14 Settembre 2021

Le Sezioni Unite confermano che l’avvocato può sempre chiedere un decreto ingiuntivo per i propri compensi  

di Stefania Volonterio, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione civile, Sezioni Unite, sent. 8 luglio 2021, n. 19427, Pres. Curzio, Est. Doronzo

Decreto ingiuntivo per compensi professionali – abrogazione delle tariffe professionali – introduzione dei parametri per i compensi professionali (Cod. Proc. Civ. artt. 633 e 636; Cod. Civ. art. 2233; D.Lgs. 150/2011; D.L. 1/2012 convertito con L. 27/2012; D.M. 140/2012; L. 247/2012) 

“In tema di liquidazione del compenso all’avvocato, l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal DL 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla L. 27 marzo 2012, n. 27, non ha determinato, in base all’art. 9 DL cit., l’abrogazione dell’art. 636 cod. proc. civ. Anche a seguito dell’entrata in vigore del DL n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012, l’avvocato che intende agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può avvalersi del procedimento per ingiunzione regolato dagli artt. 633 e 636 cod. proc. civ., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente associazione professionale, il quale sarà rilasciato sulla base dei parametri per compensi professionali di cui alla L. 31 dicembre 2012, n. 247 e di cui ai relativi decreti ministeriali attuativi” [massima redazionale]

CASO

Con ricorso nell’interesse della legge ex art. 363, comma primo, c.p.c., il Procuratore generale presso la Corte di cassazione si rivolge alle Sezioni Unite per ottenere l’affermazione del principio di diritto, per il quale l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali avvenuto in forza del D.L. 1/2012 non ha determinato l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c. e, quindi, non ha fatto venire meno la possibilità per l’avvocato di richiedere ed ottenere un decreto ingiuntivo per il recupero dei compensi non pagatigli dal cliente.

L’interesse del Procuratore Generale nasce dall’esistenza di un orientamento del Tribunale di Roma – peraltro contraddetto da altri grandi tribunali italiani – secondo il quale l’abrogazione del sistema tariffario ad opera del citato D.L. 1/2012 (convertito con L. 27/2012) avrebbe comportato anche l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c., lasciando così all’avvocato la possibilità di agire in via ingiuntiva solo se in possesso di una pattuizione dei compensi sottoscritta dal cliente. Da qui, il sistematico rigetto da parte del Tribunale di Roma di tutti i ricorsi per decreto ingiuntivo proposti dagli avvocati ai sensi e nelle forme del predetto art. 636 c.p.c.

Come riporta il Procuratore generale, infatti, il Tribunale di Roma ritiene che l’art. 636 c.p.c., nella sua formulazione, sia inscindibilmente legato al sistema delle tariffe professionali, la cui abrogazione con D.L. 1/2012, convertito con L. 27/2012, avrebbe comportato, sempre ai sensi della medesima legge, l’abrogazione di tutte le norme che rinviano alle tariffe professionali, compresa, quindi, quella di cui all’articolo in parola. Inoltre, sempre secondo il Tribunale di Roma, l’introduzione dell’obbligo per il professionista di sottoporre al cliente un preventivo dei compensi, “impone che il decreto ingiuntivo possa essere richiesto dal professionista solo se corredato da tale documento, comprovante la pattuizione del compenso; in mancanza di tale pattuizione, il professionista può solo avvalersi del procedimento di cui all’art. 28 L. 13 giugno 1942, n. 794, come modificato dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150”.

La Procura Generale sostiene, invece, che il procedimento monitorio possa ancora essere praticato dal professionista anche qualora non vi sia stata pattuizione dei compensi con il cliente, potendo allora essere posta a base della richiesta di ingiunzione, come sempre avvenuto, la parcella predisposta dallo stesso professionista corredata dal parere dell’Ordine di appartenenza.

