20 Giugno 2017

La compatibilità delle norme sull’esecuzione forzata con la liquidazione dell’attivo fallimentare

di Pasqualina Farina Scarica in PDF

L’autore esamina le disposizioni in materia di espropriazione immobiliare introdotte dalle recenti riforma al fine di verificare se queste nuove disposizioni possono essere applicate anche nelle vendite fallimentari.

  1. Breve premessa.

In seguito alle riforme del biennio 2005-2007 i connotati della liquidazione dell’attivo fallimentare hanno subito profondi mutamenti.

Per potenziare il ruolo e la funzione del curatore il legislatore ha altresì disancorato le vendite fallimentari dalle tecniche e dalle modalità previste dal codice di rito, eliminando il richiamo contenuto nell’art. 105 l.fall., che salvaguardava la compatibilità con le regole proprie della legge fallimentare, unitamente al rinvio contenuto nel secondo comma dell’art. 108 l.fall. all’art. 578 c.p.c.

Queste modifiche, unitamente alla significativa limitazione del potere di direzione e di decisione del giudice delegato, confinato nel ruolo marginale di organo risolutore di conflitti endoconcorsuali, ha indotto alcuni autori a sostenere che le vendite fallimentari abbiano assunto le medesime forme e, dunque, la stessa natura di quelle volontarie.

Ed infatti le uniche cautele previste a garanzia della legalità delle vendite si rinvengono nel primo comma dell’art. 107 l.fall., laddove si legge che gli atti di liquidazione sono attuati dal curatore «tramite procedure competitive, anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate (…) da parte di operatori esperti, assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati».

La norma è chiaramente volta a fornire al curatore strumenti adeguati ad ogni esigenza della procedura fallimentare e, quindi, funzionali alla migliore liquidazione dei beni del debitore ed alla massima soddisfazione possibile dei creditori.

L’art. 107 l.fall., destinato a disciplinare le modalità delle vendite fallimentari, non contiene dunque regole compiute, ma un generico riferimento alle cc.dd. procedure competitive. Sul punto va, da ultimo, rilevato che la Relazione (allo schema di decreto legislativo sulla riforma delle procedure concorsuali del 2005) afferma che le innovazioni in materia di liquidazione dell’attivo tendono a conseguire l’obiettivo del massimo realizzo, secondo modelli di trasparenza e speditezza, analogamente a quanto stabilito per l’esecuzione singolare.

  1. Il regime intrinsecamente competitivo delle regole stabilite dal c.p.c.

Il regime proprio dell’espropriazione singolare è intrinsecamente «competitivo» e per questa ragione continua oggi come in passato a trovare applicazione quale parte integrante della disciplina speciale, soprattutto dopo le riforme del biennio 2015-2016 che hanno significativamente migliorato la fruttuosità e l’efficienza delle vendite forzate Ed infatti la legge processuale non solo prescrive una tempestiva pubblicità e la preventiva determinazione del prezzo base, come previsto pure dall’art. 107, comma 1, l.fall., ma tende ad aumentare il numero degli interessati all’acquisto con una incisiva tutela delle posizioni degli offerenti e dell’aggiudicatario.

Per vero le prassi virtuose dalle quali è originata la riforma dell’esecuzione forzata hanno dimostrato che solo incentivando la partecipazione di terzi seriamente determinati ad offrire (e, conseguentemente, garantendo la stabilità dell’acquisto del terzo) è possibile ricavare dalla vendita forzata un importo pari all’effettivo valore del bene, nell’interesse dei creditori.

Quanto alle regole stabilite dalla legge processuale non sembra che nella liquidazione fallimentare si possa prescindere dall’art. 490 sulla tempestività e completezza della pubblicità; dal quinto comma dell’art. 560, dove si consente ai soggetti interessati di esaminare i beni in vendita; dall’art. 570 sul contenuto dell’avviso di vendita; dall’art. 571 sul divieto per il debitore di offrire; dagli artt. 576, n. 7 e 585, sul termine per il versamento del prezzo.

