23 Aprile 2024

Il giurista d’impresa e le sue diverse declinazioni

di Francesco Schippa, Avvocato Scarica in PDF

Il giurista d’impresa e le sue diverse declinazioni. Dal consulente esterno al legale inserito nell’organigramma: possibilità, limiti e prospettive delle diverse figure giuridiche che assistono l’azienda nella gestione delle proprie attività

Premessa

Nell’ordinamento italiano non esiste una vera e propria nozione di “giurista d’impresa”. Tale dizione viene normalmente associata al “legale” (per tale intendendosi normalmente il laureato che sia anche abilitato all’esercizio della professione, pur non essendo necessariamente iscritto all’albo) che fornisca consulenza e/o assistenza ad una o più persone giuridiche.

Il “giurista d’impresa” rappresenta pertanto più un fenomeno evolutivo della professione forense che un vero e proprio “prototipo di avvocato”.

Il profilo del giurista d’impresa non è “ben delineato” nelle sue caratteristiche soggettive: di fatto è espressione di una funzione e di una modalità di svolgere l’attività giuridica (talvolta in senso forense, talvolta in senso più esteso), piuttosto che di un paradigma soggettivo ancorato a parametri normativi.

Alla “formula” così delineata si riconducono (ormai da anni) corsi professionali e master che, correttamente, muovono dal presupposto secondo il quale nella realtà dinamica di un paese industrializzato l’avvocato può riscontrare nella consulenza aziendale un settore della propria attività eterogeneo e multiforme: in altri termini, un’opportunità di lavoro “dinamica”, sempre appetibile, ma che richiede competenze molto specifiche.

Una visione panoramica del concetto di “giurista d’impresa” deve però muovere da un approccio almeno in parte dogmatico: occorre, sebbene in forma sintetica, elencare e (sommariamente) descrivere, quali sono le molteplici forme che la consulenza legale d’impresa può assumere nell’ordinamento attuale, ancorandole il più possibile alle norme (e alle relative interpretazioni) che disciplinano le varie attività che caratterizzano l’avvocato che presta assistenza e consulenza ad una società.

Gli avvocati degli enti pubblici

Secondo l’art. 23 della Legge 247 del 2012 “gli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici, anche se trasformati in persone giuridiche di diritto privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale annesso all’albo. L’iscrizione nell’elenco è obbligatoria per compiere le prestazioni indicate nell’articolo 2. Nel contratto di lavoro è garantita l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato”.

Di fatto, la norma predetta delinea una peculiare declinazione del giurista d’impresa, che coincide con un avvocato, iscritto in apposita sezione dell’albo, che può effettivamente esercitare la professione forense, ma esclusivamente a favore dell’ente al quale è legato da un rapporto “interorganico”.

In tale contesto viene pertanto in rilievo una peculiare deroga al principio dell’incompatibilità dell’attività professionale con la qualità di impiegato[1].

Un classico esempio di tale prototipo: coloro assumono una qualifica dirigenziale nelle società partecipate, ed in particolare nella relativa direzione legale.

Normalmente tali figure dirigenziali vengono iscritte alla sezione speciale in parola, ove regolamenti e statuti dell’ente lo prevedano; come accennato, quasi sempre chi si iscrive a tale sezione, al di là della propria formazione universitaria o comunque del proprio background professionale, è collocato (in termini di organigramma) nella direzione legale della persona giuridica che lo assume.

Orbene, a scanso di equivoci, occorre da subito rimarcare un fondamentale connotato di tale “dimensione” del giurista d’impresa: trattasi di avvocati che sono legati ad un ente che ha natura “pubblicistica” in senso lato (la norma è chiara nel menzionare gli enti pubblici, anche se trasformati in persone giuridiche di diritto privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da enti pubblici).

Ed invero, il Consiglio Forense ha chiarito che “L’avvocato, per quanto in possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, se titolare di un rapporto di lavoro subordinato con un privato, non è legittimato a chiedere l’iscrizione nell’elenco speciale di cui all’art. 23 della legge professionale” (Cons. Naz. Forense, 26/08/2020, n. 161).

L’esatta “perimetrazione” della facoltà che spettano ad un avvocato “interno” all’ente, in realtà, non è agevole. Gli stessi requisiti per l’iscrizione alla predetta sezione sono stati spesso oggetto di oscillazioni interpretative.

L’iscrizione alla sezione ex art. 23 della l. n. 247/2012 richiede il concorso di tre requisiti ineludibili: in primis, deve esistere, nell’ambito strutturale dell’ente pubblico (o ente assimilato), un ufficio legale che costituisca un’unità organica autonoma; in secondo luogo, il professionista che richiede l’iscrizione deve svolgere l’attività “legale” per la trattazione delle cause e degli affari propri dell’ente in via esclusiva (non è possibile, pertanto, mediante quell’iscrizione patrocinare o fornire consulenza in favore di persone fisiche o giuridiche “altre” rispetto all’ente di appartenenza); da ultimo, il “dipendente avvocato” deve essere stabilmente assegnato all’ufficio legale[2].

Tali requisiti sono stati ulteriormente descritti e delineati dalla giurisprudenza del CNF.

