10 Maggio 2022

Fallimento e stabilità del piano di riparto nell’espropriazione forzata immobiliare

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. I, 20 aprile 2022, n. 12673, Pres. De Chiara – Est. Di Marzio

[1] Fallimento – Interferenze fra fallimento ed esecuzione forzata – Ipotesi patologica della dichiarazione di esecutività del progetto di distribuzione da parte del giudice dell’esecuzione reso edotto del fallimento – Conduzione dell’esecuzione al suo esito distributivo – Dichiarazione di esecutività del progetto di distribuzione – Inerzia del curatore – Conseguenze.

Massima: “In tema di interferenze fra procedura concorsuale ed esecuzione forzata, nell’ipotesi patologica in cui il giudice di quest’ultima, ancorché reso edotto del fallimento del debitore, dichiari l’esecutività del progetto di distribuzione, qualora il curatore rimanga inerte e non reagisca con il rimedio oppositivo, subisce l’irretrattabilità della successiva esecuzione del progetto in parola, cui consegue l’intangibilità delle somme concretamente attribuite”. 

CASO

[1] La vicenda decisa dal provvedimento in commento, che vede intrecciarsi una procedura fallimentare e un procedimento di espropriazione immobiliare, prende avvio con l’instaurazione, ad opera di un istituto di credito, di una procedura di esecuzione forzata retta da un contratto di mutuo fondiario.

In data 1° marzo 2006 interveniva il provvedimento di aggiudicazione dell’immobile; il successivo 20 marzo veniva però dichiarato il fallimento del debitore.

Il Fallimento, il successivo 22 marzo, optava per intervenire nell’espropriazione immobiliare negando la natura fondiaria del credito e chiedendo l’assegnazione al creditore procedente del solo residuo capitale.

In data 5 novembre 2009 il giudice dell’esecuzione depositava il piano di riparto.

Con ordinanza del 24 febbraio 2010, non impugnata, il giudice dell’esecuzione, rifacendosi ad orientamenti della Cassazione, escludeva la sussistenza di un obbligo di insinuazione al passivo per l’istituto di credito fondiario e disponeva la rettifica del piano di riparto.

Il successivo 20 luglio 2010, con ordinanza parimenti non impugnata, lo stesso giudice dichiarava esecutivo il progetto di distribuzione ordinando il pagamento delle singole quote di liquidazione in favore dei creditori e dichiarando l’esaurimento della procedura esecutiva.

In data 5 novembre 2012, il fallimento notificava all’istituto di credito atto di citazione mediante il quale ne richiedeva la condanna alla restituzione dell’intero importo corrisposto.

L’adito Tribunale di Palermo rigettava la domanda, sulla base della considerazione per cui il soggetto

espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso.

La Corte d’Appello siciliana rigettava l’appello proposto avverso tale decisione, osservando come il progetto di distribuzione rappresenti l’atto conclusivo del processo esecutivo, al quale deve essere riconosciuta non solo l’irrevocabilità tipica dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione, ma soprattutto il carattere preclusivo che consegue alla mancata attivazione degli interessati, nell’ambito dello stesso processo e con gli strumenti giuridici che questo offre a tutela degli interessi coinvolti: avendo il Fallimento partecipato al procedimento di espropriazione e non avendo proposto opposizione nelle forme di rito, deve ritenersi che sia precluso di esercitare l’azione di ripetizione di indebito.

Avverso tale pronuncia il Fallimento presentava ricorso per cassazione lamentando, in particolare: a) violazione e falsa applicazione degli artt. 512 e 615 c.p.c., anche in relazione agli artt. 51 e 52 l.fall., nella misura in cui la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto delle peculiarità ricorrenti nell’ipotesi di interferenza tra fallimento ed espropriazione immobiliare volta alla soddisfazione di un credito fondiario; b) violazione e falsa applicazione dell’art. 52 l.fall., anche in relazione all’art. 41 TUB, invocando il principio secondo cui la facoltà di prosecuzione dell’esecuzione individuale data in caso di credito fondiario si risolve in un mero privilegio processuale, che non altera le regole del concorso.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione esamina simultaneamente i due motivi di ricorso proposti, giudicandoli infondati.

