Opposizione a decreto ingiuntivo, cessione del credito e “saldo zero”: oneri probatori e limiti della non contestazione nel contenzioso bancario
di Francesco Tedioli, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. I, Ord., 21 maggio 2025, N. 13667 Scoditti – Presidente Rolfi – Relatore
Obbligazioni e contratti – Cessione di credito – Prova in generare in materia civile – Onere della prova (artt. 111, 112, 115, 132, 183, c.p.c. 1260,1264, 1823, 1852, 2697 c.c.)
Massima: “Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo fondato sul saldo passivo di conto corrente, l’opposizione non determina alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti, permanendo in capo al creditore opposto, attore in senso sostanziale, l’onere di provare il credito mediante produzione degli estratti conto sin dall’apertura del rapporto; la mancanza, per periodi iniziali o intermedi, della documentazione contabile incide sull’“an” della pretesa ed impone l’applicazione d’ufficio dei criteri di ricostruzione dell’andamento del conto – ivi compreso il c.d. saldo zero – non potendo tale deficit probatorio ritenersi colmato dalla mancata contestazione analitica dei conteggi da parte dell’opponente
La banca che agisce per il pagamento del saldo passivo di un rapporto di conto corrente ha l’onere di produrre gli estratti conto a partire dall’apertura del conto. In caso di mancata produzione degli estratti per il periodo iniziale o per periodi intermedi, si applica la regola del c.d. “saldo zero”, azzerando il saldo di partenza del primo estratto disponibile e/o i saldi intermedi mancanti”.
CASO
La vicenda trae origine da un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale competente, con il quale veniva ingiunto ad un correntista il pagamento di una somma superiore ai centotrentamila euro, quale saldo passivo di un rapporto di conto corrente bancario assistito da apertura di credito garantita da ipoteca. Soggetto attivo della pretesa monitoria era un istituto di credito, che si dichiarava titolare del credito in forza di una pregressa operazione straordinaria di riorganizzazione societaria, nella forma di scissione parziale, mediante la quale un diverso ente bancario avrebbe trasferito alla banca ricorrente il ramo d’azienda comprendente, tra l’altro, il rapporto di conto intrattenuto dall’ingiunto.
Sin dall’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, il debitore contestava in modo articolato tanto la dimensione probatoria quanto il fondamento giuridico della pretesa. Da un lato, egli censurava la base documentale del ricorso monitorio, evidenziando come l’istituto avesse prodotto un mero “saldaconto” e non gli estratti conto prescritti dalla normativa bancaria, e denunciando che la successiva istruttoria non avesse rimediato in modo coerente alle lacune iniziali. Dall’altro lato, allegava una serie di vizi relativi alla disciplina economica del rapporto: la presunta usurarietà dei tassi di interesse applicati in determinati periodi, la divergenza tra il tasso convenzionalmente pattuito e quello effettivamente praticato, la nullità della clausola che ancorava il saggio degli interessi a un parametro di mercato ritenuto indeterminato o indeterminabile e comunque sospetto di essere stato oggetto di intese anticoncorrenziali, nonché l’addebito di commissioni di massimo scoperto, spese e altri oneri reputati privi di adeguato fondamento contrattuale.
Nel corso del giudizio di opposizione interveniva, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., una società veicolo per la cartolarizzazione e la gestione di crediti deteriorati, che assumeva di essere subentrata all’istituto di credito originario nella titolarità del credito monitoriamente azionato. Tale intervento veniva giustificato mediante il richiamo a una cessione in blocco di crediti bancari, oggetto di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, con rinvio ad un elenco analitico dei rapporti trasferiti, nel quale risultava ricompreso anche quello intestato al correntista opponente. L’assetto soggettivo del processo veniva, così, a riflettere una configurazione ormai tipica del contenzioso bancario contemporaneo, segnata dalla circolazione dei crediti attraverso operazioni complesse di trasferimento a società veicolo e altri intermediari specializzati.