Con la recente sentenza n. 170 del 14 settembre 2023 il Consiglio Nazionale Forense, negando la legittimità dell’iscrizione di un funzionario provinciale gerarchicamente dipendente dalla segreteria generale dell’ente di appartenenza, ha evidenziato quanto segue: “Costituiscono, poi, corollari di tali principi le ulteriori circostanze costituite dalla sostanziale estraneità del richiedente rispetto all’apparato amministrativo burocratico dell’Ente in posizione di indipendenza e di autonomia, con esclusione di ogni attività di gestione, allo scopo di evitare qualsiasi rischio di condizionamento nell’esercizio della sua attività professionale (ex multis, Consiglio Nazionale Forense sentenza n. 124 del 26 giugno 2021; Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 161 del 26 agosto 2020; Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 40 del 25 febbraio 2020)[3].

Certo è, volendo rispettosamente fornire uno spunto “critico” in relazione al quadro delineato, che non appare semplicissimo individuare se e in che termini un avvocato inserito organicamente in un ente possa dirsi (contemporaneamente) “estraneo” all’apparato burocratico dell’ente.

Peraltro, il fatto che tale peculiare figura di avvocato non debba svolgere compiti di natura gestionale, a modesto avviso di chi scrive, rappresenta un ulteriore elemento critico, o comunque di non semplice interpretazione, nella quasi totalità dei casi.

A livello pratico, il “legale dell’ente” per poter essere iscritto all’apposita sezione dovrebbe di fatto assumere una peculiare veste professionale para-forense, connotata da assistenza e consulenza legale all’ente in senso ortodosso, seppur mantenendo autonomia, indipendenza ed estraneità rispetto alle canoniche mansioni “in senso lato burocratiche”, che quasi fisiologicamente caratterizzano le direzioni legali di enti pubblici e società partecipate.

Ed in ragione di tale rigido (seppur ragionevole) principio il CNF ha avallato la mancata iscrizione di una professionista del Foro di Milano, in quanto la stessa, assunta nell’Ufficio “Legale Commerciale, Regolazione, Sviluppo e Estero” di una società partecipata, aveva (a parere del COA di Milano e poi del Consiglio Nazionale Forense) una mera “funzione gestoria, occupandosi di assicurare il necessario supporto allo sviluppo del business” (CNF sentenza n. 15 del 2020)[4].

In sostanza, o si curano gli aspetti legali, o si svolgono mansioni di natura gestoria – burocratica. Ma la zona grigia, secondo il modestissimo parere di chi scrive, è enorme.

In concreto, occorre avere un approccio casistico: è praticamente impossibile comprendere in astratto se l’avvocato che ambisce all’iscrizione (ed alla successiva permanenza) nella “sezione speciale dell’Albo”, risponda effettivamente alla summenzionata figura ibrida, che è da un lato autonoma/indipendente (lontana dalle mansioni gestorie e dalle direttive dei vertici) e, dall’altro lato, “funzionale” all’assistenza legale esclusiva dell’ente che lo ha assunto.

Ed anzi, per capire se il dipendente/avvocato possa iscriversi alla suindicata sezione, sarebbe necessario, a parere di chi scrive, entrare nel merito delle mansioni svolte all’interno dell’ente ed al modus attraverso il quale tali mansioni vengono svolte. Tale opera “investigativa” non appare agevole.

Anche l’Anac in passato è stata chiamata a fornire il proprio contributo nell’opera di “delineazione” dei connotati dell’avvocato iscritto alla sezione speciale.

In particolare, tale Autorità è stata chiamata ad esprimersi con riferimento alla possibile attribuzione di talune specifiche funzioni all’avvocato iscritto alla sezione speciale dell’albo: l’Anac ha rassegnato il proprio parere in ordine alla possibilità che l’avvocato iscritto alla sezione speciale possa altresì assumere il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.

Con la Delibera numero 841 del 2 ottobre 2018, la suindicata Autorità ha sottolineato quanto segue:

“Ritenuto che non spetti all’ANAC l’interpretazione del requisito di esclusività della funzione di avvocato di un ente pubblico iscritto all’albo speciale di cui alla legge 247/2012. Ritenuto, invece, che spetti all’ANAC esprimersi sul rapporto fra il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza e quello di avvocato di un ente pubblico iscritto all’albo speciale di cui alla legge 247/2012 e sulla possibilità di attribuire i due incarichi alla medesima persona. Considerato che quello di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza è un ruolo che comporta necessariamente rapporti costanti e diretti con l’organo di vertice e con tutte le strutture dell’amministrazione. Considerate le numerose attribuzioni del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, alcune delle quali presentano profili di natura gestionale e sanzionatoria. Ritiene altamente non opportuno attribuire il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza agli avvocati iscritti all’albo speciale delle amministrazioni e degli enti pubblici ai sensi dell’art. 23 della legge 31 dicembre 2012, n. 247”[5].

In tale contesto l’Anac si è espressa in modo deciso a favore della necessaria “scissione” tra il ruolo dell’avvocato c.d. “dell’ente pubblico” e i rapporti interlocutori “costanti e diretti con l’organo di vertice”.

