18 Luglio 2017

Licenziamento per giusta causa

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 12 giugno 2017, n. 14564

Licenziamenti individuali – Giusta causa – Direttore di filiale – Proporzionalità della sanzione – Sussiste

MASSIMA

Sussiste il licenziamento per giusta causa del direttore di filiale che, violando la disciplina interna, trasferisce, senza il consenso dei clienti, i conti corrente presso un’altra succursale. Ai fini della sanzione espulsiva conta molto la qualifica rivestita dal dipendente che, si presume, sia a conoscenza delle disposizioni aziendali.

COMMENTO

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un’ipotesi di licenziamento per giusta causa intimato ad un direttore di filiale che, violando la disciplina interna, aveva trasferito alcuni conti corrente presso un’altra sede senza il consenso dei clienti. Il Giudice di Prime Cure, respingeva la domanda di illegittimità del licenziamento del lavoratore. In secondo grado, la Corte d’appello di Firenze confermava la sentenza del primo Giudice. La Corte Territoriale, in particolare, affermava che i fatti addebitati fossero provati ed, in particolare: i) che il ricorrente avesse acceso o trasferito dalla filiale ove era responsabile n. 27 rapporti a soggetti aventi residenza o sede legale fuori dalla zona di competenza della filiale in assenza della prescritta autorizzazione di competenza dell’Area; ii) che avesse concesso affidamenti in autonomia a 17 dei nominativi trasferiti. Inoltre, la Corte di Firenze riteneva che la contestazione disciplinare fosse specifica e non tardiva e che la sanzione espulsiva dovesse ritenersi proporzionale alla gravità delle condotte, anche in considerazione della natura direttiva e delle responsabilità delle funzioni attribuite al ricorrente, che consentono di presumere la sua conoscenza della disciplina aziendale in relazione alla concessione dei fidi. Per la cassazione della sentenza ha proposto quindi ricorso il lavoratore adducendo diverse argomentazioni, cui ha resistito la società con controricorso. In particolare, ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata era da considerarsi errata per le seguenti ragioni: i) la datrice di lavoro intendeva licenziare per tutti gli addebiti contestati e non solo in relazione a quelli esaminati dalla Corte territoriale; ii) la Corte territoriale aveva formulato il giudizio di proporzionalità non secondo la volontà del datore ma secondo la propria valutazione; iii) la Corte aveva ritenuto incontestata l’esistenza di prescrizioni regolamentari interne sulla necessità dell’autorizzazione e aveva posto a carico del ricorrente l’onere di provare che la disciplina interna era stata portata a sua conoscenza; iv) la Corte territoriale aveva ritenuto integrante la giusta causa la mera violazione di norme regolamentari. La Corte di Cassazione confermava la sentenza della Corte di Appello. Ad avviso del Giudice di legittimità, infatti, i primi due motivi sono infondati perché per principio consolidato “in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente […], non occorre che l’esistenza della causa idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 c.c.”. Il terzo motivo è inammissibile poiché addebita alla sentenza contraddizione motivazionale, censura ormai non più prevista ai sensi del nuovo art. 360 n. 5 c.p.c. e, continua la Corte, comunque la Corte d’Appello non ha operato un’inversione della prova circa la conoscenza delle regolamentazioni interne ma ha desunto dalla qualifica del ricorrente la conoscenza e conoscibilità delle stesse. Circa il quarto motivo, la Corte afferma che la valutazione di gravità deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo. Detta valutazione, continua la Corte, è un apprezzamento demandato al giudice di merito che, nel caso di specie, ha operato non in via astratta ma in considerazione della violazione concreta della disciplina interna, evidenziando che la qualifica rivestita dal ricorrente comporta la conoscenza delle disposizioni e rende particolarmente pregnante il vincolo fiduciario, con conseguente irrilevanza dell’effettivo verificarsi di danni economicamente valutabili a carico della datrice di lavoro. Pertanto, la Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso del lavoratore e confermato la sentenza di secondo grado.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”