9 Dicembre 2025

La sentenza che dichiara la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divisione endoesecutiva è impugnabile con l’appello

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. II, 14 ottobre 2025, n. 27406 – Pres. Rel. Manna

Esecuzione forzata – Espropriazione di beni indivisi – Divisione – Giudizio di divisione endoesecutiva – Sentenza che dichiara cessata la materia del contendere – Impugnazione – Appello

Massima: “Allorché l’espropriazione dei beni indivisi dia luogo alla divisione endoesecutiva, i due processi – l’uno esecutivo, l’altro dichiarativo – restano tra loro autonomi, ancorché funzionalmente e strutturalmente connessi; pertanto, ove il giudizio di divisione sia definito con una declaratoria di cessazione della materia del contendere, il rimedio esperibile contro tale pronuncia è costituito (non dall’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c. o dal reclamo ex artt. 308 o 630 c.p.c., bensì) dall’appello, secondo le forme ordinarie”.

CASO

Avanti al Tribunale di Venezia veniva radicata un’espropriazione immobiliare avente per oggetto la quota indivisa di un immobile di cui era titolare la debitrice.

Sospesa l’esecuzione, avviato il giudizio di divisione endoesecutiva e ravvisata la non comoda divisibilità dell’immobile, ne veniva disposta la vendita; dopo che erano già stati esperiti inutilmente diversi tentativi di vendita, l’ultimo non poteva essere celebrato in quanto non era stato pagato al professionista delegato il fondo spese liquidato dal giudice.

Ritendo che ciò dimostrasse il sostanziale disinteresse delle parti ad addivenire alla divisione, veniva dichiarata la cessazione della materia del contendere.

Il creditore procedente impugnava la sentenza, che veniva riformata dalla Corte d’appello di Venezia, secondo cui, da un lato, non poteva essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, stante il carattere tassativo delle cause d’improcedibilità per il mancato compimento di atti d’impulso processuale e, dall’altro lato, le disposizioni recate dagli artt. 631-bis c.p.c. e 164-bis disp. att. c.p.c., essendo dettate per il processo esecutivo, non potevano applicarsi al giudizio di divisione endoesecutiva.

La pronuncia di secondo grado era gravata con ricorso per cassazione dai comproprietari.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che l’autonomia e l’indipendenza strutturale che caratterizzano il giudizio di divisione endoesecutiva – pure funzionalmente connesso al processo esecutivo avente per oggetto l’espropriazione di beni indivisi – escludono che il provvedimento conclusivo dello stesso possa essere impugnato avvalendosi dei rimedi (reclamo ex art. 630 c.p.c. od opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.) tipici del processo esecutivo, dovendosi pertanto impiegare i rimedi impugnatori ordinari, anche nel caso in cui si tratti di sentenza che dichiara la cessazione della materia del contendere.

QUESTIONI

[1] La sentenza che si annota offre numerosi e interessanti spunti di riflessione in merito ai rapporti tra il giudizio di divisione endoesecutiva e il processo di espropriazione forzata nell’ambito del quale si innesta o dal quale scaturisce.

È noto, infatti, che, allorquando venga pignorata la quota del diritto reale di cui è titolare il debitore, l’esecuzione deve avvenire nelle forme stabilite dagli artt. 599 e seguenti c.p.c., che, quanto alle modalità di liquidazione del bene oggetto del pignoramento, prevede tre alternative:

  • la separazione in natura, che consiste nel distacco fisico della parte di bene corrispondente alla quota di cui è titolare il debitore esecutato, su cui viene a concentrarsi l’azione esecutiva, rimanendo la restante parte in comunione tra i contitolari non esecutati;
  • la vendita della quota, qualora il giudice ravvisi la ragionevole possibilità di ricavare un prezzo pari o superiore al valore stimato ai sensi dell’art. 568 c.p.c.;
  • la divisione, quando non sia praticabile alcuna delle due alternative sopra descritte, che deve avvenire nell’ambito di un apposito giudizio – previa sospensione del processo esecutivo – istruito dal medesimo giudice dell’esecuzione (inteso come magistrato persona fisica), secondo quanto stabilito dall’art. 181 disp. att. c.p.c. e ora, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 164/2024, destinato a svolgersi nelle forme del giudizio semplificato di cognizione (artt. 281-undecies e seguenti c.p.c.).

Nella stragrande maggioranza dei casi, l’esito naturale (o, se si preferisce, fisiologico) del processo esecutivo scaturito dal pignoramento di beni indivisi è proprio la divisione, detta per questo endoesecutiva; il che spiega la grande attenzione che vi ha dedicato la giurisprudenza (si veda, per esempio, la pronuncia di Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2018, n. 20817, che ha dettagliatamente analizzato le modalità di introduzione del giudizio in questione, fissando le linee guida alle quali conformarsi).

Nel caso di specie, a venire in rilievo è stato, in primo luogo, lo strumento con cui impugnare il provvedimento che aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere (essendo stato ritenuto il sostanziale disinteresse delle parti a conseguire la divisione, poiché non era stato versato al professionista cui erano state delegate le operazioni di vendita del bene ritenuto non comodamente divisibile il fondo spese assegnatogli).

Secondo i ricorrenti, si trattava di una sentenza assimilabile a quella prevista dal comma 2 dell’art. 308 c.p.c.

Per i giudici di legittimità, invece, la declaratoria di cessazione della materia del contendere non equivale a una pronuncia di estinzione, per quanto in entrambi i casi si determini il venire meno del processo.

La cessazione della materia del contenere costituisce una fattispecie di estinzione di matrice giurisprudenziale, che si verifica quando sopravvenga una situazione che elimini la ragione del contendere delle parti, facendo venire meno l’interesse ad agire e a contraddire, ovvero a ottenere un risultato utile e giuridicamente apprezzabile, conseguibile solo mediante l’intervento del giudice.

