19 Ottobre 2015

Appello e riforme processuali (parte II): le modifiche all’art. 345, co. 3, c.p.c.

di Fabio Cossignani Scarica in PDF

Si dà conto delle più recenti riforme che hanno interessato il giudizio di appello, con particolare riguardo, in questa sede, alle modifiche alla disciplina dello ius novorum.

1. Introduzione

Con le riforme del 2009 (l. 18 giugno 2009, n. 69) e del 2012 (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), il legislatore è intervenuto anche sul regime dello ius novorum in appello.

In particolare, è stato modificato il testo dell’art. 345, co. 3, c.p.c., ossia la disposizione che regola l’ingresso delle nuove prove.

Il testo previgente: «Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che la parte  dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio».

Il vecchio testo, quindi, poneva come regola generale il divieto di nuove prove, ma prevedendo tre deroghe: per la prova nuova «indispensabile»; per la prova non proposta nel grado precedente per causa non imputabile; per il giuramento decisorio.

Per effetto della riforma, si precisa che il divieto opera in via generale anche per i documenti (l. n. 69/2009), ma la conclusione era già pacifica in giurisprudenza (Cass., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8203).

Inoltre, scompare il riferimento alle prove indispensabili (d.l. n. 83/2012).

Tuttavia, tale ultimo riferimento ricompare nell’art. 702 quater c.p.c. che regola l’appello nel rito sommario di cognizione. Il d.l. n. 83/2012 ha infatti sostituito il termine «rilevanti» col termine «indispensabili».

Di prove «indispensabili» continua poi a discorrere l’art. 437 c.p.c. sull’appello nel rito del lavoro.

2. L’intenzione del legislatore e la nozione di “indispensabilità”

Le modifiche operate dal d.l. n. 83/2012 sono tese a limitare ulteriormente l’ingresso di nuove prove, sia nell’appello ordinario, sia nell’appello del rito sommario di cognizione. L’intenzione del legislatore è piuttosto chiara sul punto.

Altrettanto chiara è la premessa. In particolare, il legislatore intende la “indispensabilità” quale carattere proprio di talune prove rilevanti, ma non di tutte. Diversamente, non si spiegherebbe la sostituzione operata all’art. 702 quater c.p.c.

Sennonché, è noto quanto sia difficile cogliere l’esatto significato di «prova indispensabile».

Infatti, la dottrina ha puntualmente osservato che, se si pone l’indispensabilità in connessione con la decisione, è facile rilevare che nessuna prova è in verità indispensabile in senso stretto. Vigendo il divieto di non liquet, una decisione deve comunque essere assunta, facendo applicazione del principio dell’onere della prova ex art. 2967 c.c. (cfr. Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997, 269 ss.).

Se invece si riporta l’indispensabilità nella prospettiva della idoneità della prova ad incidere sulla decisione del giudice, il concetto sfuma inevitabilmente in quello di rilevanza, perché, in un sistema caratterizzato dal principio del libero convincimento del giudice, possono darsi solo prove rilevanti e prove non rilevanti. Non sussistono prove indispensabili nel senso di “prove qualitativamente più rilevanti di altre” (cfr. Cavallone, Anche i documenti sono « mezzi di prova » agli effetti degli artt. 345 e 437 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2005, 1074).

Di tali incertezze è specchio la giurisprudenza, approdata a conclusioni non sempre univoche. Peraltro, è noto come questa abbia accostato l’indispensabilità alla mera rilevanza nel rito del lavoro (art. 437 c.p.c.) al fine di perseguire comunque la verità materiale, laddove nel rito ordinario ha adottato un criterio selettivo più rigido, ritenendo che la prova indispensabile ex art. 345 c.p.c. (vecchio testo) sia esclusivamente quella che, da sola, appare idonea a ribaltare o confermare la sentenza impugnata (cfr., emblematicamente, Cass., sez. un. n. 8202/2005 e Cass., sez. un., 8203/2005).

Se dunque si muove dall’idea – fatta propria dal legislatore e, in varia maniera, dalla giurisprudenza – che l’indispensabilità costituisca un criterio di selezione delle prove rilevanti, l’incertezza sul suo concreto significato apre le porte alla discrezionalità del giudicante (o, peggio, al suo arbitrio).

