9 Dicembre 2025

Quando i talenti non bussano più alla porta: mancano i giovani professionisti e gli Studi cercano nuove forme di comunicazione per fare recruitment

di Amalia Di Carlo - Ufficio stampa di Marketude Scarica in PDF

La porta dello studio rimane aperta per tutta la mattina. Entra il postino, esce una cliente, arriva un corriere. Ma nessun giovane praticante si affaccia per chiedere informazioni, nessun curriculum arriva spontaneamente come accadeva una volta. “Fino a dieci anni fa erano loro a cercarci”, racconta la titolare di un piccolo Studio legale nel centro di Bologna. “Ora siamo noi che dobbiamo convincerli”.

È una frase che si sente ripetere in moltissimi Studi professionali italiani. Commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro, architetti: tutti si trovano a fare i conti con un fenomeno nuovo, per certi versi inatteso. Il talento non bussa più alla porta. E la competizione non è più solo per i clienti, ma anche per trovare le persone giuste con cui lavorare.

In questo nuovo scenario, uno strumento essenziale e funzionale è la comunicazione.
Non parliamo ovviamente di quella pubblicitaria, aggressiva, da slogan. Ma di una comunicazione che racconti, che apra gli scenari, che renda visibile ciò che per decenni è rimasto nascosto dietro porte chiuse e targhe in ottone.

Se si parla con i giovani laureati, le loro parole sono sempre più simili e quasi si sovrappongono.
“Cerco un posto dove poter crescere”, “Vorrei capire com’è l’ambiente”, “Non voglio finire a fare solo fotocopie”, “Mi interessa vedere come si lavora veramente”.

Non si tratta più solo di una questione di compensi. Ma ad influire nella scelta del giovane professionista c’è il clima, la cultura, la sensazione che dietro la scrivania ci sia un progetto, un percorso di crescita e non soltanto un “lavoro”.

Eppure, molti Studi continuano a raccontarsi come trent’anni fa: in modo asciutto, tecnico, impersonale.
Così accade che, dietro la mancanza di candidature, non ci sia solo un mercato del lavoro cambiato, ma una mancanza di narrazione.

I pionieri

Alcuni professionisti lo hanno capito prima degli altri.Come uno Studio di consulenza aziendale della Brianza, che negli ultimi due anni ha ampliato il proprio team del 40%. Il segreto? Raccontare sui social la vita interna dello Studio. “Mostriamo momenti di formazione, presentiamo i nuovi ingressi, facciamo vedere i retroscena di un progetto complesso”, spiega uno dei soci.
“All’inizio sembrava strano: noi che pubblicavamo foto del team, dei meeting, dei corsi interni… Poi abbiamo iniziato a ricevere curriculum da persone che dicevano: mi piace il vostro modo di lavorare, vorrei far parte di questa realtà”. Succede lo stesso in uno Studio legale di Roma che ha introdotto un “mentorship day” per i nuovi praticanti: una giornata di incontri informali, aperta, trasparente.
Anche qui, la comunicazione — semplice, diretta, umana — ha fatto il resto: le candidature sono aumentate del 60% nell’arco di pochi mesi.

C’è poi la questione degli annunci di lavoro.
La maggior parte sono ancora scritti come moduli ministeriali: “Si richiede ottima conoscenza di…” “Massima serietà…” “Disponibilità immediata…” E così via, in un linguaggio distante, rigido, incapace di parlare alle persone.

Gli Studi che oggi riescono ad attrarre candidati qualificati agiscono in maniera molto diversa.
Scrivono annunci che raccontano: la giornata tipo, la filosofia di lavoro, un chiaro percorso professionale, la struttura dello Studio, l’atmosfera interna.

Non servono voli pindarici, a volte basta incuriosire il candidato con frasi del tipo:
“Cerchiamo una persona curiosa, che voglia imparare e che lavori bene in squadra. Da noi la curiosità è considerata un valore.”

Una frase semplice.
Ma in un mercato saturo di richieste impersonali, suona come un invito vero.

La reputazione digitale: il nuovo biglietto da visita

Uno dei cambiamenti più impattanti, oggi, riguarda il digitale. Se per decenni il primo contatto tra uno Studio professionale e un potenziale collaboratore avveniva tramite passaparola, annunci sulle riviste di settore o colloqui quasi “al buio”, ora tutto accade online. È il web, molto più dei curriculum, a fare da filtro preliminare. È lì che si forma — o si sfalda — la prima impressione.