Per questo motivo, la cessazione della materia del contendere è di per sé compatibile solo con il processo di cognizione, giacché, da un lato, presuppone un contraddittorio in senso tecnico e pieno, che non è ravvisabile nel processo esecutivo (in cui non si accertano diritti al fine di emanare una statuizione in grado di modificare la realtà giuridica, ma si realizzano coattivamente quelli già accertati e consacrati in un titolo esecutivo), parlandosi, infatti, di contraddittorio attenuato e di principio di audizione (quale strumento volto al migliore esercizio dei poteri ordinatori del giudice dell’esecuzione).

La disciplina del processo esecutivo, d’altra parte, ne regola espressamente l’estinzione (agli artt. 629 e seguenti c.p.c.), che si distingue nettamente dalla cessazione della materia del contendere, sia per quanto riguarda la forma del provvedimento dichiarativo, sia per quanto concerne i rimedi con i quali impugnare quest’ultimo: nel primo caso, l’ordinanza è reclamabile ai sensi dell’art. 630 c.p.c. (in quanto si tratta di estinzione dichiarata per effetto di una delle cause tipicamente previste dal legislatore), mentre, nel secondo caso, si configura un’ordinanza di chiusura anticipata – o, in altri termini, di improcedibilità – del processo esecutivo, opponibile ai sensi dell’art. 617 c.p.c.

Detto ciò, il giudizio di divisione endoesecutiva, per quanto funzionalmente collegato al processo esecutivo, ne rimane autonomo, non costituendo un subprocedimento o una fase di questo, con la conseguenza che i rimedi esperibili nel secondo non sono applicabili al primo, salvo che si tratti di provvedimenti resi nella fase – tipicamente, quella avente per oggetto le operazioni di vendita del bene indiviso – che resta per espresso dettato normativo assoggettato alle disposizioni che regolano l’espropriazione forzata. Così, gli atti relativi al procedimento di vendita svolti nell’ambito del giudizio di divisione endoesecutiva sono soggetti al rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’att. 617 c.p.c., poiché anche in questo caso la finalità è la medesima, sicché l’esplicito rinvio contenuto nell’art. 788 c.p.c. alle norme del processo esecutivo deve intendersi come sistematico, non avendo senso scandire il procedimento di vendita con i passi del processo esecutivo per poi sovrapporvi un diverso apparato rimediale.

Pertanto, quando il giudizio di divisione endoesecutiva sia definito con una declaratoria di cessazione della materia del contendere, la relativa pronuncia va impugnata (non già con l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c. o con il reclamo ex art. 630 c.p.c., bensì) con l’appello, secondo le regole ordinarie.

In secondo luogo, è stata valutata l’applicabilità al giudizio di divisione endoesecutiva delle norme dettate dagli artt. 164-bis disp. att. c.p.c. e 631-bis c.p.c.

La risposta affermativa, quanto all’art. 164-bis disp. att. c.p.c. (a mente del quale va disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo), discende, secondo i giudici di legittimità, dalla connessione di tipo funzionale – cui se ne accompagna una parziale di tipo strutturale – che lega tale giudizio, sebbene autonomo, al processo esecutivo, entrambi accomunati dallo scopo di addivenire alla liquidazione del bene per realizzare la finalità propria dell’espropriazione; fermo restando che il provvedimento assunto ai sensi dell’art. 164-bis disp. att. c.p.c., avendo carattere squisitamente esecutivo, rimane estraneo alla fase cognitiva della divisione endoesecutiva.

La risposta negativa, quanto all’art. 631-bis c.p.c., invece, muove dalla rilevata inoperatività, nel caso di specie, della disposizione ratione temporis, essendo entrata in vigore in un momento successivo alla pronuncia dell’ordinanza di vendita e alla scadenza del termine fissato per il versamento del fondo spese liquidato in favore del professionista delegato. Al di là di questo aspetto di carattere contingente, l’opinione prevalente ritiene comunque che la disposizione in parola non possa trovare generale applicazione nel giudizio di divisione endoesecutiva: se l’omessa o la tardiva pubblicazione dell’avviso di vendita sul portale delle vendite pubbliche impedisce di procedere oltre, producendo una vera e propria situazione di stasi che preclude la prosecuzione delle operazioni di liquidazione del bene, si potrà pervenire a una sentenza di definizione in rito del giudizio, cui farà seguito la pronuncia di improseguibilità (e non di estinzione) del processo esecutivo.

In terzo luogo, i giudici di legittimità hanno escluso l’applicabilità al giudizio di divisione endoesecutiva dell’art. 91 c.p.c., nella parte in cui stabilisce che il giudice, se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo detta proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la sua formulazione.

La disposizione, infatti, presuppone che sia stata proposta una domanda di condanna a una prestazione apprezzabile in termini quantitativi, dunque frazionabile (come, per esempio, il pagamento di una somma di denaro o la consegna di un certo quantitativo di altro bene fungibile), che non forma oggetto del petitum del giudizio di divisione endoesecutiva, che si innesta in un processo di espropriazione forzata diretto a dare esecuzione coattiva a una statuizione di condanna già presente nel titolo esecutivo. D’altra parte, l’art. 91 c.p.c. presuppone il potere del giudice di regolare le spese di lite, ponendole a carico dell’una o dell’altra parte, mentre nel processo esecutivo il giudice ha solo il potere di liquidarle a favore dei creditori, i quali hanno diritto di ripeterle dal debitore non per effetto di una decisione del giudice, ma in virtù di quanto disposto direttamente dalla legge (artt. 95 e 510 c.p.c.).

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