25 Ottobre 2016

La sentenza pubblicata due volte: di nuovo le Sezioni Unite

di Fabio Cossignani Scarica in PDF

Cass., sez. un., 22 settembre 2016, n. 18569

Impugnazioni in materia civile – Doppia annotazione in calce alla sentenza – Termine per impugnare ex art. 327, 1º comma, c.p.c. – Decorrenza dall’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico (Cod. proc. civ., artt. 133, 327)

Impugnazioni in materia civile – Doppia annotazione in calce alla sentenza – Termine per impugnare ex art. 327, 1º comma, c.p.c. – Decorrenza dall’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico – Prova – Onere incombente sull’appellante – Sussistenza (Cod. proc. civ., artt. 133, 327; Cod. civ., art. 2697)

[1] Il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo e conseguente possibilità per gli interessati di venirne a conoscenza e richiederne copia autentica: da tale momento la sentenza “esiste” a tutti gli effetti e comincia a decorrere il cosiddetto termine lungo per la sua impugnazione.

[2] Nel caso in cui risulti realizzata una impropria scissione tra i momenti di deposito e pubblicazione attraverso l’apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, il giudice tenuto a verificare la tempestività dell’impugnazione proposta deve accertare – attraverso un’istruttoria documentale o, in mancanza, il ricorso, se del caso, alla presunzione semplice ovvero, in ultima analisi, alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all’impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – il momento di decorrenza del termine d’impugnazione, perciò il momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria comportante l’inserimento di essa nell’elenco cronologico delle sentenze e l’attribuzione del relativo numero identificativo

CASO

[1] [2] In data 13 luglio 2009 veniva notificato ricorso per cassazione avverso una sentenza di appello, non notificata, che recava in calce due diverse annotazioni datate e sottoscritte dal cancelliere: una di “deposito” del 28.10.2007; l’altra di “pubblicazione” del 28 maggio 2008. Il ricorso per cassazione poteva quindi considerarsi tempestivo solo identificando il dies a quo del termine art. 327 c.p.c. (al tempo, un anno) con la seconda annotazione. Viceversa, considerando come termine iniziale la prima annotazione, il termine lungo doveva considerarsi ormai spirato al momento della notificazione.

SOLUZIONE

[1] Le Sezioni Unite ritengono che, di regola, tra deposito e pubblicazione non possa esservi scissione temporale: «La sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata» (art. 133, co. 1, c.p.c.). Dal punto di vista giuridico la doppia annotazione è quindi un errore.

Per deposito, tuttavia, non può intendersi la semplice traditio brevi manu tra giudice e cancelliere. La mera consegna, anche se vengono rispettate le formalità del co. 2 dell’art. 133 c.p.c., non soddisfa lo scopo della disposizione, perché non viene assicurata la conoscibilità della sentenza. Pertanto, il deposito si completa (e la pubblicazione contestualmente si realizza) solo nel momento in cui la sentenza viene inserita nell’elenco cronologico delle sentenze, con relativa attribuzione di un numero identificativo.

Viceversa, la doppia annotazione in calce alla sentenza – verosimilmente frutto di questa scissione temporale negli adempimenti di cancelleria – rende dubbia l’individuazione del momento perfezionativo. Occorre dunque verificare in concreto il giorno in cui il deposito/pubblicazione possa dirsi compiuto attraverso il compimento di tutte le formalità prescritte per la sua conoscibilità.

[2] L’onere della prova circa la tempestività del ricorso grava sull’impugnante (art. 2967 c.c.), ma può essere assolto anche mediante presunzioni semplici, escluso invece il ricorso alla presunzione legale.

Nel caso di specie, pur non essendo stata prodotta la certificazione di cancelleria della data di inserimento della sentenza nel registro cronologico, le Sezioni Unite hanno ritenuto di poter far ricorso alla preasesumptio hominis (tratta dalle affermazioni delle parti e dall’ampiezza temporale tra le due annotazioni) per ricollegare il deposito/pubblicazione alla seconda data indicata in calce al provvedimento.

In conseguenza di tale accertamento, il ricorso è stato dichiarato tempestivo e quindi ammissibile.

QUESTIONI

[1] [2] La questione affrontata dalle Sezioni Unite trae origine dalla «sciagurata consuetudine» di apporre una doppia annotazione in calce alle sentenze, circostanza che genera notevoli problemi di ordine pratico.

La sentenza in commento segue a breve distanza un’altra sentenza delle medesime Sezioni Unite e una pronuncia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale.