La Suprema Corte ritiene la richiesta della Procura generale ammissibile – sia perché vertente su un provvedimento, quello di rigetto del ricorso per decreto ingiuntivo, non ricorribile per cassazione, sia perché formulata nell’apprezzabile generale interesse a vedere stabilizzata la giurisprudenza sul tema sottoposto – e fondata.

SOLUZIONE

La Suprema Corte richiama, innanzitutto, alcuni propri recenti arresti con i quali ha già chiaramente affermato che gli avvocati possono ottenere il pagamento dei propri compensi professionali tramite il procedimento ingiuntivo ex artt. 633 ss. c.p.c. o tramite lo speciale procedimento di cui all’art. 28 della L. 794/1942, come modificato dal D.Lgs. 150/2011, restando escluso che la richiesta possa invece assumere le forme del rito ordinario o del rito sommario codicistico di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c..

La Corte richiama poi altri suoi precedenti nei quali è stato affermato che il parere dell’associazione professionale di cui all’art. 636 c.p.c. non è richiesto nei casi in cui il compenso “è determinato in un importo fisso” e in quelli nei quali, “prevedendo le tariffe importi variabili tra un massimo e un minimo, il compenso sia stato richiesto nella misura minima”.

Al di fuori di queste ipotesi, è necessario che il professionista ponga alla base della sua richiesta di ingiunzione la parcella da lui stesso sottoscritta, che è “dichiarazione unilaterale assistita da una presunzione di veridicità, in quanto l’iscrizione all’albo del professionista è una garanzia della sua personalità”, e il parare dell’organo professionale di appartenenza, che la Corte ha già avuto modo di affermare essere “non una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale” ma anche una “valutazione di congruità del ‘quantum’, attraverso un motivato giudizio critico” (sicchè esso “ha dunque un’efficacia vincolante in sede di emissione del decreto ingiuntivo”).

Ora, è già il disposto dell’art. 2233 c.c. (che la Corte definisce “norma architrave”) a prevedere, in una sorta di ordine gerarchico, che solo in mancanza di uno specifico accordo tra le parti il compenso debba essere determinato in base alle tariffe professionali e gli usi, o, infine, dal giudice in mancanza anche di queste ultime. “Non è quindi dubitabile”, prosegue la Corte, “che le tariffe svolgano una funzione integrativa della norma e suppletiva per il giudice”.

È ben vero che il D.L. 1/2012, convertito con L. 27/2012, ha abrogato il previgente sistema tariffario, ma esso, precisa la Corte, ha nel contempo previsto che “nel caso di liquidazione del compenso del professionista da parte di un organo giudiziale, il giudice deve fare riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministero vigilante”. Sono stati quindi adottati i nuovi parametri con D.M. 140/2012 ed anche la successiva L. 247/2012, contenente la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, ha ribadito, in continuità con la sopra citata L. 27/2012, “la regola che i parametri forensi si applicano quando non vi è pattuizione tra la parti”.

L’accordo tra cliente e professionista, quindi, “mantiene la priorità su ogni altro criterio di determinazione della remunerazione del professionista”, ma, prosegue la Corte, questa affermazione va contemperata anche con le norme, introdotte con D.L 148/2017, convertito con L. 172/2017, sull’equo compenso, le quali prevedono che, qualora il giudice accerti la non equità del compenso pattuito tra le parti, lo ridetermini sulla base dei parametri adottati dall’Autorità vigilante.

Si ritorna quindi all’applicazione dei parametri di compenso qualora l’accordo tra le parti non ci sia stato o sia stato accertato siccome iniquo, “e se la determinazione giudiziale deve tener conto dei parametri ministeriali, essi entrano nella struttura delle norme relative alla liquidazione dei compensi dei professionisti e le completano”, sicché, “appare dunque evidente come tra le tariffe abrogate e i nuovi parametri corra una forte analogia se non una sostanziale omogeneità”.

Esaminato, quindi, il complesso apparato normativo vigente in materia, la Corte afferma che “anche i parametri, non diversamente dalle tariffe, operano come fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, in forza delle disposizioni speciali, nonché dell’art. 2233 c.c., nella liquidazione giudiziale dei compensi al professionista nel caso in cui non risulti stipulato con il cliente un accordo sul compenso medesimo”.

