10 Luglio 2018

Licenziamento intimato per malattia

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 22 maggio 2018, n. 12568

Licenziamento – Malattia – Mancato superamento periodo di comporto – Nullità

MASSIMA

Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 cod. civ., comma 2.

COMMENTO

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha risolto un’annosa questione relativa agli effetti del licenziamento intimato in costanza di malattia ancor prima del termine del periodo di comporto. Sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello aditi avevano statuito che, sebbene il periodo di comporto non risultasse esaurito alla data di intimazione del licenziamento, il recesso fosse da considerarsi non già invalido, ma meramente inefficace fino all’ultimo giorno di malattia. A fronte del ricorso per cassazione presentato dal lavoratore, la Sezione Lavoro della Suprema Corte ha rilevato l’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale, contrario a quello sostenuto nella sentenza impugnata, secondo il quale il licenziamento è nullo se irrogato prima che risulti esaurito il periodo di comporto. In adesione a tale tesi interpretativa, il lavoratore, come primo motivo del ricorso, denunciava la violazione dell’art. 2110 c.c.: il superamento del periodo di comporto – causa giustificativa del recesso datoriale – doveva sussistere già al momento dell’intimazione del licenziamento stesso. Le Sezioni Unite, ritenuto fondato tale motivo, hanno accolto il ricorso, statuendo che il licenziamento intimato in costanza di malattia senza che sia ancora superato il termine del periodo di comporto è nullo per violazione dell’art. 2110 co. 2 c.c. L’interpretazione della Corte parte dall’esatta lettura del licenziamento per superamento del periodo di comporto, oramai pacificamente fattispecie autonoma di recesso datoriale: si tratta, infatti, di una situazione che giustifica di per sé la risoluzione del rapporto di lavoro, rimanendo fattispecie diversa e distinta dal concetto di giusta causa o giustificato motivo ex art. 2119 c.c e art. 1 e 3 L. 604/66. Il protrarsi di assenze giustificate oltre un determinato limite prestabilito non è, infatti, un inadempimento, né ineriscono motivi oggettivi di incompatibilità tra l’assetto organizzativo-produttivo aziendale e il possibile rientro del lavoratore assente da tempo. Il tipo di licenziamento in esame trova fondamento in un’astratta predeterminazione legislativo-contrattuale del punto di equilibrio tra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilire le forze psico-fisiche necessarie per la ripresa del lavoro e l’interesse del datore di lavoro di non dover farsi carico a tempo indefinito delle conseguenze sull’organizzazione aziendale derivanti da una prolungata assenza. Ciò premesso, la Cassazione evidenzia l’errore in cui sono incorse le sentenze che hanno sostenuto la mera inefficacia del licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto. Queste, infatti, fanno sempre e solo riferimento a due precedenti giurisprudenziali in cui i Giudici si erano pronunciati su fattispecie in realtà differenti, alla cui base vi era un motivo diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia (es. giustificato motivo oggettivo derivante da sopravvenuta inidoneità, per riduzione di personale, per giusta causa, etc.). Tanto chiarito, la Corte richiama la precedente pronuncia a Sezioni Unite (sent. n. 2072/80), la quale già aveva ricordato che ai sensi dell’art. 2110 co. 2 c.c. il datore può recedere dal rapporto di lavoro solo dopo la scadenza del periodo di comporto e, conseguentemente, escluso che le reiterate assenze per malattia del dipendente potessero integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 L. 604/66. Riconoscere, dunque, che il licenziamento in esame sia valido, seppur momentaneamente inefficace, significa legittimare il recesso datoriale anche al di fuori delle ipotesi previste dall’ordinamento. Deve altresì essere esclusa la tesi secondo cui il licenziamento sarebbe temporaneamente inefficace ove il datore di lavoro avesse agito in buona fede, convito dell’avvenuta consumazione del periodo di comporto: l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile deve sempre, infatti, essere parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale. Nulla vieta, poi, che, una volta superato effettivamente il periodo, il datore possa (nuovamente) intimare il licenziamento, a quel punto pienamente efficace e legittimo. Parimenti da escludersi è la tesi per la quale il licenziamento sarebbe meramente ingiustificato, dovendosi ritenere tale solo quello che venga intimato mediante enunciazione di un giustificato motivo o di una giusta causa che risulti smentita all’esito di una verifica giudiziale. In definitiva, deve riconoscersi il carattere imperativo dell’art. 2110 co. 2 c.c., salvaguardando il valore della tutela della salute di cui all’art. 32 Cost.: il diritto del lavoratore, ammalato o infortunatosi, ad avvalersi delle opportune terapie non può essere leso dal timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro. Alla luce di tale portata, ogni decisione datoriale in sua violazione è nulla.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”