In particolare, Cass., sez. un., 1° agosto 2012, n. 13794 aveva espresso il seguente e diverso principio di diritto: «a norma dell’art. 133 c.p.c., la consegna dell’originale completo del documento-sentenza al cancelliere, nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata, avvia il procedimento di pubblicazione, il quale si compie, senza soluzione di continuità, con la certificazione del deposito mediante l’apposizione, in calce al documento, della firma e della data del cancelliere, che devono essere contemporanee alla data della consegna ufficiale della sentenza, in tal modo resa pubblica per effetto di legge. È pertanto da escludere che il cancelliere, preposto, nell’espletamento di tale attività, alla tutela della fede pubblica (art. 2699 c.c.), possa attestare che la sentenza, già pubblicata, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., alla data del suo deposito, viene pubblicata in data successiva, con la conseguenza che, ove sulla sentenza siano state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l’altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del suo deposito».

Le stesse Sezioni Unite rinvenivano nell’istituto della rimessione in termini il bilanciamento del principio con il diritto di difesa della parte: «Qualora poi il giudice dell’impugnazione ravvisi, anche d’ufficio, grave difficoltà per l’esercizio del diritto di difesa [enfasi mia] determinato dall’aver il cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della pubblicazione della stessa, avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l’impugnazione, la parte potrà esser rimessa in termini ai sensi del vigente art. 153 c.p.c., comma 2» (§ 3.5).

Il diritto vivente formato dalle Sezioni Unite del 2012 veniva in seguito portato dinanzi alla Consulta per valutarne la conformità ai dettati costituzionali.

La Corte costituzionale con sentenza 22 gennaio 2015, n. 3 ha dichiarato di condividere la premessa da cui muovevano le Sezioni Unite, ossia la centralità del deposito compiuto dal giudice, spettando solo al magistrato il potere di determinare il momento in cui la sentenza viene ad esistenza, con le relative conseguenze.

Tuttavia, nell’ottica del rispetto del diritto di difesa, la Consulta ha sottolineato l’importanza degli adempimenti ulteriori del cancelliere, necessari per la concreta pubblicazione del provvedimento (conoscibilità) e, quindi, per l’esercizio della facoltà di impugnazione. Ne ha così dedotto che, qualora vi sia scissione temporale tra la consegna materiale del provvedimento e il compimento delle operazioni ulteriori (scissione stigmatizzata dalla Corte quale «patologia procedimentale grave»), diviene inoperante la dichiarazione di intervenuto deposito (ossia la prima delle due annotazioni).

Tale mutamento di prospettiva rispetto all’impostazione delle Sezioni Unite ha condotto il Giudice delle leggi a rovesciare anche il riferimento all’istituto della rimessione in termini. Secondo la Consulta, questo «va inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto contra legem che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone, talvolta anche in misura significativa, i relativi termini».

Sembrava così delinearsi una sorta di rimessione in termini automatica («doveroso riconoscimento d’ufficio»), non subordinata alla previa indagine del nesso causale tra doppia annotazione e «grave difficoltà per l’esercizio del diritto di difesa» (in questo senso, Cass. 22 maggio 2015, n. 10675), attuata di fatto facendo decorrere il termine dalla seconda certificazione.

Ad ogni modo, la scelta di una discutibile sentenza interpretativa di rigetto (in luogo di una pronuncia di accoglimento), lasciava spazio a nuove opinioni dissenzienti o, quantomeno, a dubbi interpretativi circa i risvolti pratici della decisione e il suo coordinamento con il “diritto vivente”.

E non a caso, proprio sull’applicazione della rimessione in termini, se automatica o se comunque subordinata all’accertamento in concreto della lesione del diritto di difesa, sono subito emersi orientamenti contrastanti (rispettivamente, cfr. Cass. n. 10675/2015 e Cass. n. 17612/2015).

Di qui un nuovo intervento delle Sezioni Unite.

A ben vedere, queste smentiscono sia la precedente decisione delle Sezioni Unite del 2012 sia la sentenza della Corte costituzionale (o almeno un certo modo di intendere la stessa).

Ritenendo sempre necessaria l’indagine sul momento in cui la sentenza è conoscibile dalle parti, da un lato, escludono che, nella specie, la prima annotazione costituisca necessariamente il dies a quo del termine lungo per impugnare, salva la rimessione in termini (cfr. Cass., sez. un., 13794/2012); ma altresì escludono che il dies a quo debba identificarsi in via presuntiva – ovvero, indirettamente, mediante una “doverosa rimessione in termini d’ufficio” – con la seconda annotazione.

Anzi, secondo le Sezioni Unite (2016) essendo necessaria l’indagine concreta sul momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile, non residua spazio alcuno per l’applicazione dell’istituto.