Il giudice di primo grado respingeva integralmente l’opposizione, ritenendo che le produzioni documentali intervenute nella fase di cognizione – in particolare, il contratto di conto corrente e gli estratti conto successivamente versati in atti – avessero sanato le deficienze probatorie del ricorso monitorio. Nella prospettiva del Tribunale, la documentazione complessivamente disponibile risultava idonea a comprovare l’esistenza e l’ammontare del credito fatto valere, mentre le censure relative alla validità delle clausole contrattuali, alla conformità dei tassi applicati e alla legittimità delle varie voci di addebito non erano sorrette da allegazioni e riscontri tali da giustificare un intervento demolitorio o conformativo sul regolamento negoziale.
La Corte d’appello confermava la decisione, ma lo faceva adottando alcune opzioni motivazionali che diverranno centrale oggetto di scrutinio in sede di legittimità. Sotto il profilo soggettivo, il giudice del gravame riteneva che la società veicolo avesse adeguatamente dimostrato la propria posizione mediante la produzione dell’avviso di cessione pubblicato in Gazzetta Ufficiale, corredato da un collegamento ipertestuale all’elenco dei rapporti ceduti, e giungeva ad affermare che le contestazioni concernenti la originaria titolarità del credito in capo all’istituto di provenienza dovessero ritenersi “consumate e assorbite” dalla sostituzione processuale ex art. 111 c.p.c. del nuovo creditore al posto di quello originario. In tal modo, la Corte territoriale finiva per spostare il baricentro dell’analisi dalla verifica della catena traslativa – e, dunque, della effettiva riferibilità del credito all’istituto che aveva agito in monitorio – alla mera constatazione dell’intervenuto subentro del cessionario, trattando la prova della prima fase della vicenda circolatoria come profilo recessivo e, di fatto, irrilevante.
Sul versante probatorio, la Corte d’appello adottava una impostazione altrettanto problematica. Pur riconoscendo che gli estratti conto erano stati prodotti solo a partire da una certa data intermedia del rapporto, avendo l’intermediario dichiarato di non essere in grado di reperire la documentazione relativa al periodo anteriore, il giudice di secondo grado reputava che tale lacuna non pregiudicasse la prova del credito, valorizzando la mancata formulazione, nell’atto di opposizione, di una specifica censura relativa alla regola del c.d. “saldo zero” e, più in generale, alla correttezza dei conteggi. In questa prospettiva, la mancanza di estratti dall’apertura del rapporto veniva sostanzialmente neutralizzata sulla base del comportamento difensivo dell’opponente, quasi che fosse quest’ultimo a dover dimostrare l’erroneità delle operazioni di calcolo, piuttosto che l’intermediario a dover fornire la prova integrale della sequenza contabile.
Tale impostazione conduceva la Corte territoriale a ritenere, da un lato, che le censure sulla inadeguatezza probatoria del saldaconto originariamente prodotto si fossero esaurite nel successivo sviluppo del giudizio, grazie all’integrazione documentale, e, dall’altro lato, che la mancata enunciazione, nell’atto di opposizione, di specifici “errori di conteggio” impedisse di pretendere l’applicazione della regola del saldo zero nella ricostruzione del rapporto. Il ricorso per cassazione del correntista si appuntava, in modo mirato, su questi due snodi: da un lato, l’omessa verifica effettiva della titolarità sostanziale del credito in capo al soggetto che aveva agito in via monitoria, nonostante la contestazione relativa alla scissione e alla catena delle cessioni; dall’altro, la violazione dei criteri sull’onere della prova e sulle modalità di ricostruzione del saldo in presenza di documentazione incompleta, con particolare riferimento al ruolo del saldo zero nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. È su questo duplice crinale – soggettivo e probatorio – che la Corte di cassazione è intervenuta, ridisegnando il perimetro dei poteri del giudice di merito e degli oneri gravanti sull’intermediario creditore nel contenzioso monitorio bancario.