Ma l’organo di vertice, in realtà, ove la direzione legale si trovi ad “amministrare” alcuni profili legati ai procedimenti che direttamente o indirettamente coinvolgono la persona giuridica, riceve dalla medesima direzione flussi e aggiornamenti costanti. Pertanto, in sintesi, non appare semplice applicare in modo “categorico” il principio rimarcato dall’Autorità poiché, quand’anche si “superasse” la condizione ostativa delle attribuzioni “gestionali”, rimarrebbe sempre sottoposto ad oscillazioni e fattori multiformi il requisito dell’effettiva “lontananza interlocutoria” dall’organo di vertice.

Di fatto, per capire se l’avvocato iscritto all’albo nella sezione speciale sia “meritevole” di tale “concessione” (pur essendo un dipendente) occorrerebbe osservare dall’interno l’attività legale dallo stesso espletata in favore della persona giuridica.

Per una maggiore comprensione dei connotati e degli orizzonti operativi dell’avvocato dell’ente pubblico è possibile altresì consultare il “Regolamento degli Uffici Legali degli enti Pubblici” dell’Ordine degli Avvocati di Roma[6].

Dal predetto Regolamento si evince in modo ancor più chiaro (in quanto tale profilo va inserito e descritto nella medesima domanda di iscrizione all’apposita sezione) che l’ufficio legale dell’ente dovrebbe essere (ai fini dell’ammissione della domanda di iscrizione) una “unità organica pienamente autonoma ed indipendente, anche sotto il profilo strutturale e organizzativo”.

Ben si comprende la ratio di tale assunto, ma nella realtà applicativa non appare semplice individuare in modo immediato “uffici legali degli enti” che siano ictu oculi “autonomi ed indipendenti sotto il profilo strutturale ed organizzativo”, anche perché gli incarichi dirigenziali funzionali alla direzione degli uffici legali spesso rappresentano una proiezione delle scelte dei vertici.

Ad ogni modo, il medesimo Regolamento è chiaro nel rimarcare “diritti e doveri degli avvocati pubblici” (artt. 9 – 15), delineando una figura professionale ibrida, che da un lato gestisce la propria attività in autonomia (dal punto di vista intellettuale, decisionale e logistico), ma che – d’altro lato – esercita la propria attività professionale esclusivamente nei confronti dell’ente di appartenenza, al quale di fatto deve sempre e comunque “rendere conto”.

Una volta esaurita questa prima analisi della figura dell’avvocato dell’ente pubblico, nella sua veste di “ibrido” tra dipendente e attore forense, si proseguirà la disamina panoramica delle varie declinazioni del giurista d’impresa, con una breve descrizione delle più ricorrenti attività svolte dall’avvocato “ordinario” in favore delle persone giuridiche.

L’avvocato come protagonista della compliance aziendale, in chiave moderna. Prevenzione del rischio di illecito e rating di legalità

La compliance aziendale muove da alcune direttrici tipiche, che individuano fondamentalmente delle aree di attività “classiche” in cui il c.d. giurista d’impresa può svolgere la propria funzione: la c.d. compliance 231, la c.d. privacy e il settore “anticorruzione e trasparenza”.

Nella compliance relativa al D.lgs. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), volendo esemplificare al massimo l’analisi di tale “settore”, il giurista d’impresa può assumere le seguenti funzioni: il ruolo di colui che predispone e redige il MOG 231 (modello di organizzazione, gestione e controllo); il ruolo di OdV (organismo di vigilanza; cfr. art. 6 del predetto testo normativo); l’assistenza in giudizio dell’ente ove venga mossa una contestazione avente ad oggetto la responsabilità amministrativa discendente da reato.

Se si associa la figura del “giurista d’impresa” ad un’attività prettamente extra-giudiziale, è opportuno focalizzarsi sulle prime due aree di attività (redazione del MOG e assunzione della carica di OdV) posto che l’assistenza in giudizio dell’ente è concettualmente “attività di natura processuale” che coinvolge il ruolo dell’avvocato in senso lato e non il paradigma del giurista d’impresa in senso stretto (almeno secondo l’angolo visuale che si sta cercando di proporre all’interno del presente contributo).

Tale organismo è in un certo senso responsabile della corretta attuazione ed implementazione del MOG 231 eventualmente adottato dalla società.

In altri termini, l’OdV assolve una funzione essenziale: determina che il MOG 231 non rimanga un mero documento privo di attuazione, cosa che – evidentemente – neutralizzerebbe tutti gli effetti in senso lato “preventivi” che discendono dalla sua adozione.

Ad onor del vero il D.lgs. 231/2001 non fornisce indicazioni esatte sulla composizione dell’OdV (il quale può essere monocratico o collegiale) e su eventuali “incompatibilità” dei suoi componenti.

In effetti l’unica vera “linea guida” che il Decreto in parola esprime sui requisiti dell’OdV è introdotta dall’art. 6 comma 1 lett. b): secondo tale norma l’OdV deve avere “autonomi poteri di iniziativa e di controllo”, che debbono assicurare una “vigilanza effettiva”[7].

I principi di autonomia ed indipendenza sono stati approfonditi dalla celebre sentenza del Tribunale di Vicenza n. 348 del 17.6.2021 (nota anche come sentenza sul “caso Banca Popolare di Vicenza”).

In quella sede si è avuto modo di rammentare che l’inadeguatezza dell’OdV, soprattutto in termini di mancata autonomia ed indipendenza, rende di fatto inefficace il modello (con tutti i tangibili rischi annessi per l’ente che lo ha adottato).

