6 Maggio 2025

Costituzione di un fondo cassa da parte dell’assemblea condominiale e rendiconto

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Ordinanza del 02.09.2022 n. 25900, Seconda Sezione Civile, Presidente Dott. F. Manna, Estensore Dott. G. Fortunato.

Massima: La costituzione di un fondo cassa da parte dell’assemblea condominiale, ancorché non venga disposto in merito all’impiego dei residui attivi di gestione nell’esercizio di riferimento, non viola la necessaria dimensione annuale della gestione condominiale, essendo sufficiente che questi possano, anche solo implicitamente, desumersi dal rendiconto, ai fini della loro rilevabilità nei conti individuali dei singoli condòmini e della conseguente riduzione, per compensazione, delle quote di anticipazione dovute dagli stessi condòmini per l’anno successivo.

CASO

Tizia conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari il Condominio Beta, proponendo opposizione avverso la Delibera Assembleare del 3 ottobre 2000, vertente sull’approvazione della condizione patrimoniale nonchè il bilancio per l’esercizio 1999/2000, rilevando che nella suddetta situazione patrimoniale erano riportati: “a) la voce “fondo riserva portineria”, costituito con l’accantonamento dei canoni pagati dal conduttore, la voce “ricavi da affitto dei parcheggi, costituita dai canoni di locazione per i posti auto di proprietà dei condomini e la voce “ricavi da affitto locali portineria” per Lire 5.136.000, senza che fossero indicati gli importi spettanti a ciascun condomino; b) il fondo di riserva ordinario di Lire 3.984.100, senza alcuna indicazione della provenienza di tali disponibilità”.

Ad avviso della ricorrente, il condominio non poteva trattenere a tempo indeterminato somme di denaro che appartenevano ai singoli condomini e che fosse necessario per il vero indicare a verbale gli importi delle somme residue spettanti a ciascun proprietario. A tal fine chiedeva che venisse annullata la delibera oggetto di impugnazione nonché di regolare le spese.

Il Tribunale di Cagliari, respingeva l’impugnazione promossa da Tizia rilevando peraltro la tardività delle domande di annullamento delle delibere del 22 maggio 1997 e del 3 dicembre 1998 in quanto avanzate dalla ricorrente in sede di memorie istruttorie ai sensi dell’art. 183, comma 6, nn. 1-3, c.p.c..

Soccombente in primo grado, Tizia interponeva appello avverso la sentenza del Giudice delle prime cure, tuttavia, la Corte distrettuale di Cagliari confermava la ridetta decisione.

Segnatamente il collegio del gravame, confermava la tardività della domanda di annullamento delle delibere non impugnate con il ricorso principale ed introduttivo, precisando anche che le sole censure ammissibili fossero quelle relative alla “possibilità di determinare la quota di fondi accantonati e di quelli spesi in base a un mero calcolo matematico sulla base dei dati risultanti dalla delibera e il fatto che fossero stati effettivamente compensati i debiti e i crediti reciproci”.

Inoltre, la Corte d’Appello rilevava che lo stesso Tribunale aveva chiarito come fosse possibile individuare le somme spettanti ai singoli condomini in forza della menzionata delibera “non esistendo alcuna disposizione che prevedesse un obbligo di esatta indicazione numerica dei residui attivi di pertinenza dei singoli, precisando che l’amministratore aveva fornito nel corso del giudizio di primo grado, i dati relativi alle quote del Fondo riserva portineria e del Fondo di riserva ordinario da ripartire tra i singoli senza che Tizia avesse sollevato contestazioni”.

Peraltro, la delibera impugnata, non aveva pregiudicato i diritti patrimoniali dei singoli condomini, data la prevista compensazione delle somme accantonate con le quote versate a titolo di anticipazione per l’esercizio successivo o dovute a conguaglio, prevedendo “un vincolo temporaneo, destinato a valere fino al momento dell’effettuazione di eventuali spese nell’interesse comune”.

Il singolo condomino non poteva infine pretendere la corresponsione della propria quota ovvero la immediata compensazione con i debiti, in quanto l’amministratore non possiede il potere di utilizzare i residui attivi senza che sia previamente acquisita autorizzazione da parte dell’assemblea.

Tizia, soccombente anche in secondo grado proponeva ricorso in Cassazione sulla base di sei motivi.

Il Condominio Beta non formulava difese.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25900 del 2 settembre 2022, rigettava il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater D.p.r. n. 115/02, dava atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

QUESTIONI

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente rilevava la violazione dell’art. 36 D.P.R. n. 917/1986, ritenendo che la delibera assembleare oggetto di impugnazione avrebbe dovuto indicare con esattezza, pena l’annullabilità della medesima, tutte le somme derivanti da “residui attivi spettanti a ciascun condomino, stante l’obbligo di dichiarazione a fini fiscali – gravante su ciascun condomino – degli introiti derivanti dalla locazione dei beni comuni, ove superiori ad € 25,00”.