SOLUZIONE
La Corte di cassazione affronta il ricorso muovendo da un’operazione di selezione dei motivi che, a ben vedere, anticipa già l’impostazione di fondo della decisione. Vengono ritenuti fondati il primo, il sesto e il settimo motivo, mentre il secondo, il quarto e il quinto sono dichiarati inammissibili e il terzo e l’ottavo vengono dichiarati assorbiti dall’accoglimento dei motivi centrali. L’esito è la cassazione con rinvio della sentenza d’appello, con indicazione piuttosto netta dei principi cui il giudice di rinvio dovrà attenersi.
Sul piano logico, il primo snodo affrontato dalla Corte riguarda il profilo soggettivo della pretesa: la titolarità del credito in capo al soggetto che ha agito in via monitoria e, successivamente, l’intervento del cessionario ai sensi dell’art. 111 c.p.c. La Corte territoriale aveva ritenuto che le contestazioni dell’opponente sulla legittimazione sostanziale dell’originario creditore – fondate sul difetto di prova dell’operazione di scissione da cui questo traeva titolo – fossero ormai “consumate e assorbite” dalla sostituzione processuale del cessionario, la cui posizione veniva ritenuta adeguatamente dimostrata attraverso la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’avviso di cessione in blocco.
La Cassazione qualifica tale impostazione come “palesemente viziata”. La contestazione dell’esistenza stessa della vicenda traslativa da cui il cessionario trae il proprio titolo non attiene alla mera legittimazione processuale, ma investe la titolarità sostanziale del lato attivo dell’obbligazione, e, dunque, un fatto costitutivo complesso, rientrante nella categoria dei c.d. fatti-diritto (Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951; Cass., Sez. Un., 3 giugno 2015, n. 11377). Proprio per la sua natura, esso può e deve essere oggetto di verifica anche d’ufficio da parte del giudice, alla luce del complessivo materiale probatorio.
In questa prospettiva, la Corte ricostruisce la catena traslativa come composta da due segmenti distinti: una prima operazione (la scissione o cessione originaria che attribuisce il credito all’istituto che agisce in via monitoria) e una successiva operazione di cessione in blocco che trasferisce il medesimo credito alla società veicolo intervenuta in corso di causa. È dunque logico che la prova della seconda cessione presupponga la prova della prima: non è possibile ritenere “sanata” la carenza probatoria sul primo segmento per il solo fatto che il secondo risulti dimostrato. La Corte d’appello, invece, ha ritenuto che, raggiunta la prova della cessione in favore del nuovo creditore e del suo intervento ex art. 111 c.p.c., la questione dell’originaria attribuzione del credito al soggetto che aveva promosso il monitorio potesse considerarsi assorbita. È precisamente questa sequenza logica che la Cassazione smentisce, affermando che la titolarità del credito in capo all’originario attore monitorio costituiva questione autonoma, anzi pregiudiziale, rispetto alla titolarità del cessionario, e che essa avrebbe dovuto essere specificamente vagliata.
A rafforzare tali conclusioni, la Corte richiama espressamente il noto passaggio delle Sezioni Unite sulla non contestazione dei fatti-diritto. Non è sufficiente, infatti, evocare un generico difetto di “tempestiva obiezione” da parte dell’opponente per ritenere definitivamente acquisita la circostanza della titolarità del credito: la non contestazione non opera automaticamente quando in gioco vi sono elementi complessi del fatto costitutivo, e il giudice conserva il potere – e in casi come questo il dovere – di confrontare le allegazioni di parte con gli atti e la documentazione in atti (Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951). Ne deriva che la Corte territoriale non poteva limitarsi a un fugace inciso sulla presunta tardività dell’eccezione, né poteva considerare “assorbita” la questione per effetto della sostituzione ex art. 111 c.p.c.; avrebbe dovuto, invece, verificare in concreto se la prova dell’operazione straordinaria da cui l’originario attore traeva il credito fosse stata o meno adeguatamente fornita.