La sentenza muove dall’assunto secondo il quale il predetto organismo non può di certo dirsi autonomo ed indipendente, se: 1) all’interno del “collegio” sono presenti il direttore della funzione Internal Audit che dipenda gerarchicamente dai soggetti che – con riguardo ai reati oggetto del processo – era tenuto a controllare (di fatto rimarcandosi la necessaria autonomia gerarchica e funzionale tra “controllante e controllato”); 2) gli altri due membri sono professionisti che hanno ricevuto dalla società ingenti retribuzioni (evidenziandosi, nella sostanza, che il conferimento di incarichi remunerati potrebbe essere inteso come un vulnus all’effettiva indipendenza ed autonomia di chi assume tali elargizioni).

E peraltro (ed è questo forse il profilo che più dovrebbe interessare il giurista d’impresa in senso lato) il Tribunale, con un ragionamento difficilmente criticabile, sottolinea l’insufficienza dell’attività dell’OdV se la stessa è “assolutamente inconsistente, che si esaurisce in un esercizio formale della funzione, limitata ad un confronto con il responsabile della funzione compliance e il presidente del collegio sindacale su alcune tematiche di poco spessore, senza programmazione di alcuna autonoma attività di verifica […] e senza alcun minimo accenno a tematiche attinenti ad effettive criticità rilevate, nemmeno quelle afferenti i casi più eclatanti”.

In concreto: il Tribunale sembra mandare un monito a tutti coloro che espletano la propria attività nell’ambito della compliance (ciò vale tanto per l’OdV, quanto – mutatis mutandis – per la funzione internal audit, o per il Data Protection Officer in materia di privacy) invitando i protagonisti di questo settore a sviluppare controlli, attività di studio ed analisi, nonché forme di monitoraggio, realmente orientate ad individuare le patologie del funzionamento aziendale in modo autonomo, sistematico e – verrebbe da dire – quasi “inaspettato” per chi assume la veste del “controllato”.

Ciò impone, peraltro, che tutte le attività del giurista d’impresa che cura la compliance aziendale debbano essere sempre tracciate e documentate, tanto per una premura “professionale” del legale (se non altro sotto il profilo delle responsabilità), quanto per rendere veramente tangibile ex post che l’azienda, per il tramite degli organismi nominati, abbia veramente attuato un’attività di prevenzione del rischio seria e concreta[8].

Sotto il profilo teorico, ad ogni modo, la giurisprudenza della Cassazione e le Linee guida di Confindustria avevano già in precedenza esaminato e dato forma ai paradigmi di “autonomia” e di “effettività della vigilanza” dell’organismo in parola, evidenziando che gli stessi sono garantiti ove l’OdV (e quindi i suoi membri) abbiano un profilo autonomo ed indipendente e l’esercizio della funzione assolta sia caratterizzato da continuità di azione e professionalità.

In tal senso, è stato indicato in modo chiaro che, fermo il requisito della professionalità (che rappresenta comunque, a modesto parere di chi scrive, un parametro molto più vago di quanto appaia),  il più importante principio che deve essere rispettato in tale contesto è il seguente: non vi può essere identità tra controllato e controllante (Cass. Sez. Unite 24.4.2014 n. 38343), proprio per garantire che le attività di controllo siano scevre da condizionamenti di alcun genere da parte dei vertici societari.

Visti i connotati essenziali del giurista d’impresa nominato OdV, è possibile sviluppare una minima riflessione su chi fornisce consulenza in ambito di “compliance 231” pur non assumendo il predetto incarico.

In una visione moderna, avallata, come si dirà in seguito, dalla più recente giurisprudenza (cfr. Cass. Pen. Sez. IV, n. 18413 del 2022), l’avvocato chiamato a fornire consulenza per prevenire il rischio di illeciti non dovrebbe concentrarsi in modo esclusivo sulla classica dicotomia “Modello 231 – prevenzione del rischio di reato”.

In effetti, oggi il giurista d’impresa è chiamato a fornire consulenza in materia “preventiva” anche alle società che non gli chiedano direttamente di redigere il MOG 231 o di assumere l’incarico di OdV.

E’ ormai noto che ogni società che voglia realmente prevenire la commissione di illeciti al proprio interno, debba adottare policy, procedure e linee guida specifiche, volte a disciplinare i comportamenti di tutti gli stakeholders: in concreto, volendo esemplificare, la società dovrebbe in primis predisporre specifiche procedure aziendali e – successivamente – farle confluire nel MOG 231.

Il c.d modello 231, in tal senso, potrebbe diventare fisiologicamente la “normativa interna di cornice” che armonizza e collaziona tutti i principi espressi e metabolizzati nelle policy che orientano le singole funzioni aziendali (e in generale i comportamenti degli stakeholders dell’azienda).