Del resto, conclude la Corte, negli artt. 633 e 636 c.p.c. non vi è alcun cenno esplicito alle tariffe, sicché, anche da un punto di vista strettamente letterale, su queste norme non potrebbe essere giunta alcuna abrogazione ad opera della L. 1/2012, le cui disposizioni non si porrebbero neppure in una condizione di incompatibilità abrogate con le altre norme del sistema.

Non vi è pertanto ragione, in esito, per avallare l’orientamento romano, mentre viene accolta la richiesta del Procuratore generale.

QUESTIONI

La Suprema Corte è stata nuovamente chiamata a mettere ordine in una materia, quella del recupero da parte del professionista delle somme non pagate dal cliente, che, dopo l’abrogazione del sistema tariffario e, soprattutto, dopo l’avvento della semplificazione dei riti ad opera del D.Lgs. 150/2011, ha visto più di un incertezza in dottrina e in giurisprudenza, nonché  l’adozione delle più diverse soluzioni da parte dei giudici di merito.

Volendo tentare qui di tirare le somme, almeno su alcune questioni rilevanti nella materia de qua, si può dire che, grazie ai plurimi arresti della Cassazione, l’avvocato che non veda onorati i compensi chiesti al cliente per la propria assistenza giudiziale potrà agire seguendo due vie: potrà richiedere un decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 633 ss. c.p.c., come chiaramente affermato dalla sentenza qui in commento, producendo la propria parcella e il relativo parere dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza (parere non necessario laddove per la prestazione siano previsti importi fissi oppure nel caso in cui, in presenza di parametri massimi e minimi, l’avvocato abbia applicato i minimi); in alternativa, l’avvocato potrà agire nelle forme del rito sommario speciale di cui all’art. 14 del più volte citato D.Lgs.150/2011.

E ciò potrà fare, come pure chiarito più volte dalla Suprema Corte (da ultimo con sentenza n. 4247/2020), anche qualora il cliente metta in dubbio non solo il quantum della richiesta giuntagli dall’avvocato, ma anche l’an della medesima pretesa (possibilità che era stata peraltro messa in dubbio, nel 2016, dallo stesso Tribunale di Roma che ha provocato l’intervento delle Sezioni Unite del quale abbiamo dato conto).

Per completezza, si ricorda, in tema di competenza, che la Suprema Corte ha anche chiarito che “ove l’avvocato, per ottenere il pagamento delle competenze professionali da un proprio cliente, si sia avvalso del foro speciale di cui all’art. 14, comma 2, d.lgs. 150/2011, il rapporto tra quest’ultimo ed il foro speciale della residenza o del domicilio del consumatore, previsto dall’art. 33, comma 2, lett. u), d.lgs. n. 206/2005, va risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore” (Cass. n. 5703/2014), ferma restando, in caso di diverso, la competenza dell’ufficio giudiziario davanti al quale l’avvocato ha prestato la propria opera. Inoltre, si ricorda che “nel caso in cui un avvocato abbia scelto di agire ex art. 28 L. n. 794/1942, come modificato dall’art. 34 comma 16 lett. a) D.Lgs. n. 150/2011, nei confronti del proprio cliente, proponendo l’azione prevista dall’art. 14 del medesimo decreto e chiedendo la condanna del cliente al pagamento dei compensi per l’opera prestata in più gradi e/o fasi di giudizio, la competenza è dell’ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa” (così Cass. n. 4247/2020).

Infine, per quanto riguarda la richiesta di compensi per attività stragiudiziale, non si ritiene praticabile la via di cui all’art. 14 della L. 150/2011. In questo caso, l’avvocato dovrà far valere le proprie ragioni seguendo i riti codicistici, ordinario o sommario, ivi compreso quello monitorio di cui all’art. 633 ss. c.p.c.

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