A valle di questa ricostruzione, il primo motivo viene accolto, mentre il secondo – che censurava la sentenza nella parte in cui aveva suggerito, sia pure incidentalmente, la tardività dell’eccezione – è dichiarato inammissibile, perché rivolto contro un’affermazione priva del carattere di effettiva ratio decidendi. Il terzo motivo, che lamentava un difetto di motivazione sulla stessa questione, viene considerato meramente riproduttivo, da altra angolazione, del primo, e, quindi, rimane assorbito dal suo accoglimento. Analogo destino di inammissibilità tocca al quarto motivo, con il quale il ricorrente criticava la prova della cessione in blocco a favore del cessionario: sotto la veste di violazione di legge, il motivo tendeva, in realtà, a sollecitare una rilettura del materiale probatorio, ossia un apprezzamento di fatto non scrutinabile in sede di legittimità, salva – come la Corte precisa – la permanenza del vizio già rilevato con riferimento al primo segmento della vicenda traslativa.
Il secondo grande blocco della motivazione riguarda il profilo probatorio relativo all’andamento del rapporto di conto corrente e alla determinazione del saldo. È qui che si innestano il sesto e il settimo motivo, ritenuti entrambi fondati. La Corte richiama, anzitutto, il principio – da anni consolidato – secondo cui l’opposizione a decreto ingiuntivo non determina alcuna inversione nella posizione sostanziale delle parti: il creditore monitorante, divenuto opposto, conserva la qualità di attore in senso sostanziale e su di lui continua a gravare l’onere di provare il credito azionato; l’opponente mantiene la posizione di convenuto quanto alla distribuzione dell’onere probatorio. In ambito bancario, ciò si traduce nella necessità che l’intermediario produca il contratto e gli estratti conto sin dall’apertura del rapporto, non potendo invertire surrettiziamente l’onere probatorio sul correntista.
La Corte d’appello, pur riconoscendo che erano stati prodotti solo gli estratti conto decorrenti da una data intermedia del rapporto, aveva ritenuto superabile tale lacuna valorizzando la mancata deduzione, nell’atto di opposizione, di specifici “errori di conteggio” e, soprattutto, la mancata invocazione tempestiva della regola del c.d. saldo zero. In questa prospettiva, si era finito per far gravare sull’opponente l’onere di dimostrare in quale misura il difetto di documentazione incidesse sul calcolo del saldo, quasi che l’applicazione del saldo zero fosse rimessa all’iniziativa difensiva del correntista.
La Cassazione ribalta radicalmente questa impostazione, ponendosi nel solco della propria più recente giurisprudenza in materia (Cass. 29 ottobre 2020, n. 23852; Cass. 17 gennaio 2024, n. 1763; Cass. 2 maggio 2024, n. 11735). Viene ribadito che, in presenza di una domanda di condanna al pagamento del saldo passivo, la mancanza di estratti conto dall’origine o per periodi intermedi non può essere neutralizzata facendo leva sulla condotta difensiva del correntista: essa incide direttamente sulla prova dell’an del credito e, dunque, sulla possibilità stessa di ritenere dimostrata la pretesa creditoria. Proprio per ovviare a tali lacune, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato – e ora sistematizza – la regola del saldo zero, intesa non come eccezione in senso stretto, ma come criterio di ricostruzione del rapporto che discende dalla distribuzione degli oneri probatori.
In tale prospettiva, la Corte riepiloga gli effetti concreti del saldo zero: quando non vi sia documentazione a partire dall’apertura del rapporto, il saldo iniziale del primo estratto disponibile deve essere azzerato, e la ricostruzione prosegue esclusivamente sulla base degli estratti successivi; quando vi sia un vuoto documentale su periodi intermedi, devono essere azzerati i soli saldi relativi ai periodi non coperti. Il meccanismo opera, specularmente, tanto nella prospettiva della banca quanto in quella del correntista che agisce in ripetizione, ma lo snodo decisivo, nel giudizio di opposizione, è che sia sempre il creditore opposto a dover offrire una base documentale sufficiente per la ricostruzione del rapporto, mentre il debitore beneficia dell’azzeramento nei limiti in cui la documentazione manchi. (Cass. 2 maggio 2024, n. 11735).