E nella predisposizione di tali politiche regolamentari interne all’ente il giurista d’impresa dovrebbe, ad avviso di chi scrive, seguire delle linee guida così riassumibili: ancor prima di adottare il modello 231, per raggiungere certi standard di legalità, l’impresa dovrebbe implementare specifiche procedure; nel supporto alla predisposizione di tali policy/procedure il legale incaricato deve avere la capacità e la sensibilità di confrontarsi con la direzione aziendale che verrà “toccata” da queste “regole interne”; il modello 231, per assurdo, potrebbe non essere stato adottato, ma un sano e strutturato meccanismo di procedure interne, volto alla prevenzione del rischio di illeciti, potrebbe essere sufficiente a determinare l’esenzione da responsabilità della società (sul punto si veda Cassazione Penale, Sez. IV, n. 18413 del 14 febbraio 2022)[9]; il modello 231 è oramai strumento essenziale per tutte le realtà aziendali “ambiziose” perché, oltre ad assolvere la canonica funzione preventiva in ordine al rischio di reato, può esprimere una sorta di certificazione di affidabilità nei confronti della pubblica amministrazione e del ceto bancario.

Ed è proprio in tale ottica che il giurista d’impresa può fornire alla propria “azienda – cliente” la prospettiva di un nuovo “investimento” in materia di compliance, che può determinare tangibili benefici commerciali.

Per il tramite dell’attività preventiva identificata soprattutto nell’adozione di policy e MOG 231, si può chiedere ed ottenere un punteggio più alto nel c.d. rating di legalità.

Il rating di legalità è uno strumento (concettualmente una certificazione) che le imprese italiane possono “richiedere” (mediante specifica procedura telematica) all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che serve – in estrema sintesi – a rendere noto alle Pubbliche Amministrazioni con le quali si intraprendono rapporti negoziali quali sono gli standard di legalità certificati raggiunti dall’azienda (cfr. Decreto interministeriale del 20 febbraio 2014 n. 57  – Rating di  legalità)[10].

Tra i requisiti che debbono essere autocertificati per accedere al rating, taluni implicano fisiologicamente (o comunque frequentemente) il supporto consulenziale del giurista d’impresa: adesione a protocolli di legalità del Ministero dell’Interno con associazioni di categoria; adozione di una funzione di audit o di un modello organizzativo ex D. Lgs. 231/2001; adozione di processi organizzativi in materia di Corporate Social Responsibility; aver adottato codici etici di autoregolamentazione; aver adottato modelli organizzativi di prevenzione e contrasto della corruzione; aver denunciato reati commessi in danno dell’imprenditore, dei familiari o dei collaboratori, se l’azione penale è stata esercitata.

In estrema sintesi, in conclusione, è possibile affermare quanto segue: il giurista d’impresa oggi può identificarsi anche e soprattutto con la figura (in senso lato consulenziale) che fornisce supporto nell’adozione di tutte quelle “buone pratiche” atte ad ottenere degli standard di legalità certificati, affiancando l’azienda in tutti quei processi funzionalmente prodromici alla prevenzione di illeciti ed utili a rendere in generale l’impresa eticamente più solida e – quindi – commercialmente più affidabile.

Nel contesto delineato la redazione del c.d. modello 231, l’assunzione dell’incarico quale OdV, la predisposizione del modello anticorruzione e trasparenza, il supporto nella redazione di procedure di tax control framework e, in generale, l’ausilio nell’implementazione di procedure finalizzate a prevenire condotte illecite, sono solo alcune tra le tante attività che il giurista d’impresa può svolgere.

Ognuna di queste attività richiede una specifica formazione, grande abnegazione nell’aggiornamento e, senza dubbio, una spiccata capacità di creare una sintesi dei contributi di professionalità diverse ed eterogenee che partecipano al processo di implementazione delle suindicate “policy” di autoregolamentazione.

Ulteriori figure professionali che possono prestare attività di consulenza (o assistenza) legale in favore della persona giuridica. Soggetto interno agli uffici legali dell’ente o soggetto esterno abilitato all’esercizio della professione. Limiti e facoltà.

Esaminati, seppur in forma sintetica, i principali tratti distintivi di quelle che sono tipicamente le figure professionali protagoniste dell’assistenza e della consulenza all’ente, occorre rimarcare che – naturalmente – non tutte le “professionalità” che asseriscono di disporre di un background nozionistico di tipo giuridico possono realizzare le predette “prestazioni di opera intellettuale” in favore di un ente.

In primo luogo, sebbene possa sembrare scontato, è necessario rammentare che tanto l’attività assistenziale di natura giudiziale, quanto l’attività concettualmente “consulenziale” (che abbia ad oggetto temi, argomenti, quesiti e pareri di natura giuridica) non possono essere fornite da chi non è iscritto all’albo professionale.

O meglio: se l’ente si rivolge ad un proprio dipendente (rapporto interorganico) per fargli svolgere attività che necessariamente includono una qual sorta di “consulenza legale” (si pensi a quanto accade nelle macroscopiche direzioni legali dei grandi gruppi aziendali), appare non essenziale che il suddetto “professionista” (lavoratore subordinato) sia anche iscritto all’albo; ed anzi, ciò che accade normalmente è l’esatto contrario, in quanto le direzioni legali fruiscono quotidianamente di pareri, opinioni, elaborati ed indicazioni fornite dai propri “legali interni”, che non sono iscritti quasi mai all’albo del foro di competenza (salvo i casi esaminati in precedenza, che riguardano chi è iscritto alla c.d. sezione speciale degli avvocati degli enti pubblici).