Con il secondo motivo censurava la sentenza del giudice delle seconde cure per violazione dell’art. 1130 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo, per aver la sentenza negato che la delibera dovesse indicare gli importi faceti parte del fondo cassa spettanti a ciascun condomino, senza tener conto che in capo all’amministratore grava l’obbligo di rendere il conto della sua gestione in modo che siano “intellegibili le voci attive e passive della gestione”.

La Corte di Cassazione riteneva di dover analizzare i primi due motivi di ricorso congiuntamente considerata la stretta connessione, tuttavia, li dichiarava entrambi parimenti infondati.

Invero, la delibera per mezzo del quale si approva la condizione economica del condominio rispetto ad un determinata scadenza secondo la più recente giurisprudenza “ai fini della validità della delibera di approvazione del rendiconto consuntivo è necessario che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione[1].

Segnatamente, conferma quanto appena esposto l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione secondo la quale “la contabilità predisposta dall’amministratore deve essere idonea a fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi, della qualità e quantità dei frutti percetti e delle somme incassate, dell’entità e causale degli esborsi datti e di tutti gli elementi di fatto che consentano di individuare e vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito e di stabilire se l’operato di chi rende il conto sia adeguato a criteri di buona amministrazione[2].

Infatti, non è richiesto ai fini della approvazione del consuntivo, che la contabilità sia tenuta da parte dell’amministratore nei modi e con la rigorosità tipici per la redazione dei bilanci delle società, dal momento che è “sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione”.

Al contempo non si richiede neppure che le voci si spesa siano riportate all’interno del verbale assembleare ovvero che siano “oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa: rientra nei poteri dell’organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all’approvazione, prestando fede ai dati forniti dall’amministratore alla stregua della documentazione giustificativa”.

Tuttavia è insindacabile in sede di legittimità la conclusione del giudice delle seconde cure, in ragione della quale la mancata indicazione dell’ammontare esatto dei residui attivi di spettanza dei singoli non aveva compromesso la intellegibilità del rendiconto poiché era possibile quantificare i ridetti importi dal tenore letterale della delibera e facendo ricorso ad un calcolo matematico.

La Corte infatti riteneva che “in tale situazione non occorreva l’espressione in cifre delle somme spettanti a ciascun comproprietario a pena di annullabilità della delibera, essendo possibile stabilirne l’entità e procedere alle opportune verifiche sulla correttezza della successiva compensazione con le quote condominiali”.

L’art. 36 del D.p.r. n. 917/1986 infatti, non prevede in capo all’assemblea l’obbligo di indicare l’ammontare esatto delle singole quote di ciascun condomino a pena di invalidità.

La norma, invero, ha unicamente valenza tributaria e regola solamente gli obblighi di dichiarazione a carico del singolo “cui questi non deve necessariamente ottemperare mediante la delibera di approvazione del rendiconto, potendosi avvalere – in alternativa – di documentazione fornita dall’amministratore ugualmente idonea a comprovare l’ammontare delle somme percepite”.

Con il terzo motivo di ricorso Tizia denunciava la violazione dell’art. 102 c.p.c., e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo del giudizio, per aver la sentenza dichiarato erroneamente tardive le domande di annullamento o di nullità delle delibere del maggio 1997 e del dicembre 1998.

Invero, la necessità di richiedere l’annullamento era scaturita dalle difese del condominio e che l’annullabilità (ovvero la nullità) era una questione deducibile in via di eccezione o oggetto di una mera difesa proponibile senza alcuna preclusione.

Con il quarto motivo di ricorso Tizia, denunciava la violazione dell’art. 183 c.p.c., e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo per il giudizio, per avere la Corte del merito ritenuto l’impugnazione delle delibere del 1997 e del 1998 tardive “pur se integranti una mera emendatio libelli dell’originaria impugnativa, ritualmente proposta con il ricorso introduttivo”.

Con il quinto motivo la ricorrente denunciava la violazione dell’art. 112 c.p.c. e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo per la controversia, per non essersi il giudice delle seconde cure pronunciato sul terzo motivo di appello riguardo al fatto che la delibera del 1998 riguardasse l’affidamento dei fondi accantonati dall’amministratore e la conferma di altra delibera, istitutiva di un fondo cassa, non individuata, non prodotta in giudizio e di cui era stata contestata la stessa esistenza.

I tre motivi venivano esaminati congiuntamente in quanto connessi e dichiarati parimenti infondati.

Per mezzo delle domande proposte con le memorie istruttorie erano stati dedotti vizi di annullabilità delle delibere del 1997 e del 1998, ritenendo che l’assemblea avesse derogato “una tantum”, ai criteri di ripartizione delle spese in contrasto con i quorum deliberativi.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazioni sul punto hanno disposto che “possono ritenersi nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro; al contrario, sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni, adottate senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione (poiché destinate a valere per la singola decisione collegiale), essendo comunque assunte nell’esercizio delle singole attribuzioni assembleari[3].

Ed in egual maniera la violazione delle maggioranze deliberative o costitutive è causa di annullamento e non di nullità delle delibere[4].