Benché la Corte dichiari di volersi tenere lungo il sentiero tracciato dalla Corte costituzionale, alcuni passaggi della motivazione non convincono pienamente.

In particolare, tenuto conto delle premesse argomentative, desta qualche perplessità il riferimento all’onere della prova (circa il momento in cui la sentenza è stata iscritta nel registro cronologico) che incomberebbe sull’appellante.

Innanzitutto, se di onere si tratta, ciò significa che, in caso di suo inadempimento, la conseguenza sarà negativa per l’impugnante. Nel caso di specie, la conseguenza negativa va identificata con la tardività dell’impugnazione.

A ben vedere, dunque, il ragionamento della Corte poggia anch’esso su una presunzione legale, ossia sulla presunzione legale iuris tantum di compimento del deposito/pubblicazione al momento della prima annotazione. Diversamente, infatti, non si spiegherebbe il riferimento all’onere della prova.

Se così è, la tesi stona con l’insegnamento della Consulta anche sotto un altro profilo. In questa maniera, la “patologica” doppia annotazione finisce per incidere sul diritto all’impugnazione, gravando la parte di un onere che “fisiologicamente” non sussisterebbe. Ove infatti il cancelliere annotasse il deposito al momento del compimento di tutte le residue formalità, l’annotazione (ancorché non del tutto regolare, perché non rispettosa della contestualità delle operazioni di consegna e iscrizione nel registro) sarebbe: a) corretta (almeno nella prospettiva del rispetto del diritto di difesa); b) unica e, quindi, c) senza dubbio facente piena prova fino a querela di falso del fatto che il dies a quo sia quello ivi indicato.

Contrariamente alla prospettiva della Corte costituzionale, dunque, il doppio errore del solo ufficio (mancata contestualità + doppia annotazione) determina nella soluzione delle Sezioni Unite un ingiustificato aggravamento della posizione della parte incolpevole. Nessuna massima d’esperienza induce infatti a credere che sia più probabile che le tutte formalità siano state completate al tempo della prima annotazione anziché al tempo della seconda. Anzi, la probabilità è esattamente contraria.

Vero è che, sotto il profilo pratico, la Cassazione sembra fare affidamento sul fatto che l’onere della prova possa essere agevolmente assolto mediante una certificazione di cancelleria che specifichi il momento in cui sono state compiute tutte le operazioni funzionali alla conoscibilità della sentenza. Tuttavia, l’esperienza insegna che talvolta tali certificazioni non sono dirimenti (v. il caso di Cass. n. 10675/2015). Inoltre, non si comprende perché tale terza certificazione dovrebbe avere un’efficacia dimostrativa maggiore rispetto alle due già apposte in calce al provvedimento.

In definitiva, dietro all’accertamento in concreto dell’effettivo e completo deposito/pubblicazione del provvedimento si nasconde il rischio di una ingiustificata retrodatazione per mancato assolvimento dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.).

Forse, allora, sarebbe più corretto invertire la prospettiva, e così ritenere che la seconda annotazione, almeno di regola, costituisca ex se prova (se non legale, di certo) sufficiente del fatto che, alla data della prima annotazione, non erano state ancora compiute tutte le attività necessarie per rendere conoscibile (e quindi pubblica) la sentenza.

Anche alla luce dell’insegnamento della Consulta, appare più lineare ammettere che entrambe le certificazioni, benché irregolari, siano purtuttavia attendibili e tra loro non contraddittorie, ossia comprovanti che, con la prima, la cancelleria ha preso atto della sola consegna materiale del provvedimento originale (evidentemente, a meri fini interni) e che, con la seconda, ha certificato l’avvenuto compimento delle operazioni necessarie per completare il deposito in senso stretto, ossia quello idoneo a rendere conoscibile e pubblica la sentenza.

Se dunque le due annotazioni sono tali, in concreto, da essere interpretate nel senso appena descritto, solo dalla seconda dovrebbe cominciare a decorrere il termine ex art. 327 c.p.c., salva la prova contraria o forse, più correttamente, fino a querela di falso.

Per approfondimenti:

Carrato, Doppia data di deposito e pubblicazione della sentenza: la Cassazione completa il ragionamento della Corte costituzionale, in Corr. giur., 2015, 1395 ss., e ivi la postilla di Consolo, Doppia data della sentenza e doppia Corte di legittimità.

Consolo, La doppia (data di) nascita della sentenza civile fra S.C. e Consulta nomofilattica, in Giur. it., 2015, 1607 ss.

Ruffini, La sentenza “nata” due volte (in attesa della nuova decisione delle Sezioni Unite), in www.judicium.it