Stesso discorso deve essere fatto per alcune norme contenute nelle disp. att. al codice di rito, come, ad esempio, l’art. 173-bis sulla relazione di stima ed i compiti dell’esperto; l’art. 173-quinquies per la presentazione delle offerte mediante bonifico o deposito su conto bancario o postale intestato alla procedura e «mediante la comunicazione, via telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletra smessi»; l’art. 179-ter che individua negli avvocati, nei commercialisti e nei notai i professionisti cui fa riferimento il terzo comma dell’art. 104-ter l. fall. per la delega di «alcune incombenze della procedura di liquidazione»; nonché l’art. 187-bis, in materia di stabilità dell’aggiudicazione, anche se provvisoria (in giurisprudenza cfr. Cass., 30 gennaio 2009, n. 2433, ammette l’applicazione dell’art. 187-bis disp. att. c.p.c. in caso di sopravvenuta chiusura del fallimento o di fattispecie analoghe all’estinzione del processo esecutivo. Cass., 13 luglio 2012, n. 12004, in Il fall., 2013, 181, con nota di Macagno, I dilemmi della sospensione feriale dei termini nella procedura fallimentare, ha affermato che il termine per il versamento del prezzo, di cui agli artt. 576 n. 7 e 585, comma 1, cod. proc. civ., si inserisce nel procedimento di vendita coattiva e deve considerarsi di natura processuale, in quanto prodromico al trasferimento dell’immobile, essendo diretto a concludere una fase esecutiva).

A conferma di tale assunto va segnalato che il legislatore del 2015, consapevole della efficienza delle nuove forme delle vendite forzate regolate dal codice di procedura civile, ha arricchito il primo comma dell’art. 107 l. fall. di due diverse e nuove previsioni che rinviano espressamente alle norme del c.p.c. Ed infatti, si consente al curatore di prevedere, nell’ambito del programma di liquidazione, il versamento rateale del saldo del prezzo, entro un termine non superiore a dodici mesi, sempre che ricorrano giusti motivi, nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 569, terzo comma, terzo periodo, c.p.c. Ad un tempo la disciplina sulla rateizzazione del saldo viene integrata dalle modifiche apportate all’art. 574 c.p.c. sulle modalità di versamento del prezzo e all’art. 587 c.p.c. sulla decadenza dell’aggiudicatario. Quanto al primo comma dell’art. 574 c.p.c. il legislatore è consapevole che l’immissione dell’aggiudicatario nel possesso dell’immobile, prima del versamento integrale del saldo, espone la procedura a rischi notevoli. Il richiamo all’art. 587 c.p.c. conferma, inoltre, che l’istituto della decadenza dell’aggiudicatario trova esplicita cittadinanza nel sistema delle vendite fallimentari.

Al fine di consentire la massima informazione e partecipazione degli interessati, l’ultima parte del novellato primo comma dell’art. 107 l. fall. impone al curatore di effettuare la pubblicità, nel rispetto delle regole di cui all’art. 490, primo comma, c.p.c., almeno trenta giorni prima dell’inizio della procedura competitiva.

  1. La (immutata) natura forzata delle vendite fallimentari.

Per autorevole dottrina le vendite dei beni del fallito hanno conservato l’originario carattere coattivo (Castagnola, La natura delle vendite fallimentari dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Studi in onore di Carmine Punzi, V, Torino, 2008, pag. 68 segg.): il trasferimento di un bene può dirsi «forzato» se compiuto in un procedimento di attuazione della responsabilità patrimoniale nel quale il debitore sia stato privato della facoltà di amministrare e disporre di uno o più beni, con conseguente attribuzione ai creditori delle somme ricavate dalla vendita di tali beni, previo pagamento delle spese. Né possono rilevare in senso contrario le forme e le modalità delle vendite, la tipologia dei beni (mobili, immobili, crediti, azioni, ecc.) o l’autorità che provvede alla liquidazione (curatore, giudice delegato, soggetti specializzati). Tant’è che pure nell’esecuzione individuale la vendita è compiuta da soggetti diversi dal giudice (professionista delegato, istituto vendite giudiziarie, commissionario) o con l’utilizzazione di forme semplificate, ma ciò non ha mai ingenerato dubbi di sorta sulla natura coattiva dei trasferimenti eseguiti a norma degli artt. 532, 534-bis o 591-bis c.p.c.

Quanto alla libertà di forme va detto che già in passato si consentiva l’utilizzo di modalità semplificate, come nel caso della vendita mobiliare eseguita ex art. 532 seg. c.p.c. della cui natura coattiva non si dubitava, nonostante il commissionario potesse promuovere trattative in assoluta libertà, come per una compravendita di diritto comune. Stesso discorso veniva fatto per il previgente art. 106 l. fall. che ammetteva la vendita di beni mobili ad offerte private; le forme contrattuali adottate dal curatore non rappresentavano affatto un elemento dal quale desumere la natura negoziale delle operazioni di liquidazione, tanto da essere definite «vendite forzate contrattuali» (Così Colesanti, Vendita fallimentare a trattativa privata e potere di sospensione ex art. 108 legge fallimentare, in Giur. it., 1978, I, 2, pag. 661 segg.; Saletti, Tecniche ed effetti delle vendite forzate immobiliari, in Riv. dir. proc., 2003, 1054, pag. 1038 segg. ).