Tale attività richiesta ai “legali interni non iscritti all’albo” (assolutamente lecita e fisiologica, almeno a parere di chi scrive, altrimenti non esisterebbero direzioni ed uffici legali di alcuna azienda), incontra spesso un limite, o forse una sorta di “cautela”, che normalmente connota tali tipi di adempimenti: il dipendente della società (c.d. legale interno), probabilmente anche in ragione del fatto che non è abilitato all’esercizio della professione, non firma praticamente mai (almeno per quella che è l’esperienza diretta di chi scrive), o comunque non dovrebbe firmare mai, documenti che assumano formalmente le vesti dell’atto giuridico. In concreto: non firma atti e querele (perché, peraltro, normalmente non ha procure per farlo in favore dell’ente medesimo); non può chiaramente comparire in udienza; non fornisce pareri scritti (a propria firma) a terzi dipendenti coinvolti in procedimenti aventi ad oggetto le funzioni aziendali assolte.

Insomma, il dipendente dell’ufficio legale svolge un’attività che difficilmente potrà esulare dal mero supporto prestato in favore di chi lo dirige, ed in favore degli avvocati che assumono incarichi come “esterni” (una sorta di fisiologico “dietro le quinte”).

Viceversa, se l’ente si rivolge “al mercato” per beneficiare di una prestazione intellettuale, avente ad oggetto assistenza e/o consulenza legale, subentrano condizioni diverse per chi è chiamato ad adempiere.

In effetti, è noto che anche l’attività di mera consulenza giuridico legale, svolta da chi non è iscritto all’albo (intendendosi per tale, ovviamente, l’albo degli avvocati) possa integrare il reato di esercizio abusivo della professione. La società, pertanto, se si rivolgesse ad un consulente legale esterno, dovrebbe verificarne preliminarmente l’iscrizione all’albo professionale di appartenenza.

Sul punto, lo si rammenta per completezza e per fornire un parametro interpretativo attuale in merito a tali aspetti, la Cassazione ha statuito quanto segue: “Risponde del delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato colui che, senza essere iscritto all’albo, ponga in essere un qualunque atto idoneo ad incidere sulla progressione del procedimento, in rappresentanza dell’interessato, a nulla rilevando che l’atto possa essere redatto personalmente da quest’ultimo, mentre esulano dagli atti tipici della professione le attività di consulenza legale, che possono divenire rilevanti solo se svolte in modo continuativo(Cass. pen., Sez. VI, Sentenza, 30/10/2023, n. 47675 (rv. 285498-01))[11].

Peraltro, con una sentenza ancor più recente, la Suprema Corte ha ribadito i suindicati principi con un’attenzione peculiare all’attività stragiudiziale (Cass. Pen. Sez. VI n. 13341 del 2.4.2024)[12].

Quindi, in sintesi, appare possibile sostenere che chi non è iscritto all’albo professionale e non ha alcun rapporto di dipendenza con l’ente, a rigore, non dovrebbe fornire attività consulenziale/legale (e tanto meno attività di natura assistenziale) a società, enti o persone giuridiche in senso lato, qualunque sia la forma che esse assumono.

Viceversa, per l’avvocato iscritto all’albo di appartenenza appaiono innumerevoli, almeno potenzialmente, le attività da svolgere come “legale esterno di una società”.

In tal senso, nel concetto di “giurista d’impresa” si identificano diverse ed eterogenee possibilità di ricevere incarichi e mandati.

Data Protection Officer, consulenti in materia di anticorruzione e trasparenza e general counsel. Le tante altre professionalità riconducibili alla figura del giurista d’impresa, un fenomeno in un continuo divenire. Conclusioni

Il presente contributo è stato predisposto al fine di proporre un’analisi schematica di quelle che sono le più note ed attuali forme di assistenza e consulenza alle persone giuridiche e di fornire uno stimolo ad approfondire le tematiche giuridiche alle quali le società appaiono attualmente più sensibili.

In effetti, di contro, non sarebbe possibile sviluppare una lettura esaustiva di tutte le attività che il giurista potrebbe astrattamente espletare in favore di un’azienda.

E’ del tutto fisiologico che tali attività mutino, e in un certo senso si moltiplichino, in base alle esigenze industriali, commerciali e normative che il singolo settore di appartenenza dell’ente richiede.

Certo è che alcuni adempimenti e prestazioni di opera intellettuale appaiono utili (e talvolta fondamentali) in senso quasi trasversale.

In effetti, a titolo meramente esemplificativo, si evidenzia che ogni società potrebbe trarre tangibili benefici da specifiche consulenze in materia di prevenzione dei reati (intendendosi per tali le consulenze che sono finalizzate, in generale, a prevenire il rischio di malaffare, come quelle espletate nell’ambito dell’anticorruzione o quelle in materia di compliance 231; si pensi, in tal senso, anche a ciò che si è scritto in tema di rating di legalità).

Benefici inconfutabili si potrebbero trarre, altresì, dalle specifiche consulenze in tema di tutela dei dati personali.

Ed anzi, al di là del fatto che talune categorie di società sono tenute a nominare un Data Protection Officer[13], al giorno d’oggi appare pressoché ineludibile – per esempio – la necessità di rivolgersi ad un consulente legale esperto in materia di GDPR (Regolamento 2016/679), se non altro per la corretta gestione dei rapporti con clienti, dipendenti, fornitori ed utenti dei propri siti web.