Rispetto a questo quadro, la motivazione d’appello risulta, agli occhi della Cassazione, doppiamente erronea. Da un lato, essa ha “obliterato il fondamentale principio” secondo cui l’onere di provare il credito grava sull’opposto, ritenendo che l’inerzia dell’opponente nell’indicare errori di conteggio fosse sufficiente per considerare raggiunta la prova del credito, nonostante la documentazione lacunosa. Dall’altro lato, ha disatteso la regola specifica per cui la banca, quale attrice sostanziale in una controversia sul saldo di conto corrente, deve produrre gli estratti a partire dall’apertura del rapporto e non può colmare il vuoto probatorio con la sola mancata contestazione del correntista. In questo senso, la Corte osserva che l’assenza parziale della documentazione non riguarda un mero profilo di quantificazione, ma investe la dimostrazione stessa della pretesa azionata.
Ne consegue che il riferimento, da parte della Corte territoriale, alla mancanza di una puntuale deduzione di “errori di conteggio” e alla mancata invocazione tempestiva del saldo zero non può valere a legittimare la decisione: il saldo zero, proprio perché è criterio di giudizio e non eccezione di parte, deve essere applicato dal giudice una volta accertata l’incompletezza della documentazione, senza che ciò richieda uno specifico impulso dell’opponente. L’orientamento della Corte d’appello, che subordinava l’applicazione del criterio alla condotta difensiva dell’opponente, viene dunque espressamente sconfessato.
Su questa base, il sesto e il settimo motivo vengono accolti. L’ottavo motivo, relativo al mancato accoglimento dell’istanza di consulenza tecnica d’ufficio, resta assorbito: la nuova ricostruzione del quadro probatorio, conformemente ai principi sopra delineati, comporterà verosimilmente una diversa valutazione della necessità e dell’oggetto di una eventuale C.T.U. L’unico motivo che toccava più direttamente il tema delle preclusioni istruttorie (quinto motivo) è, invece, dichiarato inammissibile per difetto di specificità, non avendo il ricorrente indicato con la precisione richiesta dall’art. 366, n. 6, c.p.c. il contenuto del documento asseritamente tardivo e la sequenza processuale delle relative produzioni, né avendo consentito alla Corte di verificare se sulla questione vi fosse stata una pronuncia, pur implicita, da parte del giudice di merito.
In conclusione, la Suprema Corte accoglie il primo, il sesto e il settimo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il secondo, il quarto e il quinto, assorbe il terzo e l’ottavo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello in diversa composizione, affinché si uniformi ai principi affermati in ordine, da un lato, alla verifica della titolarità sostanziale del credito, e, dall’altro, alla distribuzione dell’onere probatorio e ai criteri di ricostruzione del saldo di conto corrente in presenza di documentazione incompleta.
QUESTIONI
Il primo versante sul quale la pronuncia incide è quello, tutt’altro che lineare, del rapporto fra titolarità sostanziale del credito, legittimazione ad agire e meccanismi successori ex art. 111 c.p.c. nel contesto delle cessioni in blocco e delle operazioni su portafogli di crediti bancari.
La Corte di cassazione muove da un presupposto che, pur radicato nella giurisprudenza di legittimità, non è sempre adeguatamente metabolizzato nella prassi: la contestazione dell’esistenza stessa della vicenda traslativa da cui il creditore trae il proprio titolo non pone in discussione la mera legittimazione ad agire, ma investe la titolarità sostanziale del lato attivo dell’obbligazione. Questa, lungi dall’essere un “semplice fatto storico”, rientra nella categoria dei fatti-diritto: elementi costitutivi complessi che incorporano, al loro interno, qualificazioni giuridiche e valutazioni sulla riconducibilità di determinate operazioni (scissioni, cessioni, conferimenti di ramo d’azienda) alla fattispecie astratta da cui la parte pretende di trarre il proprio diritto.(Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951; 3 giugno 2015, n. 11377).
