimento finale di assegnazione, posto che questa risulta disposta sulla base della sola circostanza (sufficiente a tal fine) della mancata integrazione della dichiarazione mediante l’indicazione degli estremi dei precedenti pignoramenti.

La Corte, quindi, ha cassato la sentenza impugnata, esprimendo il principio di diritto riportato in epigrafe e rinviando al Tribunale in persona di diverso magistrato anche per le spese del giudizio di cassazione.

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