La parte motiva del provvedimento ricorda l’orientamento di legittimità secondo cui l’approvazione del progetto di distribuzione comporta l’intangibilità della concreta ed effettiva attribuzione delle somme ricavate (da ultimo, Cass. 8 giugno 2021, n. 15963; in precedenza, tra le moltissime, Cass. 24 ottobre 2018, n. 26927; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23182; Cass. 30 novembre 2005, n. 26078; Cass. 8 maggio 2003, n. 7036). Le ragioni di tale soluzione affondano in tale considerazione: poiché l’esecuzione forzata è retta da un impianto che, attraverso le opposizioni esecutive, è idoneo a garantire la conformità a diritto del procedimento esecutivo e del risultato da esso attinto, deve di necessità osservarsi che, ove si ammettesse che tale risultato possa essere travolto a esecuzione conclusa (ad esempio a mezzo di azioni recuperatorie o risarcitorie), si creerebbe un cortocircuito nello stesso funzionamento del sistema. Di qui, l’irretrattabilità dell’ordinanza di distribuzione che non sia stata oggetto di contestazione ai sensi dell’articolo 512 c.p.c. o, comunque, di opposizione esecutiva.

Nel caso di specie, il Fallimento è intervenuto nella procedura esecutiva, spiegando intervento – che viene ricondotto non all’art. 107 l.fall., ma all’art. 41 TUB -, ma non ha reagito all’ordinanza del 24 febbraio 2010, con la quale si negava che il creditore fondiario dovesse effettuare l’insinuazione al passivo; inoltre, dopo che il giudice dell’esecuzione ha dichiarato esecutivo il progetto di distribuzione assegnando al creditore procedente poco meno che l’intera somma ricavata dalla vendita forzata del compendio immobiliare, è rimasto inerte.

In altri termini, il Fallimento, dopo essere intervenuto nel processo esecutivo, sostanzialmente opponendosi a che l’esecuzione intrapresa potesse concludersi in quella sede, ha poi ritenuto, a seguito della dichiarazione di esecutività del progetto di distribuzione, di non avvalersi dei rimedi che pure gli spettavano e ha consentito che il processo esecutivo al quale aveva partecipato si chiudesse nel senso indicato: sicché, secondo la decisione in esame, esso subisce l’effetto di irretrattabilità di cui si è detto.

QUESTIONI

[1] Il provvedimento in commento, come accennato, affronta il tema inerente ai rapporti tra fallimento ed espropriazione forzata immobiliare, nella particolare ipotesi in cui il creditore procedente in via ordinaria sia un istituto di credito che agisca in forza di un contratto di mutuo fondiario.

La fattispecie decisa si riferisce a una eventualità del tutto patologica, in cui il giudice dell’esecuzione ha condotto la procedura esecutiva al suo esito, con l’approvazione del progetto di distribuzione e la sua successiva esecuzione, pur reso edotto dall’intervenuta dichiarazione di fallimento, senza che una insinuazione al passivo del creditore fondiario vi sia stata e senza che, per conseguenza, il giudice del fallimento abbia potuto verificare il credito.

Per delineare i rapporti tra le due procedure è sicuramente utile ricordare la ricostruzione formatasi in via giurisprudenziale già prima della riforma della legge fallimentare, e che ha poi trovato espresso riconoscimento normativo nell’art. 52 l.fall.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, anche precedente la menzionata riforma, l’art. 41 TUB attribuisce al titolare del credito fondiario la facoltà di iniziare e proseguire l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia del credito medesimo, nei confronti del debitore, nonostante il fallimento di questi, ma tale facoltà non esclude il potere del giudice del fallimento di disporre la liquidazione degli stessi beni in sede fallimentare: le due procedure non sono cioè incompatibili, ma devono coordinarsi tra loro e, per tale aspetto, concernente l’individuazione del giudice cui spetta di vendere, il coordinamento è operante sulla base del criterio temporale, e dunque in considerazione dall’anteriorità del provvedimento che dispone la vendita (in tal senso, già Cass. 28 gennaio 1993, n. 1025; Cass. 8 settembre 2011, n. 18436).

D’altro canto, un certo grado di osmosi tra le procedure è dato dalla previsione dell’intervento del curatore nell’esecuzione, come stabilito dall’art. 41 TUB. Si tratta di un peculiare intervento, con finalità anzitutto informativa, ma altresì diretto a far valere in sede esecutiva tutte le ragioni della procedura concorsuale, ivi compresa quella volta al recupero di quanto residua dopo la soddisfazione provvisoria del creditore fondiario. Tale intervento rimane dunque ben distinto da quello di cui dall’art. 107 l.fall.