È proprio questo inquadramento che consente alla Corte di utilizzare il principio di non contestazione in chiave non meramente “meccanica”: se la non contestazione può operare con forza rispetto a fatti storici semplici, la sua portata si riduce quando entra in gioco la struttura del diritto dedotto in giudizio. In tali casi, il silenzio o la genericità difensiva della controparte non impediscono al giudice di verificare, alla luce degli atti e del materiale probatorio, la stessa esistenza del fatto-diritto allegato. Applicato alla fattispecie, questo schema porta a una conseguenza tutt’altro che marginale: la catena delle cessioni e delle operazioni straordinarie che hanno interessato il credito deve essere provata in ogni suo tratto rilevante. Se il credito azionato in monitorio è il risultato di una sequenza di operazioni (ad esempio, una scissione che trasferisce un ramo d’azienda comprendente il rapporto, seguita da una cessione in blocco a favore di un ulteriore cessionario), non è sufficiente dimostrare l’ultimo passaggio per ritenere sanate eventuali lacune probatorie sui passaggi precedenti.
L’intervento in giudizio del successore a titolo particolare ex art. 111 c.p.c. non ha, dunque, un effetto “purificante” sugli eventuali difetti originari di titolarità in capo al soggetto che ha agito in via monitoria; al contrario, li presuppone e, se del caso, li trascina. Da questo punto di vista, l’ordinanza si pone in linea – e, anzi, rafforza – quel filone giurisprudenziale che, con riferimento alle cessioni in blocco di portafogli bancari, insiste sulla necessità che il creditore che agisce in giudizio dia conto non solo dell’esistenza di un avviso pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ma anche della effettiva riconducibilità del singolo rapporto controverso alla massa ceduta. Ciò vale, a fortiori, quando la vicenda traslativa si articola in più fasi e l’originaria attribuzione del credito deriva da un’operazione societaria di riorganizzazione interna: in tali ipotesi, la prova della “prima” operazione non può essere considerata assorbita dalla prova della “seconda”, pena la trasformazione del principio di non contestazione in un surrogato dell’onere probatorio, anziché in una regola di semplificazione del contraddittorio.
Le implicazioni per la prassi sono nette: nei giudizi promossi da cessionari seriali di crediti, non è più sostenibile un approccio difensivo che confidi esclusivamente nella pubblicazione dell’avviso di cessione e nella relativa non contestazione. Occorre, al contrario, predisporre un quadro documentale che consenta di seguire il credito lungo l’intera filiera traslativa rilevante per il giudizio, potendo il debitore contestare – e il giudice verificare anche d’ufficio – la completezza e la tenuta di tale ricostruzione.
Proprio sul versante processuale, Il secondo nucleo problematico riguarda la struttura del giudizio di opposizione e la distribuzione degli oneri probatori al suo interno. L’ordinanza in commento si colloca qui nel solco di un orientamento ormai stabile, ma lo fa con un grado di chiarezza che dovrebbe scoraggiare certe derive applicative di merito. Il punto di partenza è noto: l’opposizione a decreto ingiuntivo non determina alcuna inversione dei ruoli sostanziali delle parti. Il creditore che ha ottenuto il decreto, pur divenendo formalmente “opposto”, conserva la posizione di attore in senso sostanziale; il debitore opponente resta, quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, il convenuto. La fase di cognizione piena che si apre con l’opposizione non è un contenzioso “nuovo”, ma il proseguimento, in forma contraddittoria, della domanda originariamente proposta in via monitoria.