La cultura della legalità e il necessario raggiungimento di determinati standard rappresentano peraltro un requisito essenziale per poter contrarre con la pubblica amministrazione.

A conferma dei predetti assunti, con specifico riguardo all’esigenza di adottare il c.d. modello 231, non si può ignorare, per esempio, che la politica (anche quella territoriale – regionale) stia iniziando a riflettere su una possibile “obbligatorietà” del MOG, soprattutto per determinati settori.

E’ notizia recente, in effetti, che il Consiglio Regionale della Regione Puglia stia (nuovamente) riflettendo sulla necessità di richiedere l’adozione del MOG a chi intraprenda rapporti negoziali con la PA (si veda in particolare la proposta di legge “Interventi regionali per la promozione e l’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo, ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”)[14].

Ma al di là degli specifici settori menzionati, in senso meramente esemplificativo, appare evidente che “essere giurista d’impresa” rappresenta oggi una ambizione comprensibile, che può portare grandi soddisfazioni di natura professionale, che assolve senza dubbio una funzione sociale, nella misura in cui contribuisce ad un maggiore rispetto di eticità e legalità nel settore societario ed industriale, ma da cui derivano notevoli responsabilità.

A parere di chi scrive, nel rispetto delle specifiche competenze professionali che connotano ogni avvocato, assistenza e consulenza legale alle persone giuridiche dovrebbero essere sempre fornite in “team”, nell’ottica di affrontare in modo compiuto e serio la grande sfida di un’azienda, ossia essere “compliant” con riguardo a tutte le norme che disciplinano il settore di appartenenza.

E allo stesso tempo ogni singolo professionista che intenda assumere incarichi concettualmente riconducibili al paradigma del “giurista d’impresa” non potrà mai ritenere di poter esaurire la propria prestazione in uno specifico ed isolato “adempimento”, senza tenere conto dei risvolti pratici che lo stesso rifletterà sulle varie funzioni aziendali.

Per essere più chiari, si possono fornire alcuni banalissimi esempi: è difficile ipotizzare che chi sia chiamato a redigere un MOG 231 per una società possa del tutto ignorare i risvolti in materia di privacy che derivano dalla predetta attività; come in fondo non si può immaginare un professionista che fornisca ausilio in materia di anticorruzione  e trasparenza che non vada a vagliare ed esaminare eventuali modelli di prevenzione del rischio di reato, già adottati dall’ente, nella parte in cui si menzionano i delitti contro la pubblica amministrazione.

Le funzioni aziendali devono essere “armonizzate” e lo stesso vale per le varie policy, procedure e modelli comportamentali che le disciplinano.

D’altronde, proprio in ragione di questi assunti, molto spesso gli organismi di vigilanza ex D.lgs. 231/2001 convogliano professionalità di natura diversa (avvocati, commercialisti, ingegneri).

In fondo, anche nelle grandi aziende il “legale interno” deve avere in primis la capacità di sintetizzare e rendere compatibili i diversi contributi e le eterogenee esigenze di tutte le professionalità che direttamente o indirettamente contribuiscono all’implementazione delle varie procedure e delle funzioni aziendali coinvolte.

Un lavoro, pertanto, anche di “collazione armonica” oltre che di diretta applicazione delle nozioni che fanno parte del patrimonio cognitivo del singolo giurista. In tale ottica il giurista d’impresa dovrebbe sempre prediligere un lavoro in “team”, non dovendosi – a modesto parere di chi scrive – ambire a fornire attività di consulenza e/o assistenza che richiederebbero una cultura giuridica di natura quasi enciclopedica.

[1] Cfr. sul punto Cass. civ., Sez. Unite, Ordinanza, 23/07/2021, n. 21164 (rv. 661855-01).

[2] Questo è uno dei motivi per cui diversi enti non consentono ai “giuristi” organicamente inseriti nella “direzione risorse umane” di iscriversi a tale sezione.

[3] Cfr. G. Mattiello, Avvocati di enti pubblici: i requisiti per l’iscrizione nell’elenco speciale. Il CNF chiarisce quali sono le condizioni per l’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo ai sensi dell’art. 23 della legge n. 247/2012 (sentenza n. 170/2023), in www.altalex.com (https://www.altalex.com/documents/news/2023/11/03/avvocati-enti-pubblici-requisiti-per-iscrizione-elenco-speciale).

[4] Cfr. Quali sono i requisiti imprescindibili per l’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’Albo degli avvocati?, 1.10.2020, redazionale in www.dirittoegiustizia.it, (https://www.dirittoegiustizia.it/#/documentDetail/9166567).