Ancora, è noto come l’art. 41 TUB assegni al creditore fondiario un privilegio di carattere meramente processuale, essenzialmente consistente, per l’appunto, nella facoltà di avvalersi dell’esecuzione individuale, ma che non incide affatto sulla portata sostanziale del diritto di detto creditore ad essere soddisfatto: il creditore fondiario, cioè, non può ottenere dall’esecuzione individuale nulla più di quanto otterrebbe attraverso il concorso fallimentare.

La norma, dunque, non comporta alcuna deroga ai principi del concorso sostanziale e formale (e in particolare al principio di esclusività della verifica fallimentare dall’art. 52 l.fall., non potendosi ritenere che il rispetto di tali regole sia assicurato nell’ambito della procedura individuale dall’intervento del curatore fallimentare: Cass. 11 ottobre 2012, n. 17368, sulla linea di Cass., sez. un., 17 dicembre 2004, n. 23572), bensì esclusivamente al divieto di azioni esecutive individuali in pendenza di procedura, di cui all’art. 51 l.fall.

Ne discende che l’assegnazione della somma disposta nell’ambito della procedura individuale, come rammentato dal ricorrente, ha carattere provvisorio, essendo onere del creditore di insinuarsi comunque al passivo del fallimento, in vista della graduazione dei crediti cui è strumentale la procedura concorsuale (principio, quest’ultimo, da lungi consolidato: Cass. 15 gennaio 1998, n. 314; Cass. 17 dicembre 2004, n. 23572; Cass. 28 maggio 2008, n. 13996; Cass. 10 ottobre 2012, n. 17368).

L’esecuzione individuale, perciò, non si sottrae alla disciplina concorsuale in materia di accertamento dei crediti e dei privilegi e alla ripartizione della somma ricavata (Cass. 21 marzo 2014, n. 6738; Cass. 8 settembre 2011, n. 18436), e il coordinamento fra esecuzione individuale e concorsuale è, come si diceva, assicurato in ragione dell’attribuzione del carattere di provvisorietà all’assegnazione operata in sede di esecuzione forzata individuale, unitamente alla connessa imposizione al creditore dell’onere d’insinuarsi al passivo del fallimento per conseguire il risultato dell’esecuzione. In tal modo, il creditore fondiario vedrà integralmente soddisfatto il suo credito ove nei suoi riguardi, in sede fallimentare, risulti esservi capienza, mentre vedrà il proprio credito falcidiato in presenza di crediti prededucibili o muniti di cause di prelazione di grado superiore al suo, dovendo in tal caso restituire alla massa le somme eventualmente percepite in eccesso rispetto a quelle riconosciute nel riparto fallimentare.

Tali orientamenti, come si diceva, hanno trovato consacrazione normativa con la riforma della legge fallimentare, e in particolare tramite la riscrittura dell’art. 52 l.fall., il quale, dopo aver stabilito, al suo secondo comma, che ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile deve essere accertato in sede di concorso, ha precisato che: «Le disposizioni del secondo comma si applicano anche ai crediti esentati dal divieto di cui all’articolo 51», ossia dal divieto di azioni esecutive e cautelari individuali, come accade appunto per il credito fondiario.

In relazione alla vicenda in esame, peraltro, dev’essere precisato che tale “nuovo” terzo comma dell’articolo 52 è applicabile, in forza dell’articolo 22, secondo comma, d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, «ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, nonché alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore»: dunque, lo stesso non è applicabile al caso in esame, che rimane però soggetto ai principi di cui si è detto, già in precedenza formatisi.

Ancora, in relazione a un caso in cui, dichiarato esecutivo il piano di riparto dal giudice dell’esecuzione, il curatore fallimentare aveva spiegato opposizione agli atti esecutivi, respinta con decisione poi cassata, la Suprema Corte ha affermato che per ottenere l’attribuzione (in via provvisoria) delle somme ricavate dalla vendita, il creditore fondiario dovrà documentare al giudice dell’esecuzione di avere sottoposto positivamente il proprio credito alla verifica del passivo in sede fallimentare, cioè di aver proposto l’istanza di ammissione al passivo del fallimento e di avere ottenuto un provvedimento favorevole dagli organi della procedura (anche se non ancora divenuto definitivo). Solo in tal caso il giudice dell’esecuzione potrà attribuire al suddetto creditore il ricavato della vendita e dovrà farlo nei limiti del provvedimento di ammissione, disponendo la restituzione del residuo al Fallimento. In caso contrario (cioè, laddove l’istituto di credito non abbia affatto presentato l’istanza di ammissione al passivo, in violazione dell’art. 52 l.fall., ovvero il suo credito sia stato escluso dal passivo), l’intero ricavato della vendita non potrà che essere rimesso agli organi della procedura fallimentare, per essere distribuito in tale sede (il riferimento è a Cass. 28 settembre 2018, n. 23482, relativamente alla quale si legga M. Montanari, Il credito fondiario fra esecuzione e fallimento, in M. De Cristofaro, M. Pilloni (a cura di), Recenti prospettive in tema di processo esecutivo, Torino, 2020, 71 ss.).