Da questa premessa discende una conseguenza che la Corte ribadisce con forza: è il creditore opposto a dover fornire la prova del diritto azionato, e non l’opponente a dover dimostrare l’inesistenza o l’erroneità della pretesa. Applicato al contenzioso bancario, ciò implica, in concreto, che l’intermediario debba produrre il contratto di conto e la serie completa degli estratti conto sin dall’apertura del rapporto, non potendo ritenere sufficiente la documentazione presentata in sede monitoria né potendo surrettiziamente traslare sul correntista l’onere di colmare eventuali vuoti documentali.
La decisione censura proprio la tendenza, emersa in sede d’appello, a considerare “assorbente” la condotta difensiva del debitore: il fatto che, nell’atto di opposizione, non siano stati evidenziati specifici “errori di conteggio” o che non sia stata espressamente invocata la regola del saldo zero non può essere utilizzato per trasformare una documentazione lacunosa in prova pienamente sufficiente del credito. In altri termini, l’assenza di una contestazione particolarmente sofisticata da parte dell’opponente non costituisce un rimedio ai difetti strutturali della prova offerta dal creditore, soprattutto quando tali difetti incidono sulla possibilità stessa di ricostruire l’andamento del rapporto.
Da qui discende una duplice indicazione operativa. Per il creditore, l’ottenimento del decreto ingiuntivo non può essere considerato il punto di arrivo dell’onere probatorio, ma soltanto la soglia minima per superare il vaglio sommario della fase monitoria: una volta instaurata l’opposizione, egli deve essere pronto a “convertire” quella soglia in un apparato probatorio completo, adeguato alla cognizione piena. Per il debitore, la pronuncia conferma che è sempre possibile – e spesso decisivo – articolare un’opposizione centrata sulla incompletezza della documentazione e sulla conseguente necessità di ricostruire integralmente il rapporto, senza che la mancata specificazione di ogni singolo profilo contabile determini un aggravio ingiustificato del proprio carico probatorio.
In questa chiave, l’ordinanza dialoga in modo evidente con la giurisprudenza che, negli ultimi anni, ha progressivamente chiarito che la banca non può limitarsi a produrre estratti relativi a periodi terminali o selezionati del rapporto, né può confidare sul fatto che il correntista, per ragioni pratiche o economiche, non sia in grado di reperire autonomamente la documentazione: l’onere di “mettere sul tavolo” l’intero sviluppo del rapporto resta in capo all’attore sostanziale, anche nel giudizio di opposizione.
Il terzo snodo – e probabilmente quello di maggiore impatto applicativo – riguarda la qualificazione e il ruolo del c.d. saldo zero nella ricostruzione dei rapporti di conto corrente in presenza di documentazione incompleta. L’ordinanza 13667/2025 si colloca, sotto questo profilo, in continuità con una serie di decisioni che hanno progressivamente sistematizzato l’istituto, a partire da Cass. 29 ottobre 2020, n. 23852, fino alle più recenti Cass. 17 gennaio 2024, n. 1763, e Cass. 2 maggio 2024, n. 11735. Ciò che emerge con chiarezza è che il saldo zero non è una “tecnica difensiva” che il correntista deve articolare in termini di eccezione specifica, bensì un criterio tecnico di ricostruzione del rapporto che discende direttamente dalla combinazione tra l’art. 2697 c.c. e la struttura del contratto di conto corrente.
Quando la banca non è in grado di produrre gli estratti dall’apertura del conto, o quando vi sono “vuoti” documentali su periodi intermedi, non è possibile ritenere provato il credito limitandosi a prendere atto dei saldi registrati in epoca successiva: l’assenza di documentazione incide non sul solo quantum, ma sull’an del credito, poiché rende impossibile verificare come i singoli addebiti (operazioni passive, interessi, commissioni) abbiano concorso a formare il saldo successivo. Il saldo zero è, in questa prospettiva, una tecnica di neutralizzazione di tale incertezza. Se manca documentazione dall’inizio, il primo estratto conto disponibile non può essere assunto come base “piena” della ricostruzione, ma deve essere epurato del saldo iniziale e considerato come se partisse da zero, con ricostruzione del dare/avere solo per il periodo coperto. Se mancano documenti su periodi intermedi, i saldi relativi ai periodi “buio” non possono essere presi in considerazione e devono anch’essi essere azzerati, ripartendo dall’ultimo saldo affidabile. In entrambi i casi, il meccanismo ha un effetto sostanzialmente simmetrico: per quei periodi, la banca non ottiene nulla e il correntista non recupera nulla, evitando il rischio di generare due saldi difformi a seconda del punto di vista (del creditore o del debitore) preso in considerazione (Cass. 17 gennaio 2024, n. 1763; Cass. 2 maggio 2024, n. 11735).
