13 Giugno 2017

Annullamento per violenza morale delle dimissioni rassegnate dal lavoratore

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 23 marzo 2017, n. 7523

Dimissioni – violenza morale – condotta intimidatoria oggettivamente ingiusta – necessità – sussiste – minaccia di licenziamento per giusta causa e di azione risarcitoria – plausibilità per la gravità dei fatti – validità – sussiste

MASSIMA

Le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica: con accertamento da parte del giudice di merito incensurabile in Cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio, risolvendosi in un giudizio di fatto: ne consegue che sono valide le dimissioni del dipendente rassegnate sotto la minaccia di un licenziamento per giusta causa e di azione risarcitoria plausibili per la gravità dei fatti commessi dal lavoratore.

COMMENTO

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, interviene in tema di licenziamento statuendo che è lecito minacciare il dipendente di licenziamento qualora lo stesso non presenti spontaneamente le proprie dimissioni. La vicenda ha visto protagonista una dipendente di un istituto di credito che aveva effettuato una serie di sottrazioni di capitale a scapito dei clienti della banca che, una volta scoperto tali attività illecite, anche per evitare pubblicità negativa per l’istituto creditizio – imponeva alla propria dipendente di dimettersi sotto minaccia di un licenziamento per giusta causa ed un’azione di risarcimento per i danni economici dalla stessa creati. Il Tribunale adito rigettava il ricorso della dipendente con cui la stessa richiedeva l’annullamento per violenza morale delle dimissioni rassegnate, condannandola al pagamento di una ingente somma per il danno arrecato alla banca; tale statuizione veniva altresì confermata dalla Corte di Appello che puntualizzava inoltre che, nel caso di specie, vi era totale assenza della violenza morale denunciata. La dipendente impugna la decisione dei giudici di appello con ricorso in cassazione fondato su tre motivi. Dalla Corte di Cassazione il ricorso viene tuttavia valutato come inammissibile. In particolare per la Suprema Corte nei casi in cui l’azienda costringe il lavoratore a dimettersi – e lo fa come alternativa a un sicuro licenziamento per giusta causa – le dimissioni non possono essere impugnate. La Suprema Corte conferma il principio di diritto secondo cui “le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica: con accertamento da parte del giudice di merito incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio, risolvendosi in un giudizio di fatto”. Per cui per i giudici della Corte Suprema minacciare di licenziamento per giusta causa un dipendente che non accetta di dimettersi spontaneamente è illecito unicamente nei casi in cui esiste una vera e propria coazione psicologica sul lavoratore, ossia allorquando viene posta in essere dal datore di lavoro una condotta intimidatoria oggettivamente ingiusta. In tali ipotesi è effettivamente possibile ottenere l’annullamento delle dimissioni per violenza morale dell’atto di recesso spontaneo. Bensì, se il dipendente ha effettivamente commesso un illecito disciplinare che è passibile di licenziamento in tronco, allora l’alternativa forzata delle dimissioni non costituisce una vera minaccia ma un semplice espediente per consentire al lavoratore di allontanarsi dal posto di lavoro evitando lo smacco di un licenziamento in tronco.