Di certo, la stessa idea costituisce un discostamento, più o meno ampio, dall’esigenza di pervenire alla decisione giusta, ossia alla decisione fondata su una ricostruzione dei fatti quanto più possibile aderente al vero.

3. La portata della modifica

A prima vista, la modifica appare coerente con la completa trasformazione del giudizio di appello in mera revisio prioris instantiae. Un appello aperto ai nova istruttori attribuisce al mezzo di impugnazione anche una funzione lato sensu “prosecutoria” del giudizio, oltre che di controllo della precedente decisione.

Tuttavia, quella che appare come una chiusura totale e definitiva, si rivela, in verità, una chiusura solo parziale, ancorché significativa (e ulteriore rispetto a quella già segnata dalla precedente ammissibilità limitata alle sole prove indispensabili).

Infatti, ai sensi dell’art. 345, co. 2, c.p.c., sono proponibili per la prima volta in appello tutte le eccezioni rilevabili anche d’ufficio.

Occorre considerare al riguardo che le eccezioni rilevabili d’ufficio costituiscono la regola, rispetto a quelle riservate alla parte. Inoltre, stando almeno alle suggestioni di Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531, la facoltà di sollevare l’eccezione apre la strada alla facoltà di affermare, sempre per la prima volta in appello, il fatto storico su cui questa si fonda. Ne consegue che la parte che afferma il fatto nuovo invocandone gli effetti, deve essere ammesso alla relativa prova.

Si ha così un’apertura alle nuove prove in appello non espressamente contemplata dall’art. 345 c.p.c. (sul tema, funditus, v., di recente, Merlin, Eccezioni rilevabili d’ufficio e sistema delle preclusioni in appello, in Riv. dir. proc., 2015, 299 ss.).

Inoltre, la facoltà di proporre nuove prove può emergere in appello anche in altre occasioni, ad esempio al fine di dimostrare: i fatti sopravvenuti alla precisazione delle conclusioni in primo grado; i fatti costitutivi delle domande nuove ammissibili in appello ex art. 345, co. 1; i fatti divenuti rilevanti in virtù di ius superveniens ecc.

Infine, val la pena di evidenziare il regime transitorio della modifica del 2012, atteso il suo grande impatto pratico. Il d.l. n. 83/2012 nulla dispone al riguardo, né per la modifica dell’art. 345 c.p.c. né per la modifica dell’art. 702 quater c.p.c. In base al principio generale (tempus regit actum), le nuove disposizioni dovrebbero applicarsi tout court dal 12 agosto 2012 o quantomeno (in analogia a quanto dispone l’art. 54, co. 2, d.l. 83/2012 per le altre disposizioni in tema di appello) ai giudizi di secondo grado introdotti a partire dalla medesima data.

Tuttavia, appare più ragionevole fare ricorso al diverso canone del tempus regit processum (sul quale, in generale, Caponi, Tempus regit processum. Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc., 2006, spec. 256 ss.), con applicazione delle nuove disposizioni nei giudizi instaurati in primo grado a partire dalla medesima data. E ciò in quanto, diversamente opinando, le modifiche potrebbero generare decadenze involontarie in primo grado: si pensi al caso della parte che, nel corso del giudizio sommario di prime cure, definito con ordinanza anteriore al 12 agosto 2012, abbia fatto affidamento sull’ampia facoltà di proporre nuove prove in appello prevista dall’allora vigente testo dell’art. 702 quater c.p.c.

4. Considerazioni finali

Come visto, è assai probabile che la novità costituisca un ulteriore giro di vite all’ammissibilità delle nuove prove in appello (anche nel procedimento sommario, che resta comunque giudizio aperto alle prove indispensabili).

Se a ciò si aggiunge il rigido sistema di preclusioni che caratterizza il giudizio ordinario di primo grado, ne risulta nel complesso una struttura processuale che limita le facoltà istruttorie delle parti in maniera forse eccessiva, perché accetta il rischio (medio, anziché basso) che venga pronunciata una sentenza di merito non corrispondente alla reale consistenza del diritto sostanziale dedotto.

In fondo, per raggiungere il punto di equilibrio tra l’esigenza di un ordinato svolgimento del processo e l’accertamento della verità materiale, potrebbe risultare sufficiente una ponderata distribuzione del carico delle spese processuali, tale da tener nella dovuta considerazione il comportamento, eventualmente dilatorio, delle parti.