[5] https://www.anticorruzione.it/documents/91439/cf5f8746-8f91-2231-c57e-facf51d11d5e

[6] https://www.ordineavvocatiroma.it/wp-content/uploads/2020/01/regolamento-enti-pubblici.pdf

[7] Sul punto cfr. S. Peron, L’Organismo di vigilanza nel Decreto 231: requisiti e incompatibilità dei membri, 30.1.2021, in www.altalex.com (https://www.altalex.com/documents/news/2021/01/30/organismo-di-vigilanza-nel-decreto-231-requisiti-e-incompatibilita-dei-membri)

[8] Sul punto si osservi il punto di vista autorevole di C. Santoriello, Autonomia, indipendenza ed operato dell’Odv: note alla sentenza sul caso Banca Popolare di Vicenza, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 7-8 (https://www.giurisprudenzapenale.com/2021/07/01/autonomia-indipendenza-ed-operato-dellodv-note-alla-sentenza-sul-caso-banca-popolare-di-vicenza/)

[9] Cfr. F. Sardella, La mancata adozione del Modello organizzativo non determina la responsabilità dell’ente, Nota a sentenza Cassazione Penale, Sez. IV, n. 18413 del 14 febbraio 2022, in Norme e Tributi Plus, 16.5.2022 (https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/la-mancata-adozione-modello-organizzativo-non-determina-responsabilita-ente-ex-dlgs-23101-AEIml1YB?refresh_ce=1)

[10] Si tratta pertanto di una certificazione introdotta a partire dal 2012 che, mediante il conferimento di un indicatore alle imprese che ne abbiano fatto richiesta, attesta il grado di rispetto degli standard di legalità e il livello di attenzione riposto nella corretta gestione della propria attività imprenditoriale. Il rating così attribuito permette di conseguire vantaggi in anche in sede di concessione di finanziamenti pubblici e agevolazioni per l’accesso al credito bancario. Il rating di legalità, misurato in “stelle”, è attribuito dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato AGCM ed ha durata di due anni dal rilascio (può essere chiaramente rinnovato su richiesta dell’azienda). La certificazione del rating può essere richiesta dalle imprese (sia in forma individuale che societaria) che rispettino contemporaneamente determinati requisiti. In merito al rapporto sussistente tra compliance 231 e rating di legalità, si veda altresì G. Pezzano, Modelli 231 e rating di legalità. Regolamento attuativo AGCM n. 28361 del 28.7.2020, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 3 https://www.giurisprudenzapenale.com/2021/03/11/modelli-231-e-rating-di-legalita-regolamento-attuativo-agcm-n-28361-del-28-7-2020/

[11] In merito a tali profili si veda altresì A. Larussa, Usurpazione del titolo di avvocato ed esercizio abusivo della professione: differenze. Commette esercizio abusivo chi, non essendo iscritto all’albo, compie atti tipici o comunque caratteristici della professione forense (Cassazione n. 12729/2023), www.altalex.com.

https://www.altalex.com/documents/news/2023/04/07/usurpazione-titolo-avvocato-esercizio-abusivo-professione-differenze

[12] Cfr. A. Scarcella, Svolgere con continuità attività stragiudiziale è abusivo esercizio della professione forense, www.altalex.com https://www.altalex.com/documents/2024/04/10/svolgere-continuita-attivita-stragiudiziale-abusivo-esercizio-professione-forense

[13] Cfr. https://www.garanteprivacy.it/responsabile-della-protezione-dei-dati-rpd-

[14] Per uno specifico approfondimento sul tema si suggerisce la consultazione del sito istituzionale della Regione Puglia, ai link di seguito selezionati: https://www.consiglio.puglia.it/-/vii-commissione-parere-favorevole-alla-proposta-di-legge-per-l-adozione-di-un-modello-di-disciplina-della-responsabilit%C3%A0-amministrativa-delle-societ%C3%A0%C2%A0; in tale pagina di “comunicazione” dell’ente, si potrà leggere che “il testo normativo definisce l’ambito soggettivo di applicazione della legge, individuando le Agenzie regionali, le Società in house, le Società partecipate e gli Enti controllati e vigilati dalla Regione Puglia, Enti pubblici economici, nonché gli altri soggetti privati, con o senza personalità giuridica, destinatari di erogazioni pubbliche di somme a titolo di trasferimento, contributo, sovvenzione, rimborso ovvero di corrispettivo derivante dall’esecuzione di un appalto pubblico, come soggetti ai quali si applicano le disposizioni previste. Tanto al fine ulteriore di responsabilizzare il management e di richiamarlo al dovere di apprestare, all’interno di enti a struttura complessa e organizzata, sistemi di controllo e di vigilanza in grado di monitorare l’attività societaria e di scoraggiare il compimento di reati, posto che l’adozione di efficaci modelli organizzativi è in grado di ridurre sensibilmente il rischio della commissione di illeciti nell’ambito della politica di impresa e come espressione deviata di questa politica.

La Regione riconosce la fondamentale importanza dei principi ispiratori del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), allo scopo di contrastare la corruzione e il lavoro nero e di favorire la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro nonché il rispetto della normativa ambientale.

A tal fine impone l’adozione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, ai sensi del d. lgs. 231/2001, da parte dei soggetti pubblici e privati del sistema regionale. Entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, i soggetti interessati dovranno adottare modelli di organizzazione, di gestione e controllo ai sensi degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001, che prevedano, in relazione alla natura dei servizi e delle attività svolte e alla dimensione dell’organizzazione, misure idonee a garantire lo svolgimento della propria attività nel rispetto della legalità, della eticità e della trasparenza, e a prevenire eventuali situazioni di rischio riconducibili alle fattispecie di reato contemplate dal d. lgs. 231/2001”. 

Si veda altresì:

https://www.consiglio.puglia.it/-/azione.-presentata-nuovamente-proposta-di-legge-sulla-responsabilit%C3%A0-amministrativa-delle-persone-giuridiche

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