Se, dunque, liquidazione dell’attivo ed espropriazione forzata svolgono la medesima funzione, trattandosi di procedimenti in danno del fallito e dell’esecutato, nel rispetto dell’art. 2740 cod. civ., deve necessariamente riconoscersi al giudice delegato (e/o al curatore) la facoltà di avvalersi delle norme del codice di rito per colmare eventuali lacune della l. fall., nonostante l’abrogazione della clausola generale di compatibilità contenuta nell’art. 105 l. fall.

Rimane, pertanto, attuale l’orientamento della Cassazione che, nel vigore del vecchio regime, consentiva agli organi del fallimento di utilizzare le regole dell’espropriazione forzata al fine «di soddisfare le esigenze della collettività dei creditori, col solo limite che i modelli prescelti non arrechino pregiudizio alla massa» (Così Cass., 27 maggio 1995, n. 5916, in Il fall., 1996, 38 che ha ritenuto compatibili gli artt. 508 e 585 c.p.c. con gli artt. 106 e 108 l. fall. e, quindi, legittima l’assunzione, da parte dell’aggiudicatario, del debito nei confronti del creditore ipotecario ammesso al passivo, stante l’assenso del medesimo creditore all’accollo).

Movendo da tale presupposto debbono ritenersi compatibili con le vendite eseguite dal curatore a norma dell’art. 107, comma 2, l. fall., anche le nuove disposizioni contenute nell’art. 560 c.p.c. in materia di ordine di liberazione, posto che la norma, nell’intento di avvicinare, anche sotto il profilo dell’immediata disponibilità del bene, la vendita coattiva alla vendita volontaria, non solo favorisce la migliore soddisfazione dei creditori ma costituisce un punto fondamentale della liquidazione (la previsione dell’ordine di liberazione è parte organica della disciplina della vendita, come lo sono – ad esempio – le norme che disciplinano le forme della pubblicità o il pagamento del prezzo mediante finanziamento bancario) ed è finalizzata a favorirla: non vi è motivo alcuno per ritenerla incompatibile con le disposizioni della l. fall. (così v. Trib. Reggio Emilia, 26 ottobre 2013, in Dir. fall., 2014, 364 ss.; e più di recente Trib. Mantova 13 ottobre 2016 e Trib. Pescara 3 giugno 2016, entrambe edite in www.ilcaso.it).

Né vi osta l’art. 47, comma 2, l. fall., che consente al fallito di continuare ad abitare la casa di proprietà «fino alla liquidazione delle attività». Ed infatti l’orientamento che consentiva al fallito di abitare l’immobile fino alla pronuncia del decreto di trasferimento traeva origine dal vecchio sistema dell’espropriazione forzata, quando l’ordine di rilascio era contenuto esclusivamente nel decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c. Ma oggi tale impostazione contrasta sia con l’autonomia che l’art. 107 l.fall. riconosce al curatore nelle operazioni di vendita, sia con l’attuale regime dell’ordine di rilascio di cui all’art. 560 c.p.c.

Pertanto, dopo le innovazioni apportate a tale disposizione (il debitore deve liberare l’immobile al più tardi al momento dell’aggiudicazione) non vi è alcuna norma che giustifichi una disciplina più favorevole al fallito rispetto a quella riservata al debitore civile. Né può essere trascurato che l’art. 560, comma 3, c.p.c. è norma successiva all’art. 47, comma 2, l. fall. e che quest’ultima disposizione non è stata modificata dal legislatore delle recenti riforme: anche per questa ragione ed, in ossequio al principio lex posterior derogat priori, deve ritenersi che il giudice delegato possa ordinare il rilascio anche prima dell’aggiudicazione, senza avvalersi delle forme di cui agli artt. 605 ss. c.p.c.

Discorso diverso e più complesso deve essere fatto per l’istituto dell’assegnazione.

È appena il caso di sottolineare che l’assegnazione – che implica sempre una prognosi da parte del giudice sull’effettiva collocazione del creditore in sede di distribuzione – da sempre è stata ritenuta incompatibile con la liquidazione dell’attivo, ciò in quanto la l. fall. adotta regole peculiari in materia di accertamento dei crediti e riparto dell’attivo. Di qui l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di verificare il rispetto dei  criteri stabiliti dall’art. 506 c.p.c., in materia di valore minimo dell’assegnazione (ma sul punto v., più di recente, Trib. Larino, 10 novembre 2016, in www.ilcaso.it, secondo cui l’assegnazione consente, in ambito fallimentare, l’allocazione del cespite in maniera celere, a beneficio della ragionevole durata del processo, sempre che sia rispettata la par condicio creditorum, sulla base di un apprezzamento discrezionale del giudice delegato, che ne valuta la convenienza rispetto alla vendita).