L’aspetto decisivo, che l’ordinanza sottolinea, è che questa tecnica non è rimessa alla libera scelta del giudice, né alla diligenza redazionale dell’opponente: una volta accertato che la documentazione è incompleta, il saldo zero deve essere applicato ex officio, in quanto modalità necessaria di utilizzare il materiale probatorio effettivamente a disposizione. Richiedere al correntista di formulare espressamente una “domanda di saldo zero” equivarrebbe a scaricare su di lui l’onere di individuare il criterio con cui il giudice deve colmare – o, meglio, gestire – la lacuna probatoria del creditore; ma ciò contrasterebbe con la regola generale per cui le difficoltà probatorie relative al fatto costitutivo restano nella sfera di rischio di chi quel fatto allega.
La pronuncia assume così un valore chiaramente sistematico: da un lato consolida l’idea che il saldo zero non sia una costruzione “eccezionale” elaborata per casi limite, ma uno strumento ordinario di razionalizzazione della prova nei rapporti di conto corrente; dall’altro lato, ne fissa la natura di criterio di giudizio, sottraendolo alle logiche delle preclusioni e delle non contestazioni, che hanno senso sul piano delle allegazioni e delle eccezioni di parte, ma non possono governare le modalità con cui il giudice utilizza – o deve utilizzare – il materiale probatorio disponibile.
Letta nel suo complesso, la decisione offre alcune indicazioni operative di immediata spendibilità nel contenzioso monitorio bancario. Per il versante creditorio, l’ordinanza conferma che l’ottenimento del decreto ingiuntivo sulla base di un saldaconto o di un estratto ex art. 50 T.U.B. costituisce solo la prima tappa di un percorso probatorio che, in caso di opposizione, deve essere completato con la produzione del contratto e della serie integrale degli estratti conto, oltre che con una documentazione accurata della catena delle cessioni. Affidarsi, in appello, al mero dato della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale o alla mancanza di contestazioni analitiche dell’opponente significa esporsi al rischio concreto di una cassazione per difetto di prova del fatto costitutivo.
Dal lato del debitore, la pronuncia suggerisce un modello di difesa in cui l’attenzione viene concentrata su due piani: da un lato, la messa in discussione della titolarità sostanziale del credito, specie quando il rapporto sia transitato attraverso operazioni straordinarie e cessioni in blocco; dall’altro, la sottolineatura dell’incompletezza documentale e la richiesta di una ricostruzione del rapporto che faccia applicazione dei criteri elaborati dalla giurisprudenza, incluso il saldo zero, e che, se del caso, si avvalga di una C.T.U. contabile costruita in modo coerente con tali parametri. In questa prospettiva, l’eccezione dell’opponente non si riduce a una contestazione “numerica” del saldo, ma assume la forma più ampia di un’azione di accertamento negativo del credito, nella quale la verifica della titolarità e quella della prova dell’andamento del rapporto sono due momenti di un unico giudizio sulla fondatezza della pretesa.
In definitiva, l’ordinanza 13667/2025 non si limita a correggere due errori motivazionali del giudice di appello, ma interviene su tre snodi di sistema – titolarità del credito nel contesto delle cessioni, struttura del giudizio di opposizione e funzione del saldo zero – rafforzando una linea interpretativa che, se assunta con coerenza, è destinata a incidere in modo significativo sugli equilibri processuali del contenzioso bancario.
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