Così tratteggiato il quadro dei rapporti tra le due procedure, possiamo esaminare il principio di diritto posto a base della decisione in esame, coincidente con l’affermata intangibilità dell’attribuzione delle somme ricavate in sede di esecuzione individuale, quale conseguenza discendente dall’approvazione del progetto di distribuzione.

Nella giurisprudenza di legittimità, il riconoscimento della stabilità dei risultati del processo esecutivo ha trovato un inquadramento complessivo in una decisione ormai remota, nella quale è stato affermato, sulla scia della giurisprudenza precedente, che il processo esecutivo per espropriazione forzata è costruito come successione di subprocedimenti, culminanti nell’adozione di successivi provvedimenti, ai quali è tendenzialmente estranea la regola della propagazione delle nullità processuali dettata dall’articolo 159 c.p.c., con la conseguenza che la definitività del provvedimento che conclude ciascun subprocedimento, una volta che abbia avuto esecuzione, diviene irretrattabile (Cass., sez. un., 27 maggio 1995, n. 11178).

In altri termini, la definitività dei risultati dell’esecuzione trova fondamento, oltreché nell’irrevocabilità dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione, una volta attuati, ex art. 487, primo comma, c.p.c., nell’intrinseca caratteristica del procedimento esecutivo, improntato al rispetto di apposite forme, istituite allo scopo di salvaguardare i contrapposti interessi delle parti, procedimento entro il quale sono apprestati rimedi processuali, ossia le opposizioni di cui agli articoli 615 e 617 c.p.c., utili ad assicurare la legittimità della procedura, sia sotto il profilo formale, sia sotto quello sostanziale. Sulla base di tali premesse si è poi definitivamente stabilizzato l’orientamento, risalente a un ancor più remota decisione, secondo la quale l’ordinanza distributiva costituisce “il culmine di un’attività giurisdizionale a contraddittorio eventuale, basata su un concetto di preclusione più ampio rispetto a quello del giudicato” (così, Cass. 3 luglio 1969, n. 2434).

Il principio di intangibilità dell’attribuzione delle somme ricavate in sede di esecuzione individuale quale conseguenza discendente dall’approvazione del progetto di distribuzione, posto a base della decisione in esame, rappresenta tuttavia una soluzione ampiamente avversata dalla dottrina (si v. A. Tedoldi, Esecuzione forzata, Pisa, 2021, 546 ss.): la stabilità degli effetti prodotti dall’esecuzione forzata non deriva dall’irrevocabilità del provvedimento che la conclude, bensì, eventualmente, dal provvedimento di merito, passato in giudicato, che attribuisce definitivamente un bene della vita all’avente diritto, soddisfattosi coattivamente attraverso l’esecuzione forzata. La distribuzione del ricavato, anche quando non sia stata contestata né impugnata, è un mero atto esecutivo che, conformemente alla funzione propria dell’esecuzione forzata, stabilizza unicamente gli esiti materiali di questa, senza poter incidere né modificare il diritto sostanziale così soddisfatto. Conclusa l’esecuzione, il debitore può metterne in discussione il risultato, agendo per la ripetizione dell’indebito: la preclusione della condictio indebiti non deriva mai dal riparto – che è stabile soltanto nel senso che, una volta approvato e decorsi i termini per impugnarlo, chiude l’espropriazione forzata e non è più revocabile né modificabile dal giudice dell’esecuzione – bensì da un provvedimento emesso all’esito del processo di cognizione, che accerti con efficacia di giudicato il diritto del creditore a ottenere la prestazione conseguita con il riparto.

Non è dunque il riparto a essere stabile, ma unicamente la cosa giudicata sostanziale a norma dell’art. 2909 c.c.

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Riforma del diritto fallimentare