Quando un giovane candidato decide di inviare un CV, difficilmente parte dall’annuncio. Parte da Google. Cerca lo Studio, scorre il sito, osserva lo stile, il linguaggio, i volti (quando presenti). Poi passa ai social. E LinkedIn, in particolare, diventa una sorta di “vetrina culturale”: un luogo dove non si guarda solo cosa fa lo Studio, ma chi è. In questo scenario, una pagina curata vale come un grande ingresso luminoso in un ufficio reale. Un sito istituzionale aggiornato, che racconta i servizi ma anche le persone, trasmette subito un senso di solidità e trasparenza. Un breve video dei soci che spiegano la visione dello Studio; articoli che mostrano competenza senza risultare accademici; testimonianze di collaboratori che raccontano i percorsi di crescita. Tutto questo crea un ecosistema narrativo che parla al candidato più di mille annunci standardizzati.

Un giovane laureato di Milano, incontrato durante una job fair universitaria, lo racconta con una semplicità disarmante:
“Stavo valutando due Studi simili per dimensioni e reputazione. Il primo aveva un sito molto tecnico, informazioni corrette ma fredde, nessuna persona in pagina, nessuna storia. Il secondo, invece, aveva un blog in cui raccontavano i progetti interni, spiegavano perché avevano adottato il lavoro ibrido, presentavano il team. Ho scelto loro. Era come vedere dentro lo Studio prima di entrarci.”

È un’immagine potente: vedere dentro lo Studio.
Il digitale, oggi, non è un mezzo. È un preludio di esperienza.

Se un tempo il candidato scopriva lo Studio solo il giorno del colloquio, ora quel viaggio comincia molto prima, e spesso decide tutto. Un sito impersonale può essere percepito come una cultura chiusa. Un feed LinkedIn senza attività può suggerire immobilismo. Al contrario, uno Studio che si racconta online come un luogo vivo, curioso, capace di innovare, diventa immediatamente più attrattivo.

E questo vale non solo per i giovani: sempre più professionisti senior, prima di accettare un colloquio, “ascoltano” la voce digitale dello Studio per capire se c’è un allineamento di stile, valori, ritmo di lavoro.

Oggi, quindi, la reputazione professionale si costruisce anche con il racconto. Non basta dire di essere un buon posto dove lavorare. Occorre mostrarlo.

Chi lavora sulle risorse umane nelle professioni lo ripete da tempo: non basta comunicare, bisogna comunicare bene.

Di seguito alcune delle iniziative che  portano, spesso e volentieri,  risultati concreti:

  • Open Day dello Studio

Una mattinata aperta a studenti e giovani professionisti per raccontare come funziona davvero lo Studio. L’impatto è altissimo.

  • Video brevi e autentici

Non serve una produzione hollywoodiana. Basta un minuto in cui un socio racconta cosa cerca, o un giovane collaboratore racconta com’è stato entrare.

  • Collaborazioni con università e master

Gli Studi che investono in rapporti con atenei, dipartimenti e ITS hanno sempre un flusso di candidature migliore.

  • Narrazione continua del lavoro

Non “pubblicità”, ma piccoli racconti quotidiani: una riunione, un progetto, un corso interno.
Tutto ciò che dà forma a una cultura. Nel corso di questo viaggio tra Studi professionali, emerge un punto comune. La comunicazione funziona solo se è autentica. Gli Studi che promettono ambienti collaborativi ma poi offrono rigidità o orari insostenibili, finiscono per perdere credibilità velocemente.
E nel mondo digitale, la reputazione ha memoria lunga. Gli Studi che invece raccontano la verità — con i loro punti di forza, ma anche con le loro sfide — attirano persone che condividono davvero quei valori. E sono proprio quelle le persone che restano.

Il futuro? Uno Studio che non solo cerca, ma si lascia conoscere

La vera rivoluzione è, quindi, culturale.
Gli Studi professionali, per decenni percepiti come luoghi chiusi, protetti, talvolta “misteriosi”, oggi stanno imparando a mostrarsi. Non è pura immagine.
È un atto di apertura, di responsabilità e di fiducia. È il riconoscimento che la qualità del lavoro dipende dalla qualità delle persone, e che la qualità delle persone dipende anche dal modo in cui lo Studio sa raccontarsi. La porta dello Studio, oggi, non deve essere solo aperta fisicamente.
Deve essere aperta comunicativamente. È lì che passa il talento.
Ed è lì che, sempre più spesso, decide se entrare o proseguire oltre.

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