L’interesse ad ottenere l’annullamento delle ridette delibere derivava nel caso di specie dalle deduzioni difensive del Condominio e pertanto l’impugnazione andava proposta “al più tardi all’udienza di trattazione”, in ragione di quanto disposto dall’art. 183, comma quarto, c.p.c., e fatta salva l’eventuale decadenza per decorso del termine fissato dall’art. 1137 c.c.. Invero, a seguito della prima udienza di trattazione “era impregiudicata solo la facoltà di precisare e modificare le domande nelle memorie previste dal comma quinto della disposizione”.

Orbene, si intende per domanda modificata, la domanda che presenta “modifiche che non possono incidere sugli elementi identificativi (petitum e causa petendi), bensì nel fatto che le domande modificate, non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pure sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali – o di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali (salvo la proposizione in via subordinata), ma le sostituiscono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”[5].

L’azione sottoposta a modifica ad avviso della Cassazione “deve essere sempre correlata alla vicenda dedotta in giudizio e deve sostanziare una domanda complanare o incompatibile con quella originariamente proposta, in modo da non compromettere le potenzialità difensive della controparte e da non provocare l’annullamento dei tempi del processo[6].

Nel caso che occupa la vertenza in questione le censure relative alle delibere del 1997 e del 1998 non avevano il carattere di alternatività rispetto alla azione principale iniziale – in quanto evidente la volontà della ricorrente di addivenire a dichiararle invalide – e non era neppure riferibile alla stessa vicenda sostanziale “riguardando decisioni collegiali del tutto diverse da quella ritualmente impugnata”.

Orbene, per privare di effetti le precedenti delibere essendo riguardanti atti deliberativi non oggetto di rituale impugnazione ed essendo censurati vizi riconducibili alla annullabilità, “per privarle di effetti era necessaria la proposizione di un’autonoma domanda giudiziale (nel rispetto del termine ex art. 1137 c.c.), non potendo il vizio esser fatto valere in via di eccezione, né potendosi procedere alla disapplicazione una tantum delle delibere condominiali[7].

Ne derivava l’infondatezza della rilevata omessa pronuncia sulla invalidità della delibera del 1998, considerato che la domanda era stata ritenuta inammissibile.

Con il sesto motivo denunciava la violazione dell’art. 1135 c.c., e l’omessa, insufficiente, e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della causa, dal momento che il fondo cassa – privo di vincolo temporale per l’utilizzo – doveva essere considerato come un vincolo di tipo impositivo a tempo indeterminato e per questo motivo illegittimo in ragione del divieto di “previsioni di spesa superiori ad un anno costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità”.

Anche l’ultimo motivo veniva considerato infondato da parte della Corte di Cassazione.

In primo luogo la ricorrente richiamava il precedente della giurisprudenza di legittimità, n. 7076/2016 relativa ad una delibera condominiale impositiva dell’obbligo di versamento delle quote relative al fondo di riserva per cinque anni, pari ad una quota condominiale trimestrale per ogni anno.

Orbene, nel caso concreto come correttamente ricostruito dal giudice del merito, l’assemblea condominiale aveva unicamente omesso di “disporre l’impiego dei residui attivi nell’esercizio di riferimento, senza vincolarli oltre l’esercizio successivo o per periodi ancor più lunghi”.

Nei casi di cui sopra, basta che il residuo possa desumersi dal rendiconto – anche implicitamente – così da essere rilevati nei conti dei singoli comunisti per la riduzione per compensazione degli anticipi per l’anno successivo[8].

Ne deriva che la delibera dell’assemblea non si poneva in contrasto con la “necessaria dimensione annuale della gestione condominiale mediante le previsione di un fondo cassa alimentato con le anticipazioni da parte dei condomini o con l’accantonamento dei canoni di locazione di un bene comune”.

Ciò a cui tendeva la decisione dell’assemblea era di garantire alla compagine condominiale la liquidità monetaria necessaria eventualmente a fronteggiare oneri economici più ingenti da sostenere una volta terminato il periodo in relazione al quale era stata approvato il bilancio di esercizio.

La stessa Corte di Cassazione come da orientamento costante rilevava che “la costituzione di un fondo cassa per le spese di ordinaria conservazioni e manutenzione dei beni comuni non appartiene al potere discrezionale dell’assemblea e non pregiudica, né l’interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, né il loro diritto patrimoniale all’accredito della proporzionale somma, risultando di tutta evidenza che la disponibilità, da parte dell’amministratore, di una pronta liquidità di cassa gli consente di affrontare con maggiore prontezza e tranquillità l’ordinaria gestione del condominio[9]

[1] Corte di Appello Roma n. 219/2025

[2] Cass. Civ. n. 10844/2020

[3] Cass. Civ. SS.UU. n. 9831/2021.

[4] Cass. Civ. SS.UU: n. 8939/2021

[5] Cass. Civ. SS.UU. n. 12310/2015

[6] Cass. Civ. SS.UU. n. 22404/2018

[7] Cass. Civ. SS.UU. n. 9839/2021

[8] Cass. Civ. n. 1035/2016

[9] Cass. Civ. n 8167/1997

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